Venezia 64: l’uomo di oggi è quello di Hobbes PDF 
Maurizio Ermisino   

ImageHomo homini lupus, diceva il filosofo inglese Hobbes. Significa che l’uomo rispetto ai suoi simili è come un lupo, che il suo istinto lo porta a un conflitto ferino con il prossimo. Hobbes ci è venuto in mente davvero tante volte quando ci siamo trovati a commentare i film dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Se a vincere, infatti, è stata un’opera stranamente “indifferente” e distante da quella che è la realtà di oggi, Lust, Caution di Ang Lee, figlio di un cinema datato e laccato, che solo a tratti - quando toglie i vestiti e con essi le remore ai suoi personaggi - riesce ad avere una sua forza, molte delle altre pellicole presentate al Lido si sono fatte invece portavoce del mondo in cui viviamo, abitato da un’umanità sempre più divisa e in lotta con se stessa.

ImageCome quella protagonista della guerra tra poveri che è diventato il mondo del lavoro nell’era del precariato, raccontata magistralmente da Ken Loach nel suo It’s a Free World… (In questo mondo libero…). Le sue protagoniste Angie e Rose, disoccupate o mal occupate, decidono di aprire un’agenzia di lavoro interinale per non avere più datori di lavoro a cui sottostare. Ma finiscono per diventare a loro volta delle sfruttatrici verso persone meno fortunate, come i lavoratori stranieri, regolari o clandestini. Sono allo stesso tempo vittime e carnefici, ingranaggi di un sistema che tende a fagocitare chiunque. Oggi non si lavora con l’altro, ma contro l’altro, ci suggerisce Loach, i diritti non esistono più, così come non esiste più una coscienza di classe, o qualcosa che le somigli anche solo lontanamente. Homo homini lupus, appunto. Come accade ai soldati mandati in guerra: un’esperienza che imbarbarisce per sempre, e trasforma tanti giovani nel fiore della loro età in belve feroci che vagano in branco. I due film sulla guerra in Iraq sono stati due pugni nello stomaco: In the Valley of Elah di Paul Haggis racconta la storia di un padre che cerca di capire com’è morto il figlio appena tornato dall’Iraq, e scopre cose su di lui che non avrebbe mai voluto scoprire. Come il fatto che, al pari dei suoi compagni, abituati ai selvaggi riti della guerra, è diventato violento e irriconoscibile. Ed è un branco impazzito anche quello di Redacted di Brian De Palma, che vediamo alle prese con uno stupro, affrontato con la leggerezza di chi non ha più regole né leggi, se non quella del (basso) istinto, di chi non sa più distinguere il Bene dal Male.

ImageSi sbranano come due belve anche i protagonisti di Sleuth, di Kenneth Branagh, magistralmente interpretati da Michael Caine e Jude Law, ma come due maschi in lotta per una femmina. E per diventare il maschio Alfa, quello dominante. Sleuth è un thriller antropologico che scava nelle pieghe della natura umana, un apologo su possesso e potere, e su come ognuno di noi cambi se si trova ad impugnare il coltello (anzi, la pistola…) dalla parte del manico. Non è un’umanità che si sbrana, invece, quella di Le Graine et le Mullet, del franco-magrebino Abdellatif Kechiche, ma è un’umanità che si muove continuamente ed affannosamente. La corsa del protagonista nel lungo e intenso finale del film è il simbolo di quella, universale, che molti magrebini di Francia compiono ogni giorno per  trovare il proprio posto nel mondo. Il sogno, per molti, è aprire un ristorante in cui fare il cous cous di pesce, ed è qualcosa che si concretizza tra mille difficoltà e con mille sacrifici. Lo stile ai limiti del neorealismo di Kechiche è stato uno di quelli che più ha convinto al Festival. Quel voler dilatare a dismisura alcune sequenze (il pranzo, come la danza e la corsa finale) per farci entrare dentro più vita possibile, e la scelta di usare attori non professionisti, sono state tra le chiavi espressive più apprezzate.

ImageDal punto di vista dello stile, i film che più hanno sorpreso sono quelli in cui il racconto è stato frammentato, spezzato, diviso. A dimostrare l’impossibilità di racchiudere in un unico racconto i molteplici aspetti della verità. Redacted di De Palma è l’unione di frammenti, girati come se provenissero dalla telecamera di un soldato americano in Iraq, misti a fonti di informazione alternativa, come i video postati su YouTube e i commenti scovati nelle chat line. Tutto vero, tutto riprodotto in un film di finzione, come se però si trattasse di veri reperti, a mostrarci come la via dell’informazione verso la verità non sia univoca e non possa essere trovata solo ed esclusivamente attraverso le fonti ufficiali. Così come non può essere univoca la lettura dell’anima di una persona. È questo che vuole dirci Todd Haynes con il suo I’m Not There (Io non sono qui), usando sei attori diversi per raccontarci Bob Dylan. I sei personaggi in cerca d’autore si alternano e si rubano la scena l’un l’altro, inseguendosi e scontrandosi come schegge impazzite, dando vita a sei film diversi, e raccontando forse nell’unico modo possibile Bob Dylan e le sue molteplici anime. E ognuno di noi. Perché, come ha fatto notare il regista Todd Haynes, quando vediamo la nostra vita la rivediamo sempre a sprazzi, a spot, in maniera passionale, e mai con una visione di insieme.

Pur tra delusioni (i film italiani, ahinoi!) e film sopravvalutati (Michael Clayton e The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, selezionati al solo scopo di avere al Lido le star George Clooney e Brad Pitt), la Mostra di Venezia è riuscita a restituirci uno spaccato dell’umanità di oggi. Anche se forse il film che continua a mostrarci meglio qual è il nostro mondo, o il suo destino futuro, è stato girato 25 anni fa. Si tratta di Blade Runner di Ridley Scott (il final cut, versione definitiva, che non si discosta molto dal director’s cut del 1992, è stato presentato fuori concorso nella sezione “Venezia Notte”). Città multietniche e multirazziali, stranieri spesso destinati a riempire interi quartieri, piogge continue e inquinamento da riscaldamento globale, la clonazione umana, il desiderio dell’uomo di sostituirsi a Dio e diventare creatore a sua volta. Tutti temi che oggi sono più vivi che mai.

 


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