Oltre a raccontare la storia d’amore tra gli Stati Uniti e il capitalismo, quest’ultimo film di Michael Moore racconta inevitabilmente, seppure solo ad un secondo livello, anche la storia d’amore che intercorre tra il regista americano e il pubblico, il “pubblico” come entità. Non a caso Michael Moore, da bravo americano, ha fatto un’arte della ricerca di intrattenere un dialogo col pubblico, tanto che questo dialogo è il vero e proprio modus operandi che si nasconde dietro ad ogni suo film. I documentari di Moore non sono cioè opere chiuse, ma necessitano per la loro stessa esistenza di un pubblico: metà di quello che si vede sullo schermo durante la proiezione di un suo film non avrebbe motivo di esistere se non presumesse che esistano dall’altra parte degli spettatori pronti a recepire, a ridere e a indignarsi per le invettive del cineasta del Michigan. Una costruzione esplicitata dalla presenza o della voce o della figura dello stesso regista: rivolge domande (seppure spesso retoriche) all’audience, e cerca in ogni modo di operare un transfert psicologico tra gli spettatori e le persone (quelli che in tv si definirebbero “i casi umani”) che mette sotto la lente d’ingrandimento della macchina da presa per rendere evidenti le falle del sistema (sia esso militare, governativo, culturale, economico...) che critica. L’esempio più evidente (e forse anche moralmente più disprezzabile per l’utilizzo da “il fine giustifica i mezzi” che ne fa) è l’esibizione dei sentimenti della madre che aveva perso il figlio in guerra in Fahrenheit 9/11.
Ciò detto, si può poi disquisire sulla semplificazione spesso eccessiva operata da Michael Moore, solitamente imbevuta di un populismo di facile effetto (lui che si presenta fuori dal Parlamento americano e chiede a chi ne esce se manderà il figlio a combattere in Iraq), di cui anche quest’ultimo Capitalism: A Love Story non è scevro. Un populismo e una faciloneria che qui insistono a mettere in contrasto il capitalismo con la democrazia (e qui qualche storico avrebbe da ridire …), spingendosi fino al punto di dipingere degli Stati Uniti che sembrerebbero sul punto di voltare le spalle al dio denaro e, chissà, magari darsi alla rivolta (cosa che dire improbabile è dire poco). Tanto che, conoscendo i (buoni) gusti musicali di Michael Moore si sarebbe giurato che prima o poi una Power to the people di John Lennon o una People have the power di Patti Smith ce li avrebbe infilati. Come la We won’t get fooled again degli Who che avrebbe dovuto chiudere Fahrenheit 9/11. Invece no. Ma se da una parte questo utilizzo semplificatorio del mezzo cinematografico fa più gioco alla (contro)propaganda del regista che all’esemplificazione del problema detto (la crisi economica), va invece dato atto al cineasta di Flint il buon lavoro fatto nello spiegare il funzionamento dei derivati. Il resto è inevitabilmente quello che Moore sa fare meglio: mettere in ridicolo i potenti, dando loro (quasi chaplinianamente) un bel calcio nel di dietro.
Capitalism è, insomma, l’ennesimo esempio del documentario targato Michael Moore (dopo il suo Bowling for Colombine va ricordato non si può più guardare un documentario allo stesso modo), ovvero: personale, e personalistico, scanzonato e postmoderno, irriverente e moralista. Nonché un tale calderone del visibile da essere una perfetta esemplificazione dell’era di internet, con la sua struttura quasi orizzontale, il dispiegarsi di collegamenti infra ed extradiegetici, e la conoscenza del verbo visivo coniugata spesso con un’accezione pop e al contempo straniante. Un lavoro che aveva perfezionato all’altezza di Bowling for Colombine, macchiato con l’eccessiva foga drammatizzante di Fahrenheit 9/11, e ricondotto ad una maggiore sobrietà nel più recente Sicko. Il successo (soprattutto a livello di critica sociale) di quest’ultimo Capitalism: A Love Story sarà certamente più evidente (se ci sarà) nel lungo periodo. Intanto continuiamo ad apprezzare i soliti pregi del cinema di Moore, e a dissentire (seppur timidamente) su alcuni suoi eccessi. Sperando magari che alla prossima pellicola i suoi produttori non insistano ancora nel volerlo vedere sullo schermo il più possibile, così magari da lasciare più spazio al cinema. Più montaggi postmoderni di film preesistenti (il peplum su Roma/Washington dell’inizio di Capitalism) e più musica (la What a wonderful world messa a scandire le morti causate dagli Stati in Bowling), grazie.
TITOLO ORIGINALE: Capitalism: A Love Story; REGIA: Michael Moore; SCENEGGIATURA: Michael Moore; FOTOGRAFIA: Daniel Marracino, Jayme Roy; MONTAGGIO: Jessica Brunetto, Alex Meillier, Tanya Meillier, Conor O'Neill, Todd Woody Richman, Pablo Proenza, John W. Walter; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 120 min.
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