I Tenenbaum: la famiglia americana si ricongiunge di fronte alla morte presunta PDF 
Mario Bucci   

ImageA cavallo tra un millennio e l’altro, da un paese dominante come gli Stati Uniti sono emersi diversi progetti cinematografici che ne hanno saputo cogliere il senso del cambiamento. Appartenenti a generi diversi, sia Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson, sia American Beauty (1999) di Sam Mendes, che I Tenenbaum (2001) di Wes Anderson hanno saputo portare sul grande schermo la malinconica interpretazione dei codificati ruoli nella società, e ne hanno saputo cogliere e raccontare il loro crollare e disintegrarsi, o il semplice smarrirsi. In fondo sia in Magnolia che nel film di Wes Anderson c’è un padre malato di cancro (vero e presunto), così come il tema del suicidio è presente sia ne I Tenenbaum che nella pellicola di Sam Mendes. Tutti e tre, poi, partono dal disgregamento della famiglia. Trattandosi di una commedia, il film di Wes Anderson non può non proporre una soluzione del percorso in senso positivo, non può non guardare comunque ad un esito riconciliante del dramma famigliare (sociale) americano, e sebbene non sia questa l’unica differenza, esiste in tutti e tre i lavori un’ombra malinconica evidente, messaggera di un respiro comune negli Stati Uniti, che accompagna tutti e tre questi lavori, e che in qualche modo li può rendere tra loro cugini.

ImageCostruito come un libro a capitoli, che può quindi permettersi una narrazione strutturata su brevi flashback ed astute ellissi, e la cui trama è affidata dunque ad una voce narrante che ne tiene le fila, I Tenenbaum di Wes Anderson nasce forse proprio dall’interesse dell’americano medio per una cultura fatta di fenomeni da baraccone non troppo brutti da vedere, e che meritano di finire tra i best seller in vendita nelle farmacie o in autostrada. Questo riferimento al libro, presente sin dai titoli di testa e che si chiude con la pubblicazione dello psicanalista Raleigh, non è infatti solo un espediente narrativo (la divisione del film in capitoli Wes Anderson l’aveva già usata nel precedente Rushmore), ma anche un voler spingere il racconto, e tutti i suoi “disordinati” protagonisti, lontano dalla realtà immediatamente riconoscibile, verso una più poetica (e così anche più visionaria e libera) rappresentazione del reale. Attraverso dunque una messa in scena colorata, dettagliata, molto spesso sopra le righe, rigorosamente estetizzata, il film si propone comunque di fare il quadro (quadretto famigliare) di quella che è la condizione della città di New York, soprattutto in un momento storico difficile, non solo per gli Stati Uniti. La pellicola, infatti, circolata e distribuita dopo il crollo delle torri gemelle, ha rappresentato soprattutto per il pubblico newyorchese un ritorno a casa, una sorta di riconciliazione (WASP) passando attraverso le macerie della propria storia più recente. In fondo si tratta letteralmente di un ritorno a casa, di una grande rim-patria-ta: di un padre (Royal, che lavorava per lo Stato) che non ha più un dollaro e che per essere accolto si inventa di star per morire di cancro; di un figlio (Chas, magnate della finanza) che dopo aver brevettato la cosa più inutile del mondo, criceti dalmata, è cresciuto con la fobia di morire e che rivede nella vecchia casa il luogo più sicuro; di una figlia (Margot, talentuosa scrittrice) che cerca di allontanarsi dal marito, lo psicologo che l’aveva in analisi; e di un altro figlio ancora (Richie, ex campione di tennis) che sente il bisogno di liberarsi dell’amore per la sorella, riavvicinandosi a lei. Tutti, chi per diritto chi per necessità, si ritrovano nella vecchia casa di Archer Avenue, dove oltre trent’anni prima si erano trasferiti e dove Royal ed Etheline si erano separati, a causa dei ripetuti tradimenti del marito. Ad accoglierli nella vecchia casa di Archer Avenue c’è ancora la madre di tutti loro (Etheline, corteggiata da Henry) ovvero la New York tradita che torna ad accogliere i propri figli, cresciuti come geni e poi persi per strada. Tutti e tre i figli Tenenbaum, infatti, si son persi lungo la strada della maturità e così come sono stati in grado da adolescenti di tenere una conferenza stampa in casa, una volta adulti hanno anche perso la capacità di relazionarsi con il prossimo.

ImageAttorno alla grande casa di Archer Avenue gravita un crogiuolo di personaggi di secondo grado che, come sempre nei film di Wes Anderson, hanno comunque un ruolo essenziale nello svolgimento dei fatti: il marito di Margot (lo psicologo Raleigh interpretato da Bill Murray, icona del cinema di Anderson) che riesce a scrivere un libro sullo stupido assistente (vero freak da best seller) ma non riesce a conquistare la moglie; Eli Cash (interpretato da Owen Wilson, co-autore della sceneggiatura), vicino di casa che vorrebbe avere il genio dei Tenenbaum, e che fa largo uso di sostanze stupefacenti; Henry Sherman (intepretato da Danny Glover), che vorrebbe prendere il posto di Royal nel cuore di Etheline; e Pagoda, il braccio destro di Royal, traditore e fratello. È assieme a questa orchestra di caratteri che i tre adolescenti mai cresciuti sono costretti a convivere, con i propri fantasmi, con la loro mancanza di stimoli (che solo la prossimità della morte può riattivare), nei limiti di una famiglia patriarcale ed egoista. Richie ha lasciato il tennis perché incapace di amare la sorella non naturale, Margot scappa dall’infelicità di un matrimonio fallito, e dall’umiliazione di essere una figlia adottiva, e Chas vive con la fobia della sicurezza (ha perso la moglie in un incidente) costringendo i figli a vivere la sua stessa angoscia. Si tratta di ragazzi con grandi, geniali potenzialità, che sono implosi per mancanza di comunicazione, per mancanza d’affetto, per mancanza di sicurezza. È questa la New York che si ritrova dopo venti anni in Archer Avenue, trascinando con sé il proprio vissuto, cercando, di fronte alla morte del grande padre, di guardare al passato in maniera diversa (Chas che domanda al padre dopo venti anni “perché mi hai sparato quella volta?”). È questo ciò che avviene in Archer Avenue, un lento scoprire le carte, un voltar pagina (ma anche uno sfogliare la storia) del dramma di una famiglia dalle alte potenzialità, ma dal basso profilo umano. Tristi, condannati ad una infelicità che ha il sapore di un dolly calante (la prima inquadratura dal tetto mostra i fratelli soli e Royal chiuso fuori di casa dalla moglie), di una sconfitta che ha il suo culmine nella volontà d’abbandono di Richie, che finalmente mostra il viso, e si riconosce, togliendosi la maschera per lasciarsi alle spalle una vita solitaria, destinata a rimanere tale. Il suo tentato suicidio, l’abisso di una vita senza desideri realizzabili, è un apice dopo il quale la famiglia si ricompone, con il ritorno di un’aquila sparita tanti anni addietro. Proprio l’aquila è uno dei simboli che però convince meno: se da un lato è l’animale con la vista migliore (guardare, guardarsi, riconoscersi, capirsi, ovvero il percorso di Richie), esso è anche parte dell’immaginario americano (dal quale attinge Anderson), quindi elemento quasi scontato che fa leva sulla percezione più semplice per lo spettatore. Se a ciò si aggiunge che la famiglia Tenenbaum è una famiglia tipica della upper class americana, riconciliata sotto lo sguardo vigile dell’aquila, un po’ di brividi vengono, soprattutto perché se da un lato c’è un tocco malinconico su tutta la storia (tocco che appartiene più al regista che alla sceneggiatura), è anche vero che alla fine tutti i personaggi di questa storia strappano un sorriso al pubblico, rendendosi famigliari, piacevoli, riconoscibili. Il quadro si ricompone, in maniera disordinata e patetica nell’incidente finale, ma sempre con effetto riconciliante, quasi come se il dramma abbia cessato di esistere, con il minor male possibile. In questa caduta, l’americano borghese si rivede, si rilegge, ma si libera anche del proprio fallimento, con il sorriso di una commedia sospesa, alla quale è mancata proprio la morte (cosa che invece Magnolia e American Beauty hanno considerato come conclusione più sincera).

ImageIl tema della famiglia, molto caro al regista, è ovviamente quello centrale, ma anche su questo punto, potrebbe essere utile soffermarsi sulla struttura patriarcale alla quale Anderson fa riferimento: è Royal, infatti, il centro propulsore, il fuoco attorno al quale le dinamiche dei tre figli (e della moglie, che vorrebbe anche risposarsi) ruotano: i soldi rubati a Chas, il disconoscimento di Margot, la solitudine di Richie, lo scontro con il futuro marito della moglie, sono dinamiche salde tra lui e i protagonisti che spingono il padre al centro dell’attenzione del discorso (accadrà anche nei seguenti film), trasformandolo al tempo stesso in colpevole di tutti i mali, ma anche nell’autore delle soluzioni all’infelicità che egli stesso ha creato. Ad accompagnare la storia di questa singolare famiglia, che in realtà, come si è detto, è solo raccontata per eccessi, ma molto aderente allo stato malinconico ed infelice della classe altoborgese americana, una raccolta di brani musicali che fanno leva, almeno quanto l’aquila, sull’immaginario collettivo del grande pubblico: Velvet Underground & Nico, Paul Simon, Bob Dylan, i Clash, i Ramones, John Lennon sono gli autori di un’America vissuta che tornano sullo schermo per parlare ancora di nuove infelicità dal vecchio passato. Ciò che davvero stupisce di questa pellicola è, oltre all’ottima prova degli attori (su tutti il grande Gene Hackman), l’attenzione maniacale da parte del regista ad ogni dettaglio, sempre usato in funzione del racconto, in special modo come accessorio del carattere di un personaggio (le camere da letto, gli abiti, le debolezze espressive). È infatti la cura degli ambienti (oltre 300 set diversi, a volte anche solo per un’inquadratura) o l’assoluta fedeltà agli strambi caratteri dei personaggi che rende il lavoro di Anderson un meraviglioso esempio di messa in scena cromatica. Davvero straniante è la miscela temporale degli oggetti, un insieme pop di icone, fonts, suppellettili anacronisticamente accostate per colpire lo spettatore e ricreare un mondo fatto di passato e presente, dove tutto sembra essere stato messo da parte, e niente perde il proprio significato figurativo. Il risultato è straniante, fortemente cinematografico, e come si è detto lontano dal tempo reale ma molto vicino, nella sua rappresentazione, a  quello che è il personale mondo visivo del regista: un caos di simboli e icone, di stoffe e colori degne di un paese delle meraviglie. Ci sono innumerevoli verità, dunque, sul talento creativo di Wes Anderson, e sia I Tenenbaum che il recente Il treno per il Darjeeling ne danno prova: un’impressionante estetica, un tocco leggero e malinconico quasi unico nel genere, una visionarietà e una ricerca di caratteri distorti e sovraccarichi che non aggredisce lo spettatore, ma lo mette a proprio agio. Rimane, tuttavia, quell’immaginario figurativo (l'aquila che ritorna) e morale, cui il regista attinge, che rende il suo percorso forse già ripetitivo: il riferimento al divorzio è molto frequente nei suoi film, come la struttura patriarcale della famiglia, o l’idea assoluta del gruppo che fa la forza, la vittoria del bene che allontana il male…

Si possono quindi porre dei sospetti sul lavoro di Wes Anderson laddove la scelta dei temi fa riferimento comunque ad una percezione moralistica, o l’uso delle musiche tende a sfruttare il loro consolidato successo distributivo/percettivo, o, ancora, la scenografia ripropone, moltiplicandoli, gusti e tendenze senza via di fuga. Bisognerebbe vedere Wes Anderson alle prese con una sceneggiatura non scritta da lui o da Owen Wilson per testare veramente le potenzialità narrative ed interpretative di questo pur ottimo regista. A lui, e non è poco, si deve comunque la più bella Gwyneth Paltrow del cinema.


TITOLO ORIGINALE: The Royal Tenenbaums; REGIA: Wes Anderson; SCENEGGIATURA: Wes Anderson, Owen Wilson; FOTOGRAFIA: Robert D. Yeoman; MONTAGGIO: Dylan Tichenor; MUSICA: Mark Mothersbaugh; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2001; DURATA: 108 min.

 


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