State of Play PDF 
Gianmarco Zanrè   

C’erano una volta gli anni Settanta, ribollente melting pot cinematografico che ebbe il grande merito, nell’ambito dell’evoluzione del cinema americano, di mescolare le carte spazzando via le ultime vestigia dell’impero dei grandi studios, incanalando delusione, rivolta ed indiscutibile anelito di libertà, espressive e sociali, cresciute ma mai davvero esplose nel corso degli anni Sessanta. Pellicole come Taxi Driver, La conversazione o Tutti gli uomini del presidente furono solo la punta di un iceberg che avrebbe scosso le fondamenta delle coscienze di un pubblico che, per la prima volta, imparava ad emanciparsi da regole non solo sociali, ma anche commerciali, capaci fino a quel momento di influenzare il mercato.

Passata la sbornia di spettacolo degli anni Ottanta e la depressione dei Novanta, il nuovo millennio ha offerto una riscoperta dei temi che avevano caratterizzato la prima, grande crescita del cosiddetto “cinema impegnato”, portando al pubblico pellicole importanti, così come clamorosi flop. Kevin MacDonald, anglosassone doc (per la precisione scozzese), si distingue all’inizio della sua carriera come documentarista, sfornando due ottime pellicole quali One Day in September (1999) e La morte sospesa (2003), assolutamente diverse tra loro, eppure ugualmente potenti, veicoli capaci di conciliare il mezzo cinema nella sua capacità di raccontare appassionando con la realtà descrittiva e cronachistica del documentario. Dato il grande successo ottenuto da questi lungometraggi, appare naturale il passaggio di MacDonald alla corte hollywoodiana, avvenuto, con buon successo, nel 2006 con L’ultimo re di Scozia, che valse a Forest Whitaker il Premio Oscar come migliore attore: State of Play rappresenta dunque, agli occhi dei produttori oltreoceano, l’investitura ufficiale del cineasta scozzese a membro del dorato mondo di Hollywood, passaggio ormai praticamente obbligato per ogni regista non statunitense di successo, soprattutto se premiato in almeno uno dei festival “d’autore” europei o asiatici (Inarritu e Wong Kar Wai sono i due esempi più noti della categoria).

Ed eccoci dunque giunti all’analisi vera e propria dell’ultima fatica di MacDonald. L’impianto, lo stile e la struttura ricordano le grandi pietre miliari del cinema “borderline” e di denuncia del decennio Settanta/Ottanta, inseriti in una cornice vintage capace di rievocare, non solo nella confezione – ad ogni modo ottima –, l’atmosfera dei tempi, trasportando e coinvolgendo lo spettatore in un’operazione a metà strada fra la nostalgia e la rievocazione pura e semplice. Al contrario, ad esempio, di Zodiac (David Fincher, 2006), però, la vicenda narrata in State of Play ha una connotazione contestuale, narrativa e di cornice profondamente legata ai nostri tempi, e “invecchiata” soltanto dalla figura del suo protagonista, un Russell Crowe giornalista “fuori moda” come la Saab che guida, figura indissolubilmente legata al percorso cinematografico sociale tutto seventies: la scelta di trasportare atmosfere ed intrighi di stampo “nixoniano” in un contesto assolutamente attuale – in bilico tra inchieste legate alla mercificazione della guerra, e tra i due conflitti Usa/Iraq – appare vincente, eppure l’intera opera non riesce ad assurgere a pietra angolare del suo genere, come, in tempi recenti, può essere appunto considerato Zodiac.

Cosa, dunque, non convince, o più semplicemente, non rende State of Play una pellicola da ricordare, ma piuttosto un film d’intrattenimento ben riuscito, un thriller “da sabato sera”? Certo non gli interpreti, tutti – o quasi – ben calati nelle parti, la confezione, il montaggio e la fotografia, tutti pienamente inseribili negli (alti) standard hollywoodiani. La regia, pur se accademica, ripensando alle passate opere di MacDonald, assolve comunque il compito assegnatole, riuscendo a mantenere salda l’attenzione dello spettatore e il livello di tensione fino allo scioglimento conclusivo della vicenda. La responsabilità principale di questa sensazione di dubbio avvolgente una volta terminata la visione, pare dunque dover essere assegnata alla sceneggiatura, troppo nebulosa in alcuni passaggi e troppo lineare nel definire il suo gioco delle parti in altri. Se, dunque, allo script si aggiunge il difetto di una regia senza sbavature, ma certamente monocorde, si ha la sensazione di una sorta d’incompiuta, confusa tra il cinema d’autore di denuncia e il film d’intrattenimento, capace di coinvolgere ma incapace di sconvolgere come una pellicola di genere dovrebbe. Il dubbio più grande, in proposito, è legato allo stesso approccio di Kevin MacDonald che, come nel precedente L’ultimo re di Scozia, pare non avere un'idea precisa della direzione da imporre alla sua creatura, mettendo involontariamente in difficoltà la critica e il pubblico e lasciando gli esponenti della prima con l’amaro in bocca di chi avrebbe voluto perdersi nelle ombre di un dramma d’autore e del secondo con la delusione di chi avrebbe goduto di un ottimo intreccio ad alta tensione capace di tenere incollati alla poltrona senza imporre necessariamente i tempi e le condizioni del cinema d’essai.

Se, dunque, la riflessione deve portare alla fatidica domanda: State of Play è un brutto film?, la risposta non può che essere negativa, come fu nel caso dell’opera precedente di MacDonald. Eppure, al contempo, non si può parlare di una pellicola capace di fare breccia abbastanza in profondità da essere ricordata, e andare oltre la semplice visione di una serata, nonostante l’importanza potenziale dei temi trattati, dal ruolo dei media alla corruzione del potere sull’individuo che lo esercita. Confrontando, dunque, gli intrighi del politico Affleck e la tesissima partita a scacchi giocata contro il tempo dal giornalista Crowe con la drammatica odissea de La morte sospesa o la denuncia spietata di One Day in September, e rapportando lo stesso confronto alle opere di Mereilles, Kar Wai, Inarritu, Salles, appare lecita una domanda: Hollywood, con i suoi soldi e le sue perfette produzioni, porta davvero bene ai registi “importati”, se si esclude il mero aspetto economico? E ancora: gli anni Settanta, con i loro taxi drivers, uomini del presidente e conversazioni, non diedero origine ad un percorso che portava dalle produzioni dei grandi Studios alle coscienze di un paese che dall’interno aveva l’esigenza di essere scosso?

Cosa, dunque, sfugge, all’immaginario degli autori di oggi? La voglia di intrattenere o il coraggio di scuotere? Forse, da qualunque parte la si voglia prendere, si tratta di una negazione, legata probabilmente alle regole della globalizzazione e di un mondo dai confini mutati e mutevoli: ora non è più un Paese, a necessitare una scossa, ma l’intero pianeta. Quale regista avrà il coraggio di raccogliere una sfida – e di portare un fardello di responsabilità – così grande? Forse il buon Russell Crowe, reporter d’assalto in bilico tra il Watergate di Pakula e l’Insider di Mann, conosce la risposta. Peccato non si possa dire altrettanto del suo direttore d’orchestra.

TITOLO ORIGINALE: State of Play; REGIA: Kevin Macdonald; SCENEGGIATURA: Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy, Billy Ray; FOTOGRAFIA: Rodrigo Prieto; MONTAGGIO: Justine Wright; MUSICA: Alex Heffes; PRODUZIONE: Gran Bretagna/USA; ANNO: 2009; DURATA: 132 min.

 


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