In America - Il sogno che non c'era PDF 
Flaminia Attanasio   

Jim Sheridan ha la caratteristica di mettere sempre, direttamente o meno, un pezzo di sé nei film che realizza. Qualcosa di suo che gli appartiene profondamente: le sue esperienze di vita vissuta, le sue vicissitudini reali, le sue fantasie, il sentimento, nostalgico, amoroso, e, nel bene e nel male, mitizzante nei confronti della sua Irlanda.

Quest’ultima, infatti, è sempre molto presente, eccezione fatta per gli ultimi due film, Get rich or die tryin’, ispirato alla storia del rapper 50Cent, e l’ultimo Brothers, ora nelle sale, che appartengono di fatto al nuovo “periodo americano”. A cominciare dagli esordi. Con Il mio piede sinistro, suo primo film girato nel 1989, Sheridan racconta, con la complicità di uno splendido Daniel Day Lewis, la storia dell’artista irlandese Christy Brown, paraplegico dalla nascita, ma capace con l’unica parte del corpo che riesce ancora a controllare, il suo piede sinistro, di dipingere e scrivere poesie. Ne Il campo narra invece la storia di Bull McCabe, un contadino irlandese che tenta di difendere ossessivamente la sua terra dall’esproprio di un cinico invasore, firmando così un’opera che risente degli echi di Verga e della letteratura naturalista. Con questi primi due film, Sheridan sembra dunque avviato verso una più che promettente carriera nell’ambito del “cinema letterario”. E invece no. Subito dopo, con Nel nome del padre, realizza uno dei più bei film sugli errori giudiziari e i complotti polizieschi avvenuti in Inghilterra nel periodo caldo degli attentati terroristici dell’IRA, ispirandosi a un fatto di cronaca realmente accaduto. Poi, in The Boxer, riprende il tema del terrorismo dell’IRA, avvalendosi sempre di Daniel Day Lewis, ma da un altro punto di vista: quello di un ex pugile e terrorista appena uscito di prigione e che, una volta fuori, si rende conto che la moglie lo ha lasciato per sempre e perciò decide di tornare sul ring e aprire una palestra di pugilato. Ma è nel film successivo, In America, che il regista di Dublino  sembra voler condensare tutto se stesso e tutta la propria esperienza. È questo infatti il film forse più rappresentativo (e riassuntivo) della sua cifra stilistica.

Perché? Perchè parla di lui, di Jim Sheridan, della sua storia, della sua famiglia, del trasferimento in America e della sua esperienza da immigrato, dell’amore per le sue due figlie (nella finzione Christie e Ariel, nella realtà Naomi e Kirsten le quali, di fatto, hanno scritto la sceneggiatura con lui) e il dolore per la perdita del piccolo Frankie, dietro il quale si nasconde il vero Frankie Sheridan, cui il film è dedicato. In In America, infatti, una modesta famiglia irlandese (padre disoccupato, all’occorrenza attore e poi tassista, madre e due bambine piccole) si trasferisce nella Grande Mela in cerca di un futuro migliore dopo la dolorosa perdita del figlioletto Frankie. Non è dunque difficile intravedere in Johnny, il papà senza un soldo che farebbe di tutto per le sue figlie, stroncato e inerme dalla morte del figlio, lo stesso Jim Sheridan. Così com’è altrettanto semplice riconoscere nelle due bambine, Ariel e Christie, interpretate in maniera folgorante da Sarah ed Emma Bolger, realmente sorelle, le vere figlie del regista, Naomi e Kirsten. Stessa discorso per la moglie, che nella finzione ha le sembianze di Samantha Morton. Ma oltre alla trasposizione cinematografica del fatto biografico, ciò che interessa a Jim Sheridan è restituire in immagini un profondo senso religioso e della famiglia. Da buon cattolico, infatti, secondo la migliore tradizione irlandese, Sheridan crede nella divina provvidenza. Come scrive benissimo Lietta Tornabuoni nella sua recensione, qui la divina provvidenza è rappresentata dall’inquilino nero del piano di sotto: “un artista africano malato di AIDS che a volte emette urla angosciose” (interpretato da Djimon Hounsou, candidato per questa interpretazione agli Oscar come miglior attore non protagonista) ma dotato di poteri soprannaturali capaci di far trovare lavoro come attore al capofamiglia, di ridare vita a una neonata in bilico fra la vita e la morte, e di saldare un tremendo conto ospedaliero di trentamila dollari.

Ma la divina provvidenza è rappresentata in absentia anche da Frankie, continuamente evocato dai familiari, e in particolare da Christie, la sorella maggiore e voce narrante del film, che chiede a più riprese il suo intervento per esaudire i suoi desideri. La religiosità che permea e ammanta In America non si esaurisce tuttavia solo nell’intervento, richiesto o meno, di Mateo, l’artista africano sieropositivo, e di Frankie. Questa è infatti presente nella stessa quotidianità della famiglia Sullivan, a partire dalle più piccole cose, come la preghiera alla sera, la fede negli angeli, la scuola cattolica che frequentano le figlie, e, infine, nella concezione stessa della famiglia. Probabilmente è questo il vero nodo di senso attorno al quale ruota tutto il film. In In America la famiglia ha un’importanza cruciale. È al suo interno infatti che Sheridan mostra l’esplosione e l’implosione degli affetti, il loro sbottare come un geiser spaccando la roccia della convenzione e del dolore per la perdita di un figlio e di un fratellino, e il loro sopirsi, momentaneamente, per poi tornare in superficie in maniera dirompente. Una famiglia di tipo puramente confessionale, legittimata esclusivamente dal sacro vincolo del matrimonio e costituita da marito, moglie e figli, all’interno della quale l’unione sessuale è finalizzata alla procreazione, come testimoniato dall’unica scena d’amore coniugale di tutto il film: una scena pudica, castigatissima, continuamente interrotta dagli stacchi di camera che impediscono la bella visione del fondersi dei corpi, e in cui marito e moglie fanno l’amore mezzi vestiti. Non è secondario che proprio durante quell’unico atto d’amor carnale avvenga il concepimento di un altro bambino. Bambino che, nonostante la precaria situazione economica, verrà tenuto, desiderato e poi, forse (il film non arriva a dircelo), con tutta probabilità amato. Insomma è un po’ la vecchia storia della numerosa e cattolicissima famiglia di migranti che, come tante ad inizio Novecento, sbarca in America in cerca di fortuna e fronteggia le avversità con tanta fede in Dio, tanta preghiera e tanta speranza. Ecco dunque dov’è il congiungimento tra senso della famiglia e senso religioso.

Non è azzardato inoltre sostenere come, in un certo qual modo, Sheridan abbia voluto rivisitare il western, non tanto quello di John Ford o di Nicholas Ray, ma piuttosto quello di Cimino de I cancelli del cielo. Seppur con notevoli differenze, anche Cimino, nel film che costò il fallimento della United Artists, aveva parlato di una guerra civile, intestina, tra allevatori di bestiame e contadini immigrati per i quali, appunto, i cancelli del cielo del sogno americano non solo non si sono mai aperti, ma non si apriranno mai. Anche qui, in In America, c’è una guerra civile, ma è tra i poveri, tra gli immigrati, i tossicomani, i travestiti, i discriminati insomma, e il resto della società dei cittadini in giacca e cravatta. Ma, a differenza de I cancelli del cielo, nel film di Sheridan i cancelli si aprono, con lentezza e l’intervento divino della provvidenza, ma si aprono. Inoltre, questa guerra Sheridan la declina anche in ambito privato: gli sforzi compiuti da Johnny per essere un buon padre, per trovare lavoro, per non apparire come un fallito agli occhi delle figliolette e per dimenticare la morte del figlio.

Dunque, tirando le somme, nonostante tutto questo afflato possa risultare fastidioso a chi non crede in Dio o nella chiesa cattolica, il film miracolosamente regge, riuscendo in alcuni momenti ad appassionare lo spettatore, a commuoverlo nel rappresentare l’arrivo rocambolesco nell’alloggio cadente, l'evolversi del rapporto fra genitori e figli, la crisi dei genitori contrapposta all’irrazionale vitalità delle due bambine. Ecco, forse sono proprio loro la parte più bella del film: due personaggi pieni di quella vitalità e fantasia che consentono di superare con leggerezza anche i momenti più difficili. Non è un caso allora che Sheridan affidi proprio ad una di loro la narrazione, dal punto di vista visivo e sonoro: è Christie infatti la voce narrante del film ed è sempre lei a riprendere ciò che accade nella sua famiglia con la sua piccola videocamera digitale. E  Sheridan, spesso, fa coincidere l’occhio dello spettatore con quello di Christie che osserva il mondo attraverso la telecamera, in modo da favorire un legame emotivo più forte con la bambina. L'attenzione che Sheridan dedica alle bambine è densa di partecipazione emotiva e priva di ogni distanza critica. Probabilmente è il suo modo per dirci che, senza le sue bambine, quelle vere, non ce l’avrebbe mai fatta.    

TITOLO ORIGINALE: In America; REGIA: Jim Sheridan; SCENEGGIATURA: Jim Sheridan, Kirsten Sheridan, Naomi Sheridan; FOTOGRAFIA: Declan Quinn; MONTAGGIO: Naomi Geraghty; MUSICA: Gavin Friday, Maurice Seezer; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Irlanda; ANNO: 2002; DURATA: 103 min.

 


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