Dello straniamento. Lo sguardo intenso di David Lynch PDF 
Giorgio Tonella   

Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto,
come ‘visione’ e non come ‘riconoscimento’;
procedimento dell’arte è il procedimento dello 'straniamento'

Viktor Šklovskij, L'arte come procedimento, 1929 (1)


Solitamente, quando si parla di David Lynch si tende a far riferimento alle sue narrazioni sempre più disarticolate, sempre meno lineari; al punto che il critico lynchiano sembra doversi ormai ridurre a ermeneuta delle sue storie. Eppure, ciò è limitante perché così facendo ci si dimentica di film quali ad esempio Velluto Blu (Blue Velvet, 1986), Cuore selvaggio (Wild at Heart, 1990) o Una storia vera (The Straight Story, 1999), dalla narrazione, invece, assolutamente lineare. Non diciamo convenzionale, perché sappiamo che Lynch racconta le storie tutte a modo suo; ma lineare, sì: l’intreccio dei film citati ordina gli eventi in senso cronologico e l’identità dei vari personaggi non muta nel corso del film (come invece avviene in Strade perdute, 1996, Mulholland Drive, 2000, o INLAND EMPIRE, 2007). La narrazione destrutturata non è dunque lo “specifico” lynchiano. Ciò che invece rimane costante nella sua opera è l'intensità di sguardo. Lynch sa guardare, sa come guardare. Sa guardare con intensità. Sa farci vedere le cose come per la prima volta. Insomma, sa straniare. Il che è forse il maggior complimento che si possa fare a un cineasta, a una persona cioè che lavora con le immagini (e i suoni). Roy Menarini, richiamando una recensione (“Segnocinema”, n°102) di Vincenzo Buccheri su Una storia vera, scrive: “Guardare con intensità. A ben pensarci, si tratta di una delle qualità più rilevanti che si possano immaginare per l’arte cinematografica: farci vedere il mondo in maniera diversa. Incaricarsi di svelare la realtà che non abbiamo mai scorto. Mutare – almeno per la durata di un film – la percezione che abbiamo delle cose, specie quelle materiali” (R. Menarini, Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria, 2002, p.63). In ultima analisi, straniare.

Lo straniamento nell’opera di Lynch sarà dunque l’oggetto della nostra ricerca che prenderà in esame alcune scene o sequenze tratte da alcuni suoi film (soprattutto Velluto Blu e Una storia vera) al fine di reperirvi le principali modalità di straniamento. Definire David Lynch un cineasta dark, dal gusto per il repellente e cose simili è sbagliato o, quantomeno, fortemente limitativo. Sì, perché queste componenti, presenti, beninteso, nell’opera di Lynch, sono solo una faccia della medaglia. L’altra è costituita dall’aspetto solare e luminoso che occupa un posto altrettanto centrale nell’immaginario lynchiano. D’altronde, lo straniamento, procedimento cui ricorre spesso il regista, si esercita proprio su una realtà quotidiana, familiare, “normale”. La quale, appunto, torna spesso nei suoi film: pensiamo alla descrizione del mondo idilliaco di Lumberton in Velluto blu, al mondo zuccherato di Twin Peaks (1990-91) o alla realtà bucolica e gentile di Una storia vera. Questi mondi (apparentemente) perfetti, ordinati, puliti, di una qualità, oseremmo dire, quasi disneyana, sono amati da Lynch poiché gli richiamano alla mente i giorni della sua infanzia. Lynch nasce nel Montana, a Missoula, in una vallata circondata da montagne, laghi e una riserva indiana, un ambiente, questo, la cui natura incontaminata non ha mancato di affascinarlo. Così, ricordando la regione di Spokane, nello stato di Washington, dove con la famiglia si trasferisce in gioventù, Lynch racconta: “Nella mia testa di bambino, tutto sembrava serenamente bello. Gli aeroplani passavano lentamente nel cielo, pupazzetti di gomma navigavano sull’acqua, i pasti duravano anni e la pennichella sembrava infinita” (Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino, 2000, p.16). E ancora: “era un mondo di sogni”, di “cieli blu, di fiori rossi, di erba verde, di steccati bianchi con uccellini che cinguettano fra gli alberi e un aereo rombante sopra la testa” (idem, pp.16-17).

E’ evidente come la sequenza iniziale di Velluto blu, con il cielo blu, gli steccati bianchi, i papaveri rossi e gialli, i prati verdi, i bambini che attraversano con ordine la strada, i pompieri che, gentili, salutano i passanti (o, cortesia suprema, noi spettatori), dal loro mezzo di trasporto rosso, le casette linde dove anziane signore sorseggiano il thè davanti alla televisione; è evidente, dicevamo, che tutto questo è un omaggio a quel mondo idilliaco e caramelloso che ha segnato la giovinezza di Lynch. Ricordi che Lynch filtra attraverso una sensibilità pittorica di gusto iperrealista. Conosciamo la passione pittorica di Lynch, studente in gioventù della Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia. Sappiamo della sua predilezione per l’iperrealismo pittorico, nonché per Edward Hopper. La sequenza di Velluto Blu è, dal punto di vista della figurazione, chiaramente debitrice dell’iperrealismo. Tutto è “iperrealizzato”: la cittadina di Lumberton è troppo ordinata, i suoi pompieri fin troppo gentili, i suoi colori troppo sgargianti (il cielo è troppo blu, gli steccati sono troppo bianchi, i fiori troppo colorati). Insomma, la realtà è stata elevata al quadrato al punto di renderla straniante. Al punto di renderla inquietante. Insomma, dall’estetica iperrealista Lynch impara a straniare il mondo familiare rendendolo più vero del vero. Questa è dunque la prima modalità di straniamento in Lynch: prendere la realtà più familiare e saturarne alcune caratteristiche (ad esempio, l’ordine, la cortesia, i colori…), così da renderla straniante, inquietante. D'altronde, il mondo familiare, paradisiaco che spesso Lynch ama ritrarre non è mai troppo rassicurante. Esso è pieno di buchi e di crepe. Basta poco perché il sotterraneo “mondo degli inferi” emerga in superficie. Basta osservare questo mondo più da vicino, per scorgervi la corruzione e la sporcizia. Non a caso Lynch, accanto al ricordo dei cieli blu, dei prati verdi e degli uccellini cinguettanti della sua infanzia, non manca mai di dire che però “sotto quei ciliegi trasudava una specie di resina mezza gialla mezza nera” (idem, p.16).

Così, l’insospettabile cittadina di Lumberton di Velluto blu nasconde una tristissima storia di violenza e depravazione. A Twin Peaks tutti i personaggi nascondono qualcosa e vari suoi abitanti diventano vittime di Bob, una misteriosa entità malefica. Un’immagine che simboleggia la strutturazione bipartita del mondo lynchiano, fatto di una apparenza (idilliaca) e di una sostanza (orrifica) è quella che chiude Velluto Blu, quando un – visibilmente meccanizzato – pettirosso (di quelli sognati da Sandy e capaci di riportare l’amore nell’oscurità del mondo; il sentimentalismo è un altro tratto distintivo di Lynch che non a caso ha girato una soap) raggiunge un davanzale sulla finestra. Eppure, il suo becco afferra un verme, come a indicare che sotto la tranquilla realtà si cela un altro mondo, molto meno luminoso di quella. La cosa straniante, comunque, è il modo in cui il mondo sotterraneo riesce a sovrapporsi improvvisamente, da un momento all’altro, alla serena tranquillità del superficiale (nel senso che sta in superficie) mondo idilliaco. E' straniante il modo in cui Lynch insinua il malessere all'interno di un mondo familiare, quotidiano, solare. Si prenda la sequenza iniziale di Velluto blu, in parte già descritta. Dopo la serie di inquadrature iperrealiste (già di per sé inquietanti) prima richiamate, vediamo un uomo innaffiare il giardino. La melodica canzone che accompagna la sequenza viene turbata dal rumore sordo della pompa d’acqua inquadrata in primo piano. L’irruzione della nuova sonorità introduce un senso di malessere. Poi tutto precipita: il tubo della pompa si annoda in un ramo, l’acqua si blocca, l’uomo ha un infarto e cade a terra. A questo punto lo sguardo di Lynch si fa impietoso. Sullo sfondo dell’allegra canzone d’apertura, la macchina da presa indugia sugli schizzi d’acqua della pompa, quindi su un cane che, in rallentatore, beve l’acqua che sprizza dal tubo, e su un neonato che dallo sfondo viene in avanti. Infine, con una carrellata sull'erba, si giunge a un gruppo di rumorosi scarafaggi neri in lotta fra di loro. Insomma, è impressionante il modo in cui Lynch ha fatto precipitare gli eventi e la rapidità con cui l’orrore si sovrappone alla spensieratezza di una soleggiata giornata pomeridiana.

Come si vede, quindi, il passaggio dal paradiso all’inferno è in Lynch ben più graduale di quanto si crede. Al punto che quasi è difficile stabilire il momento in cui tale passaggio si è attuato, il momento in cui il mondo sotterraneo ha cominciato a insinuarsi tra le pieghe del mondo idilliaco che sta in superficie. Tale passaggio sembra avvenire in dissolvenza incrociata. Allora, l’immagine più rappresentativa di questo trapasso ci sembra quella che apre la sigla del serial televisivo Twin Peaks: qui l’inquadratura di un uccello su un albero si dissolve in quella delle segherie Packard, le cui due ciminiere, per la loro disposizione al centro del quadro, danno l’impressione di costituire lo scheletro dell’uccello. Il passaggio da un’inquadratura all’altra non implica solo un passaggio da un ideale naturale ad uno artificiale, ma anche da un esterno ad un interno, un penetrare dentro il corpo della realtà per cogliervi lo scheletro, i segreti più reconditi. Ma il passaggio è in dissolvenza incrociata; c'è quindi un momento in cui i “due mondi”, superficiale e profondo, paradisiaco e infernale, si toccano, contaminandosi reciprocamente. Una storia vera è il film che più sembra rimanere in superficie, evitando quella tensione, tipica degli altri film, allo sprofondamento nella corruzione e nell’oscurità. E’ un film solare che, a livello tematico, non offre a Lynch la possibilità di esplorare il sotterraneo mondo degli inferi. Eppure, quest’ultimo, ancorché sotto forma di semplice inquietudine, a tratti sembra voler emergere, infiltrandosi tra le crepe della realtà. Pensiamo all'inquietudine generata dalla silenziosa e immobile sequenza iniziale: mentre la musica sfuma e irrompe il silenzio, la macchina da presa, molto lentamente, si avvicina alla casa di Alvin Straight, poi alla porta sul retro, da cui sentiamo provenire alcuni passi e poi un forte tonfo. Scopriremo poco dopo che Alvin, l’anziano che per riconciliarsi col fratello intraprenderà un viaggio (su un tagliaerba) dall’Iowa al Minnesota, è semplicemente caduto. La scena è inquietante. Le condizioni atmosferiche sono rassicuranti (è una giornata di sole), ma lo sguardo così prolungato e indagatore della macchina da presa sembra volerci svelare chissà quale mistero. A rendere inquietante questa scena, ma più in generale l’intero film, è poi la sua lentezza e la sensazione di immobilità che ne emerge. Concordiamo pienamente con Chion quando scrive: "La forza di questo regista, aldilà delle sue stranezze visibili e del suo gabinetto teratologico, è di saper filmare come nessun altro l’apparente contrario del cinema, cioè l’immobilità. In un paese dove il cinema, più ancora che altrove, s’identifica col movimento, ci voleva un David Lynch per scoprire che gli uomini tendono a diventare piante da vaso, o fiori da giardino" (idem, p.112).

In una tale situazione di immobilità, di estrema lentezza, turba, strania, scoprirvi l’“orrore”. Scrive ancora Chion: "Come ci permette di vedere la ripresa a passo uno, l’apparente non-movimento di un vegetale nasconde il peggio, quanto c’è di più violento: torsioni patetiche, intrecci orribili, crescita senza fine. […] E il cinema di David Lynch sembra poter registrare proprio questa staticità latrice di tanta violenza" (ibidem). La cosa straniante di questo film è dunque proprio la sua “staticità latrice di tanta violenza”. Ovviamente, la “violenza” di questo film non è di una forma tradizionale. D’altra parte, in un film così silenzioso e immobile, basta un tonfo (come quello del piano-sequenza prima descritto), dei passi o un po' di rumore perché ciò venga subito avvertito come violento. E allora si ricordino tutte le volte che, nel film, assistiamo ai lenti spostamenti di Alvin, quando con fatica sale o scende dal suo tagliaerba, o quando compie qualche passo. Ogni piccolo rumore che egli produce (anche la semplice accensione di un sigaro) è attentamente amplificato, al punto da apparirci, nel contesto di un film così silenzioso, fuori luogo, disturbante, violento. A tratti la violenza emerge insopportabile, quando per esempio Alvin imbraccia il fucile e dà fuoco al suo tagliaerba o quando scoppia il temporale. Insomma, anche in Una storia vera quello che abbiamo prima chiamato il sotterraneo mondo degli inferi può emergere violentemente per sconquassare, da un istante a un altro, la tranquilla serenità del mondo.

In Lynch, dunque, è straniante non tanto il fatto che dietro il mondo apparente ve ne sia un altro terribile, ma il modo con cui si riesce a turbare il mondo quotidiano e solare, il modo con cui vi si insinua l’orrore. L'orrore alla luce del sole, insomma. L'orrore, cioè, guardato sotto una luce tradizionalmente deputata a illuminare ciò che non ha nulla da nascondere. In ultima analisi, l'orrore guardato come fosse una cosa normale. Gli esempi riportati in riferimento a Velluto blu e Una storia vera sono rivelatori in questo senso. In Lynch, poi, concorre a generare straniamento il suo stile filmico, ovvero i modi di ripresa. Che tuttavia, come ricorda giustamente Riccardo Caccia, sono generalmente tradizionali, classici: "Le inquadrature e i movimenti di macchina sono quasi sempre consueti, 'normali', soprattutto se paragonati ai virtuosismi si alcuni registi contemporanei quali Spike Lee o i fratelli Coen. La macchina da presa assume raramente punti di vista eccentrici o angolazioni bizzarre. In realtà, l’impressione di straniamento […] deriva da un uso 'aberrante' dei codici stilistici classici, che sono destrutturati dal loro interno, senza peraltro venire rivoluzionati. La vera novità sta nel 'dilatare' tempi e spazi delle inquadrature sino a renderle insolite" (R. Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano, 2006, p.32). Il piano-sequenza iniziale di Una storia vera è un chiaro esempio di dilatazione temporale in funzione straniante.

Un altro esempio è offerto da Eraserhead (1976). La scena è quella in cui Henry Spencer attende all'interno dell'ascensore che le porte si chiudano. Ma l'attesa pare eterna, e così “la sequenza – commenta Caccia – convoglia nello spettatore un senso di angoscia assolutamente ingiustificato dal tipo di inquadratura: è soltanto l’enorme dilatazione temporale a pervaderla di un’inquietudine altrimenti inspiegabile” (Caccia, op.cit., p.33). Una storia vera ci offre invece alcuni esempi di straniante dilatazione spaziale. Ci sono alcune inquadrature, girate in campo lungo, che mostrano in lontananza Alvin parlare con la cortese famiglia che lo ospita nel giardino. Il punto di vista è straniante. Innanzitutto perché non è giustificato e poi perché esso sembra introdurre uno sguardo altro che spia i personaggi da lontano. Un analogo campo lungo torna nel finale quando vediamo Alvin, ormai quasi giunto alla sua meta, fermarsi sulla strada e venire soccorso da un trattore. Anche in questo caso, i dialoghi sono quasi inudibili e il punto di vista, così innaturalmente distanziato, diventa straniante e, a tratti, persino perturbante. Lo straniamento, lo si sarà capito, è dunque una questione di sguardi: sguardi intensi, prolungati, distanziati. O anche ossessivamente ravvicinati. Sempre in Una storia vera, molteplici sono i movimenti di macchina che indugiano ora sull’afferra-oggetti di Alvin ora sul suo tagliaerba. Questa eccessiva attenzione nei loro confronti è, appunto, straniante. Ma Lynch è un cineasta che, appunto, sa guardare; il suo occhio è attratto dagli elementi più banali che, osservati lungamente, diventano stranianti. E allora si ricordi l’episodio pilota di Twin Peaks, quando la madre di Laura sale in camera da letto per cercare la figlia. La posizione della mdp è tale da mettere in campo anche il ventilatore sul soffitto. Quando la madre ridiscende le scale ed esce dall’inquadratura, Lynch non stacca immediatamente sulla scena successiva, ma mantiene per qualche secondo quella stessa inquadratura (dilatazione temporale) per poi sostituirla con quella del primo piano del ventilatore il cui fruscio è attentamente amplificato. Anche qui, dunque, straniante attenzione ai particolari narrativamente superflui.

Infine, c’è un’altra modalità di straniamento a cui Lynch a volte ricorre. Ci riferiamo alla pratica straniante della decontestualizzazione, secondo cui un oggetto sottratto al suo ambiente viene inserito in un altro che gli è estraneo. Pensiamo, nell'episodio pilota di Twin Peaks, alla testa di cervo poggiata sul tavolo nel caveau della banca; al lama che, nel quarto episodio, si aggira indisturbato nella sala d’attesa del veterinario; o ancora, nel quattordicesimo episodio, al cavallo bianco che appare a casa di Sarah Palmer. Si tratta di ricollocamenti spaziali stranianti che, nelle arti visive, hanno come precedenti i ready-made di Marcel Duchamp (Fontana, 1917, Ruota di bicicletta, 1913) e i dipinti di Giorgio De Chirico (Canto d'amore, 1914), mentre in campo cinematografico certe pellicole di Luis Buñuel dove vari animali invadono gli ambienti più borghesi (Un chien andalou, 1929 o L’âge d’or, 1930). In conclusione, possiamo affermare che, giocando con le diverse modalità di straniamento, David Lynch ci fa vedere la realtà sotto una nuova luce; ai nostri occhi appare strana, filtrata com'è dal suo sguardo intenso, capace di mettere in discussione lo statuto rassicurante della nostra quotidianità.

Note:
(1) In Tzvetan Todorv (a cura di), I formalisti russi, Einaudi, Torino, 1968, p.82

 


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