The Hours PDF 
di Leone Augusto   

"La gente crede che sia complicato", si dice in The Hours, del regista inglese Stephen Daldry, già noto per Billy Elliot, a proposito del libro autobiografico scritto da uno dei personaggi del film. In effetti, la questione è piuttosto complicata: una delle più grandi scrittrici del Novecento, malata di depressione e morta suicida, scrive nel 1925 un complesso ed affascinante romanzo, La signora Dalloway, che doveva in origine intitolarsi Le ore e in cui racconta la giornata di una signora dell'alta borghesia londinese, Clarissa Dalloway, la quale, nello sforzo di reagire a un male devastante e alla tentazione di sopprimere se stessa, va in giro per le strade di Londra e prepara personalmente un grande ricevimento; a lei e alla sua lotta per amare la vita fa da contrappunto Septimus Warren Smith, che, non riuscendo a superare il trauma della guerra, perde il contatto con la realtà e si uccide; la notizia della sua morte funesta il party appena iniziato da Clarissa, ma si risolve in ulteriore stimolo all'accettazione della realtà in lei, che conclude radiosamente la sua festa, trionfando sui suoi impulsi suicidi. Riassumere un testo del genere significa inevitabilmente impoverirlo, ma è il punto di partenza indispensabile per essere consapevoli del tentativo compiuto da Daldry di fare qualcosa di più di un buon film.

Il riferimento al testo della grande autrice inglese non è comunque sufficiente: bisogna andare a più di settant'anni dopo, quando l'americano Michael Cunningham scrive un altro romanzo, intitolato Le ore, vincitore nel '99 del premio Pulitzer, ispirato al capolavoro della Woolf e alle vicende biografiche dell'artista stessa: come ne La Signora Dalloway si racconta una sola giornata, ma il racconto si rifrange in altre due vicende affini, verificatesi in epoche diverse.

Come prologo abbiamo la descrizione dell'annegamento della scrittrice con una grossa pietra in tasca nel '41; nel 49, a Los Angeles, Laura (Julianne Moore, una casalinga omosessuale incapace di essere buona moglie e buona madre, sta leggendo la Signora Dalloway. Un giorno si chiude in una stanza d'albergo con un flacone di sonnifero per farla finita, ma l'attaccamento alla vita ha il sopravvento e decide di continuare la sua esistenza, libera però dal marito e dal figlio; ai giorni nostri, a New York, Clarissa (Meryl Streep), soprannominata Signora Dalloway, prepara come la sua omonima una grande festa in onore di un ex amante morente di Aids, Richard, un poeta ancora traumatizzato dall'abbandono di sua madre (Laura, la protagonista della storia precedente).

Abbiamo infine la stessa Woolf (Nicole Kidman) che a Richmond, il rifugio impostogli dalle sue crisi nervose, scrive La Signora Dalloway e decide che il suo personaggio trionferà sui suoi impulsi suicidi e sopravviverà. Il cerchio si chiude con The Hours, trasposizione sullo schermo del romanzo di Cunningham. Abbiamo così il romanzo originario, La signora Dalloway, il romanzo ad esso ispirato e la sua versione cinematografica, The Hours.

Lambiccato dunque? Eppure il lungometraggio di Daldry non è affatto cervellotico; anzi si fa ammirare perché è una ricostruzione filologica quasi ineccepibile della personalità e dell'opera di una delle più grandi autrici del secolo appena trascorso e nello stesso tempo risulta uno spettacolo fruibile (lo dimostra il discreto successo al botteghino) anche da un pubblico vasto di spettatori non necessariamente forniti di conoscenze letterarie specialistiche. In che modo il regista è riuscito a veicolare in un testo filmico tematiche complesse e meditate, consone piuttosto ad opere letterarie, senza trasformarle in un banale fraseggio di supporto allo svolgimento dell'intreccio? Grande merito della sua regia è quello di aver saputo valorizzare al massimo il contributo dei suoi collaboratori: la sceneggiatura sensibilissima alle sfumature del drammaturgo David Hare, l'abile montaggio di Peter Boyle e l'intensa interpretazione delle tre grandi attrici.

Hare ha rielaborato senza tradirlo il libro di Cunningham in un dialogare fra personaggi teso a svelarne, con la profondità consentita a un testo filmico, i moventi reconditi. Ma si legga questa splendida pagina del diario della scrittrice: "Mi è toccato brancolare un anno intero per scoprire ciò che io chiamo il mio procedere per gallerie: in tal modo io racconto il passato a rate come e quanto mi occorre".

Anche la pellicola di Daldry procede per gallerie, da cui affiorano i mille motivi che alla complessa personalità della Woolf si intrecciano: il femminismo, l'omosessualità, l'attrazione per la morte e per la vita, la malattia mentale intesa anche come incapacità di adeguarsi alla quotidianità borghese. Si passa da una epoca e da una città all'altra senza forzature, senza scollamenti, ed è proprio la perfezione del montaggio a mettere in evidenza il profondo legame che pervade la vicenda nel suo articolarsi e nel ripresentarsi analoga in attimi ed ambienti diversi, come nelle triplice sequenza del bacio lesbico. Ed è ancora il diario di Virginia a chiarire: "I personaggi non devono essere altro che punti di vista: la personalità dev'essere evitata a qualunque costo", e in effetti noi ci troviamo non tanto di fronte a tre storie diverse quanto a quattro punti di vista fusi l'uno con l'altro: l'amore per la vita e l'attrazione per la morte convivono in Laura , Clarissa, Virginia e Richard, e perché negli uni prevalga la vita è necessario che gli altri si sacrifichino. E chi? L'artista, lo insegnava già Dante nel Medioevo, è messaggero di Dio e quindi i sacrificati non possono essere che Virginia e Richard in quanto poeti: è nella natura dei poeti sondare gli incubi segreti della psiche, fino al delirio e al suicidio, proprio perché la loro esplorazione del profondo è salvezza per l'umanità intera.

Il messaggio è reso vivo ed intenso però soprattutto dal talento delle tre attrici che impersonano i tre punti di vista femminili: la macchina da presa, in effetti, non ha occhi e attenzioni che per loro, ne enfatizza maniacalmente le espressioni facciali, addirittura la mano del regista ne ha manipolato i lineamenti: la Kidman ha un naso artificiale, Julianne Moore ha un volto pieno di rughe. Ed è al loro viso sofferente che spetta il compito di spiegare che qualcuno deve morire, affinché altri comprendano il valore della vita.

 


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