Per un'immagine retorica: il cinema di Danny Boyle PDF 
Aldo Spiniello   

Il fatto che Danny Boyle sia stato chiamato a dirigere la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Londra del 2012 è, probabilmente, il dato più illuminante sull’effettivo valore del regista inglese. Si tratta, senza dubbio, di un doveroso riconoscimento alle evidenti qualità spettacolari del suo cinema, ormai consacrato dal successo planetario di The Millionaire. Ma, al tempo stesso, quest’investitura sancisce in maniera definitiva il carattere essenzialmente istituzionale di tale cinema, malgrado la fama eversiva che lo accompagna sin dagli esordi.

Piccoli omicidi tra amici (Shallow Grave) fu salutato, al suo apparire nel 1994, come una ventata d’aria fresca nel panorama “imbalsamato” del cinema inglese. La speranza di una rinascita, nonostante fosse attivo da tempo un regista genialmente corrosivo come Stephen Frears (però mai pienamente investito di uno statuto autoriale) e nonostante l’impegno costante di altri autori come Loach e Leigh. Accompagnato dalla scrittura tagliente e sottilmente furba di John Hodge, Boyle lancia uno sguardo nero e cinico sulle nuove generazioni, mostrando piena padronanza dei ritmi narrativi e una non comune capacità di costruire la tensione. Ha il merito, inoltre, di scoprire e fare affidamento su nuovi talenti (Ewan McGregor su tutti). Alcuni fanno il nome dei Coen (con particolare riferimento a Blood Simple). Non del tutto a sproposito. E il successivo Trainspotting (1996) sembra sancire a pieno la rivoluzione, portando all’estremo l’apparente carica dirompente del cinema di Boyle. Le droghe, gli eccessi, il rifiuto “di maniera” delle convenzioni della vita vuota e frustrante della middle class: il tutto raccontato con uno ritmo volutamente “esagerato” ed esagitato, uno stile ipercinetico, accattivante, ai limiti dell’estetica da videoclip, con un gioco spinto di destrutturazione e ricostruzione delle linee narrative, tra elissi e dilatazioni temporali che sembrano fare eco alle menti allucinate dei personaggi strafatti o psicopatici. E poi quell’ormai celebre gusto per “il disgusto”, che in realtà recupera suggestioni antiche da cultura “bassa”, rende evidente il lavoro (sapiente) di riciclo e di contaminazione, una “coscienza dell’immaginario” e degli umori, che proietta di diritto il cinema di Boyle nelle dinamiche del postmoderno.

Ma rimossa la patina superficiale di anticonformismo, si svela una piena adesione dello sguardo del regista alla sostanza fondamentalmente moralista della scrittura di Hodge, che qui ha come punto di riferimento il romanzo di Irvine Welsh. Moralismo che si fa evidente proprio nella tendenza a “chiudere” il racconto, a comprimere la potenziale carica eversiva nel finale che torna. Come già in Piccoli omicidi tra amici, quel senso di beffa amara e comicità nera mostra i segni di una pericolosa inclinazione all’ammiccamento. C’è qualcosa che non  torna, proprio perché tutto torna. I personaggi di Tainspotting trasgrediscono ed eccedono, ma in realtà finiscono per allinearsi al valore fondamentale di quella società che si ostinano a rinnegare: il danaro, il vero e proprio demone che avvelena l’anima, uno dei motivi ricorrenti del cinema di Boyle. E, allo stesso modo, lo stile che riempie l’immagine in una ricerca spasmodica dell’elemento disturbante, alla fine risulta  appiattirsi e normalizzarsi. E lo straordinario successo del film ne una è spia. C’è qualcosa che non torna e probabilmente, per comprendere a pieno il senso esatto del cinema di Boyle, dobbiamo fare un salto in avanti sino a Sunshine, il film del 2007, sceneggiato da Alex Garland (nuovo compagno di viaggio dall’epoca di The Beach). Perché quell’ossessione di tutti i personaggi e in particolar modo del dottor Searle (Cliff Curtis) per la luce solare racconta perfettamente l’irresistibile tendenza di Boyle a saturare il quadro, a riempire sempre e comunque l’immagine, fino a farla diventare abbagliante.

Proprio come se fossero sempre invase dalla luce del sole, le immagini di Boyle accecano. I ritmi narrativi, gli eccessi, le situazioni al limite della normalità dei personaggi, il montaggio, la fotografia, le trovate “fantastiche” (si pensi a Millions), la continua saturazione del quadro: tutto contribuisce a un sovraccarico spettacolare, che non trova altra giustificazione al di fuori di sé. Ora, questo sovraccarico può essere magicamente funzionale al racconto (è il caso di Sunshine, che per la sua portata teorica è forse il punto più alto del filmografia di Boyle, o di 28 giorni dopo, che nella sua componente di genere richiede un surplus di spettacolo). Ma molto spesso produce un cortocircuito che falsa la visione. E il caso più eclatante è proprio il fortunato The Millionaire, film trionfatore ai premi Oscar del 2009. Il balletto finale, multi colorato e multiculturale, non è il fulmine a ciel sereno di un cinema vuoto che scopre un raro momento di vitalità e libertà. È l’esito perfettamente conseguente di un film “finto”, perché sostanzialmente privato del dramma che cerca di mettere in scena. In un istante, si svela la vera ragion d’essere: spettacolo puro e nient’altro.

Questo cortocircuito tra l’immagine e la sostanza del racconto esplode, quasi in maniera paradigmatica, nell’ultimo film, 127 ore, dove si assiste alla tragica resistenza della materia contro la manipolazione affabulatoria del narratore. Da un lato c’è la carne, il sangue, l’intensità del’incredibile storia di Aron Ralston, che trova una corrispondenza perfetta nella consapevolezza autoriale dell’interpretazione di James Franco, davvero straordinario nel garantire la tenuta emotiva dell’intero film. Dall’altra parte, invece, c’è lo stile ingombrante di Boyle, che non perde occasione per imbastire i suoi soliti videoclip, i suoi sogni e simboli misticheggianti, vagamente new age, profondamente kitsch (e ci sembra di intravedere il fantasma di Oliver Stone e World Trade Center). Certo: l’intenzione era di mettere a confronto la solitudine (non tanto) involontaria del protagonista con il vorticoso e confusionario stile di vita della contemporaneità, raccontare l’incubo dello smarrimento e la follia di un sogno di fuga, destinato a bloccarsi, a naufragare di fronte all’umana necessità dell’altro (e nella storia di 127 ore c’è più di una suggestione che rimanda a Into the Wild di Sean Penn). Tuttavia, lo stile, l’unico elemento davvero disturbante del cinema di Boyle, sembra sempre frapporsi tra gli occhi e il cuore, obbligandoci a distogliere di continuo lo sguardo dai personaggi, dalla materia viva e pulsante del racconto. In un parola, dall’emozione. Che poi 127 ore raggiunga comunque momenti di grande intensità è un altro discorso, che sembra prescindere da un’effettiva consapevolezza del regista e nascere proprio dallo scontro drammatico tra la materia e la forma. E allora, proprio perché continuamente disancorate dal/da un senso, le immagini di Boyle appaiono molto spesso “non necessarie”, puramente esornative, vuote.

In altri tempi, il suo stile si sarebbe definito barocco. Ma sarebbe meglio parlare di cinema retorico, proprio perché fondato sul vuoto di una forma che ha come obiettivi principali la fascinazione (abbagliante) dello sguardo e l’adesione incondizionata dello spettatore. Retorica che, naturalmente, viene a riflettersi nei contenuti politicamente corretti, negli inutili messaggi lanciati a ogni film, fasulli come  la santità guadagnata a suon di pozzi in Africa (Millions). Boyle ci vuole dalla sua parte e non esita a riempirci gli occhi, frastornandoci. Ma non ambisce a sorprenderci, perché rischierebbe il rifiuto. Vuole semmai tranquillizzarci con un’immagine perfettamente riconoscibile, la firma a garanzia della qualità del prodotto. In un solo istante l’eccesso torna alla normalità e tutto ciò che è non conforme, potenzialmente spiazzante, viene a conformarsi, omologandosi a una superficie spettacolare indistinta, calda e morbida. Ogni ipotesi di fuga naufraga, come il sogno della spiaggia perfetta di Richard e dei protagonisti di The Beach. Ma, a ben guardare, il motivo di questo continuo naufragio è che l’evasione è solo una posa, una facile maniera, presto soppiantata dal desiderio ben più pressante e doloroso di integrarsi, di ritrovare una normalità, una casa. Forse è proprio questo il senso profondo e autentico del cinema (sottilmente reazionario) di Boyle, che è sempre il racconto di una mancanza. Tutti perdono qualcosa, gli amici, i soldi, la vita, un braccio, l’innocenza, la Terra, l’umanità. E nell’afflizione di questa ferita, si rimettono alla ricerca dell’antico paradiso, perduto o dimenticato. È solo quando non si ostina a colmare questa mancanza, solo quando si ferma dinanzi alla paura e al desiderio che essa suscita, che Boyle mostra una magnifica fragilità. Come all’inizio di 28 giorni dopo, come nel finale di 127 ore. Sfiora un altro cinema, da amare.

 


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