Il ritorno dei grandi classici PDF 
Umberto Ledda   

I classiconi della letteratura vanno un casino al cinema, quest’anno. Apparentemente, niente di strano: la letteratura, al cinema, tira da sempre. Del resto il rapporto fra l’una e l’altro è sempre stato stretto, un po’ da mamma severa e altolocata e figlio/figliastro/figlio adottivo scapestrato e d’istinto popolaresco (come spesso capita agli eredi di altolocati), per cui è assolutamente normale che il cinema, che col passare dei decenni è diventato grande e si è imborghesito, di tanto in tanto vada a trovare la mamma. Per salutarla, per farle vedere che è diventato grande anche lui, per sentirsi ancora un po’ scemo di fronte alla saggezza, vera o presunta, dei vecchi.

Poi ci sono i classici della letteratura. I classici intesi come le opere che se uno in casa ha dei libri, catalogo Ikea escluso, quelli devono esserci. I mostri sacri della narrativa, le opere considerate immortali, senza tempo, quelle considerate capolavori da così tanto tempo che nessuno si chiede più il perché. Quelle che terrorizzano gli studenti del liceo e che di solito nessuno legge perché son troppo lunghe / son scritte noiose / tanto sai già che alla fine Anna Karenina muore sotto un treno perché ne hai sentito parlare facendo zapping e ti sei trovato su Per un pugno di libri su rai tre / non si capisce niente / eccetera. E questo, in parte, basterebbe già a dare una spiegazione al successo dei film tirati fuori dai grandi classici: l’effetto bignami. A leggere Anna Karenina ci si mette più di due ore, sostanzialmente per il fatto che al cinema le descrizioni non prendono tempo e le sfumature più complesse non si possono vedere, per cui vedere il film può comodamente risolvere il problema di non avere il libro in casa, poi vengono ospiti e fanno conversazione e tu non l’hai letto. In alternativa, classici del genere servono, a chi ha letto il libro, per fare il superiore quando va a casa di uno che lo ha sullo scaffale ma evidentemente non l’ha letto, e tirarsela facendo puntuali paragoni che vanno sempre a finire sul vecchio concetto che “è meglio il libro del film”. Ma quelli che effettivamente hanno letto i libri che dichiarano di aver letto è solitamente limitato. Sta di fatto che, da sempre, i grandi classici della letteratura hanno ottenuto gran bei successi, e nell’ultimo periodo anche di più: nel 2013, quasi in contemporanea, escono le versioni ricche, sontuose (l’aggettivo più usato da giornalisti, recensori e commentatori in genere riguardo al rapporto classicone/trasposizione cinematografica), spettacolari e piene di attori piuttosto fighi dei Miserabili di Victor Hugo e di Anna Karenina di Lev Tolstoj. Una contemporaneità che forse non significa nulla (e del resto le due opere di riferimento non hanno legami, se non quello di essere dei pezzi di letteratura ottocenteschi di dimensioni letterarie considerevoli), ma che di sicuro sta a significare che i tuffi nel passato romanzesco non hanno smesso di funzionare e che, paradossalmente, in questo attuale momento funzionano anche più di prima.

Un sacco di tempo fa Italo Calvino cercava di dare una definizione di “classico”. Venivano fuori, fra le altre, queste considerazioni: I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo…» e mai «Sto leggendo…» / È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona / D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima. La prima e la terza di queste affermazioni, da sole, bastano a spiegare il continuo ritornare di registi e produttori su storie considerate così universali che è sempre il caso di ri-raccontarle in altra forma, per vedere quanto, passati i decenni, hanno ancora da dire. Ma la seconda affermazione è leggermente più ambigua. Il classico è ciò che ha un elemento immutabile che persiste a prescindere dal fluire della storia, che possiede e rappresenta un nocciolo duro di universalità capace di sopravvivere, e di oscurare, a qualsiasi elemento tematico maggiormente legato a un periodo, a un tempo e ai suoi problemi. Ciò implica che il classico è, come d’altra parte si ripete da decenni, sempre attuale. Ma questo implica anche che un classico è così attuale da non esserlo mai realmente. O almeno, è attuale su un piano astratto, purificato, universale e immutabile, appunto. I classici diventano tali in quanto in un modo o nell’altro affrontano o lambiscono quelli che gli intellettuali duri e puri chiamano “archetipici” e i non intellettuali definiscono in vari modi che vanno dalle “inutili fumisterie” alle “robe troppo astratte quando è gennaio e quest’anno i rincari del riscaldamento sono un problema abbastanza rilevante da non aver tempo per pensare che alla fine gli esseri umani sono irrimediabilmente soli o al conflitto fra istinto personale e strutture sociali”. Una specie di distillato delle tematiche, che ne conserva un’anima profonda liberandosi da ogni forma di contingenza. Che è il motivo per cui ci si può tornare su sempre, volta dopo volta, rileggendolo o tirandoci fuori una sceneggiatura. È il motivo per cui li si può attualizzare a piacere, li si può deformare fin quasi a snaturane la struttura di base, senza perdere nulla della matrice originaria.

D’altra parte i due classiconi nelle sale a inizio 2013 mettono in atto dei meccanismi (quasi solo formali, in questi casi) di attualizzazione, di deformazione: Anna Karenina, dietro la storia, immutata, di passioni e di ipocrisie, si trasforma in un raffinato meccanismo metafilmico-metateatrale di stampo quasi formalista, mentre dei Miserabili la filiazione romanzo-film viene filtrata da un’altra espressione mediatica successiva all’opera letteraria, quella del musical. In entrambi i casi il formato, se non la sostanza della storia originale, è pesantemente modificata, senza che nessuno si sogni di parlare dei due film come di coraggiose trasposizioni metamediali. Del resto, la vicenda di Anna Karenina potrebbe essere rappresentata senza grossi problemi anche ambientandola in una società futura o extraterrestre: basta che in questo eventuale mondo possibile esistano i concetti di società e di individualità, e che gli individui che si muovono in questa società possiedano il concetto di felicità. Quando Coppola prese Cuore di tenebra ambientandolo nella guerra del Vietnam riuscì ad essere assolutamente coerente con tutte le tematiche conradiane, dalla prima all’ultima, ottenendo un film di cui si riconosce a fatica la matrice letteraria, ma che è, e rimarrà per un bel po’ di tempo, la miglior trasposizione di Conrad al cinema. La capacità dei classici è quella di aggirare la contingenza, la storia, la realtà pratica del suo tempo, trasponendola su un piano astratto, fuori dal tempo, una specie di nicchia assoluta da cui possono essere tirati fuori in qualsiasi momento. Che è il motivo, infine, per cui i classici rappresentano la più pura delle forme di evasione dal presente, non importa quanto importanti, o pesanti, o tragici siano i temi che mettono in scena.

Rileggere un classico, o ancora di più guardarne una trasposizione cinematografica (che è ovviamente una riduzione, perché il cinema è un’arte complessa e raffinata, ma necessariamente riduce la parte di riflessione che costituisce gran parte dei romanzi di riferimento, per il semplice fatto che per il cinema è difficile mettere in immagine le riflessioni astratte), è un modo per percepire e vivere pulsioni e temi importanti, al netto dei problemi contingenti. Si leggono, o si guardano, i problemi e i conflitti di un tempo remoto, nobilitati e sublimati appunto da quel nocciolo di universalità astratta (e quindi apparentemente reali, mai posticci), e questo esime dal pensiero dei propri problemi e dei propri conflitti. La catarsi narrativa, in questi casi, si attua in una specie di zona libera: i conflitti che divampano nello spettatore specularmente a quelli che divampano nei personaggi sono sì forti e laceranti, ma sono radicalmente distanti da quelli che si vivono nella realtà di tutti i giorni. In un periodo storico caratterizzato da conflitti sociali-personali percepiti come irrisolvibili, o risolvibili solo attraverso la tragedia, il ritorno ai classici, nella lettura e nella visione, da questo punto di vista può essere considerata come una delle tante forme di rifugio nel passato, di nostalgia di altri tempi più belli, o percepiti tali in quanto, dopo così tanto tempo, non se ne intravedono più le fastidiose problematiche contingenti. Nella sontuosità delle scenografie e dei costumi, nei dialoghi raffinati e pieni di passioni e di amore e di tragedia, ma assolutamente slegati ai pensieri reali che si torneranno a fare una volta chiuso il libro o usciti dal cinema, sta una delle forme più raffinate, e di sicuro intellettualmente più sostenibili, di fuga dalla realtà.

 


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