Onora il padre e la madre: Before the devil knows you're dead. PDF 
Sarah Franzosini   

Nel breve tempo che ci resta, prima che il diavolo si accorga della nostra morte, l’occhio meccanico dell’ottuagenario Sidney Lumet (Quel pomeriggio di un giorno da cani, La parola ai giurati, Serpico) ci trascina severamente nel sostrato più marcio e maleodorante della psiche umana, rivelandocene le nevrosi in una realtà dove condizione e dimensione dell’uomo diventano il cardine della storia.  Quella a cui assistiamo è una cronaca di dolore, (auto)distruzione e morte ambientata in una Manhattan grigia e asettica che accoglie e raccoglie nel suo grembo i due fratelli protagonisti, sopraffatti da un’esistenza unidimensionale che non si rassegnano a voler vivere.

Il sogno deteriore di Andy (Philip Seymour Hoffman che, al solito, veste l’abito che meglio gli sta addosso) e Hank Hanson (Ethan Hawke, da Training day in avanti una continua sorpresa) li porta ad organizzare una rapina a danno della gioielleria degli anziani genitori, in modo da poter successivamente riscattare l’assicurazione e far fronte ai problemi finanziari che affliggono entrambi.  Andy incarica il fratello minore di occuparsi del colpo ma quel giorno, secondo la più fatale legge di Murphy, non tutto va secondo i piani: il debole Hank non ha il coraggio di portare a termine il lavoro da solo e si affida ad un balordo, che, ignorando gli ordini, spara alla madre dei due fratelli che per un fortuito caso, proprio quel giorno, si trovava a sostituire l’anziana commessa al negozio.

Da questo preciso punto in poi inizia la catabasi che trascina e isola gli sfortunati protagonisti nella solitudine più spietata. Hank ha una intransigente ex-moglie e una giovane figlia da mantenere e, per sfuggire al suo caotico anonimato, decide di cedere alla follia del fratello e di tradire la sua natura docile, ma la patetica immobilità che gli dipinge addosso il regista è a un tempo espressione e commento accorato della sua totale assenza di stimoli e di spirito. Se da un lato per questo personaggio riusciamo a provare una nota di empatia, che si trasforma in pietà quando lo vediamo cadere vittima del più banale dei clichè portandosi a letto la cognata (Marisa Tomei), dall’altro il ritratto che si fa del fratello è ben più agghiacciante.

Sin dalla primissima scena di sesso che apre il film, mentre guardandosi allo specchio possiede la moglie nel modo in cui, a dirla con il divin Marchese le donne vengono più offese, già ne intuiamo la natura perversa e malvagia. Nichilista, eroinomane e impassibile, Andy è la serpe silenziosa che spezza l’ordine universale del suo inferno familiare, perfino quando la madre cade in coma dopo la sparatoria non vediamo un’ombra di trasalimento sul suo volto, nessun segno di cedimento, e lo stesso (non) accade quando la moglie gli confessa l’appuntamento fedifrago del giovedì in compagnia del fratello minore.  Nei pochi barlumi di “umanità”, quando lo ritroviamo nell’appartamento radical chic del suo spacciatore di fiducia con lo sguardo assente e un bicchiere mezzo vuoto in mano a sciorinare filosofia spicciola, o quando riceve uno schiaffo in pieno viso dal padre (un magistrale Albert Finney in ottima forma) per aver dubitato di essere realmente figlio suo, è comunque ormai troppo tardi per ricordarsi di essere compassionevoli e restiamo sterili spettatori del suo destino, qualunque esso sia, anche il più crudele.

Sidney Lumet si dimostra molto generoso con i suoi attori che inscrive perfettamente nella storia come sullo schermo ma, se ci è permesso, il motore della “macchina” narrativa non brilla nè in originalità nè in qualità. Il regista sceglie di procedere per tagli temporali, con continui flashback e flash-forward che difettano di ridondanza e magniloquenza e faticano ad incastrarsi; una tecnica, questa, ormai abusata e senz’altro meglio riuscita ai colleghi A.G. Iñárritu, che ne ha fatto il leitmotiv della sua trilogia (Amores Perros, 21 grammi e Babel), e Christopher Nolan con il suo labirintico Memento.  La destrutturazione del racconto soffoca il senso del ritmo e manca di armonia perchè ogni stacco è violento e sacrifica la fluidità e la linearità dell’insieme narrativo.

Il climax finale, facendo il verso alla più classica delle tragedie greche, compensa nell’intenzione le dissonanze pseudo-virtuose dei tempi narrativi del film, ed è allora, quando il padre scopre l’orribile piano e il suo perfido ideatore, che impariamo che esercitare la giustizia spesso non coincide affatto con l’essere giusti. Sic est.

 


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