Tron: Legacy PDF 
Marco Doddis   

Atteso, bramato, discusso e ridiscusso, il seguito di Tron, originale ma ingenua pellicola di fantascienza datata 1982, è finalmente sbarcato sulla Terra. Con un certo rumore, diciamolo subito. L’atterraggio era stato programmato da tempo, ma non si trovava un pilota che avesse coraggio a sufficienza per prendersi una così ingombrante responsabilità. Sì, perché di responsabilità c’è da parlare quando hai alle spalle certi marziani (la Disney, con tanto di costola d.o.c., la Pixar) pronti a liquefarti alla minima incertezza. Dunque, onore al merito per l’uomo che ha guidato l’astronave, lucidandola e sottraendola alle nebbie del tempo: mister Joseph Kosinski.

Si tratta di un esordiente e, solo per questo, togliersi il cappello al suo cospetto è quasi d’obbligo. Non vogliamo scomodare nessuno (per quanti eredi gli sono stati affibbiati, a Spielberg sarebbe necessaria una visita dall’otorino), tuttavia, per realizzare con successo un prodotto di questa portata, sicuramente non ti deve mancare il talento. In più, sono arrivati gli incassi, gli applausi e persino le sperticate lodi di certa critica. Insomma, Kosinski non poteva sperare in un atterraggio più dolce. Qualcuno obietterà che il nostro partiva con un vantaggio non da poco, cioè quello di doversi confrontare con un’opera onesta ma non trascendentale. Il fardello del primo capitolo era tutto sommato leggero: con i mezzi attuali e con il dispiegamento di forze messo in campo da mamma Disney si poteva solo fare di meglio. Tuttavia, se il film funziona, il merito è almeno per metà suo. La ruota della regia è quella che gira meglio, perché in grado di armonizzare i molteplici elementi del film. In primis, Kosinski riesce a nascondere i difetti di una sceneggiatura zoppicante e un poco sbrigativa (i signori Adam Horowitz ed Edward Kitsis potevano fare di meglio. Ah già, dimenticavamo che sono quelli di Lost …). Poi, mastica il 3D come fosse il suo pane quotidiano, dosando sapientemente le dosi e rendendolo perfettamente funzionale alla storia e alle sue implicazioni semantiche (non ce ne voglia Cameron, ma il suo Avatar, in questo confronto, ne esce sconfitto). Infine, riesce a sviluppare un discorso affatto banale nel caotico fluire dei fatti, nelle epilettiche piroette dei protagonisti e dei loro mezzi di trasporto. L’occhio che segue l’avventura di Sam Flynn (un Garrett Hedlund mono-espressivo), il figlio del protagonista di Tron (rivedere Jeff Bridges digitalizzato fa un certo effetto), è dunque davvero abile. È capace di ammiccare, specie nella prima mezz’ora, dove sono tanti i riferimenti, anche nostalgici, al vecchio film e a quelle atmosfere. Mentre Sam scorrazza per la città impegnato a sabotare la Encom (la società del padre da lui ereditata), a pubblicizzare il marchio Ducati, a mettersi sulle tracce del genitore scomparso, a visitarne la vecchia sala giochi, i fan di Tron entrano subito in empatia con il protagonista, rivivono in lui la stessa infanzia perduta negli elettronici anni Ottanta. L’occhio di Kosinski è anche capace di divertirsi e divertire: nella diegesi narrativa, l’evoluzione, il climax e lo scioglimento della storia costituiscono in prima istanza un semplice e grande giocattolo per gli occhi e per le orecchie. Ed è difficile non sentirsi ludicamente coinvolti quando Sam viene catapultato nella rete e riconosciuto come uno User (ci dovranno spiegare perché, al doppiaggio, User è diventato Creativo ... misteri della fede cibernetica) o l’alter ego del padre lo sfida in una gara visivamente sontuosa con le moto di luce o, ancora, quando assistiamo al ricongiungimento con il vero Kevin Flynn, un Bridges brizzolato e alla ricerca del chakra perduto. È difficile perché, attraverso queste tappe, il film si svela per quello che in realtà è: un gigantesco videogame.

L’essenza di Tron: Legacy coincide esattamente con quel mondo a più livelli di difficoltà che si propone di rappresentare. In questo senso, la pellicola porta alle estreme conseguenze il discorso già avviato trent’anni fa, la riflessione sulla digitalizzazione dell’umanità e del cinema che quella umanità ha sempre raccontato. Ecco allora che il film di Kosinski vuole programmaticamente ergersi a pietra miliare, a punto di non ritorno. Auspica la nascita di un uomo nuovo a partire dalla tecnologia, un uomo che però sia in grado di muoversi fuori di essa. Parallelamente, e qui il paragone con Avatar è inevitabile, cerca di costruire un cinema come gioco e un gioco nel cinema. Lo spettatore, al di là dei gusti e delle preferenze, fa fatica a non rimanere imbrigliato in questo meccanismo. I più giovani sperimenteranno un godimento puro, uno spettacolo di colori e suoni che li aggredirà fin dentro il cervello. A tratti, qualcuno di loro sentirà anche l’esigenza di partecipare e, oltre all’occhialino fumé, pretenderà uno di quei fenomenali manubri utilizzati nel film o, almeno, un banale joypad. I più vecchi o smaliziati, invece, sorrideranno benevolmente di fronte a certe ingenuità da fantasy per bambini, ma soprattutto faranno a gara per riconoscere questa o quella citazione nel più collaudato dei giochi cinefili. Non solo il primo Tron, ma il meglio della storia della fantascienza su grande schermo vive in questo secondo capitolo: da Il Quinto Elemento a Blade Runner, da Matrix a Guerre Stellari, fino a 2001: Odissea nello spazio (vista la somiglianza, non ci sarebbe stato da meravigliarsi se nella casa di Jeff Bridges avessimo scorto l’ombra del vecchio astronauta Keir Dullea o quella del monolite nero). Insomma, ce n'è davvero per tutti i gusti.

Come detto però, Kosinski si spinge al di là del puro divertissement, che comunque rappresenta l’aspetto più significativo dell’opera. Il fatto stesso di mettere in scena uno scontro in una realtà virtuale induce a riconsiderare le categorie di bene e male. Naturalmente si tende alla semplificazione, alla schematizzazione, efficacemente resa dalla contrapposizione cromatica tra le linee arancioni e quelle bianco-ghiaccio. In tutti i duelli, in ogni inseguimento, il buono, cioè il Creativo, è immediatamente distinguibile dal cattivo, cioè il Programma. Si tratta di una operazione pressoché inevitabile, necessaria per mettere un po’ di chiarezza in un universo così confuso (checché ne dica Flynn-Bridges, secondo cui “il caos è un’ottima cosa”). Solo CLU, la nemesi tecnologica, colui che si ribella al suo umano demiurgo Kevin, prova a far saltare quest’ordine di cose, cercando di approdare, senza successo, al mondo reale. Nonostante le banalizzazioni, però, il confronto chiama in causa una questione assai interessante: il concetto di perfettibilità di tutto ciò che l’uomo crea per migliorare il proprio mondo. Oggi, con il terzo millennio che veleggia ormai con il vento in poppa, molti si chiedono fino a che punto ci si potrà spingere nella realizzazione di oggetti, di “cose” perfettamente funzionali a desideri e obiettivi. Il film, a tal proposito, sembra suggerire che la perfezione è di per sé irraggiungibile, perché essa risiede paradossalmente nell’imperfezione, nell’instabile ma mirabile equilibrio della natura. Attenzione però: non siamo dalle parti di una spiccia morale da Mulino Bianco. C’è di più, c’è un che di romantico, quasi di fichtiano negli sforzi  profusi dagli eroi di Tron.

In attesa di scoprire Tron: Uprising (proprio così: pare ci sia in cantiere una serie TV con questo nome), non resta che vedere, magari un paio di volte, questo Tron: Legacy. E sentirlo: la colonna sonora dei Daft Punk, così matura nei suoi ritmi cyber-elettronici, è assolutamente imperdibile.

TITOLO ORIGINALE: Tron: Legacy; REGIA: Joseph Kosinski; SCENEGGIATURA: Adam Horowitz, Edward Kitsis; FOTOGRAFIA: Claudio Miranda; MONTAGGIO: James Haygood; MUSICA: Daft Punk; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 127 min.

 


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