Tra le nuvole PDF 
Marco Doddis   

Ha detto bene il regista Jason Reitman, quello di Thank You For Smoking e Juno, a proposito del suo ultimo lavoro: Up in the Air (dalle nostre parti, Tra le nuvole) è un film sulla solitudine piuttosto che sulla crisi economica. Certo, l'attuale e tremenda questione della disoccupazione galoppante si configura come pretesto tematico e collante dell’intero tessuto narrativo. Non un semplice “McGuffin”, per intenderci. Tuttavia, se si compie lo sforzo di ascoltare la pancia, la nostra pancia di spettatori, al termine della proiezione ci si renderà conto di quanta profonda amarezza permanga anche dopo aver lucidamente relativizzato il problema socio-economico emergente dalla storia. Ciò appare valido in maniera trasversale per una semplice ragione: la moderna civiltà occidentale, nella sua interezza, è contaminata dal germe della solitudine, che contagia pure chi non ha difficoltà sul lavoro.

Quella con cui abbiamo la malasorte di confrontarci è una solitudine del tutto particolare, tipica dei nostri tempi. È la medesima solitudine che assale, in maniera più o meno latente, il protagonista del film, quel Ryan Bingham gigionescamente interpretato dal sempre convincente George Clooney. Ryan è un “tagliatore di teste”, un tizio che se ne va in giro per gli Stati Uniti, quasi trecento giorni all’anno, a licenziare la gente. Il suo lavoro, togliere il lavoro, è spietato, cinico, inumano. Talmente inumano che si presterebbe a essere svolto anche a migliaia di chilometri di distanza dal licenziato, tramite un’asettica seduta di videoconferenza. Manco a dirlo: è proprio ciò che accade. Su suggerimento di una brillante neo-laureata (la divertente Anna Kendrick), l’azienda di Ryan decide di sperimentare il “congedo” telematico (per indorare la pillola al poveretto di turno, viene così definito il licenziamento), economizzando sulle trasferte degli aguzzini come lui. Alla fine, però, non se ne farà nulla e il protagonista potrà continuare a svolgere la sua vecchia attività. Tutto bene? Macchè. Il Ryan che abbiamo di fronte nel finale è un individuo diverso rispetto a quello della prima mezz’ora: è un uomo che ha conosciuto l’amore – lo ha stregato Alex, sua omologa al femminile (un “lui stesso con la vagina”, come si autodefinisce la fascinosa Vera Farmiga) – come un estemporaneo arcobaleno tra le sue nuvole; ed è soprattutto un uomo più umano, che ha preso coscienza della necessità di relazioni interpersonali più solide, anche attraverso il riavvicinamento alla propria famiglia (l’occasione gli è stata fornita dalla partecipazione alle nozze della sorella).

Dunque, il percorso formativo del protagonista conosce un andamento circolare. Da brillante e cinico yuppie, con in mente solo lavoro-donne occasionali-denaro, a yuppie, sempre brillante, ma sofferente per la propria condizione di instabilità, di solitudine. Insomma, è un precario nella vita, tanto quanto gli impiegati da lui licenziati lo sono nel lavoro. Si trova nel medesimo limbo. Nell’uomo Ryan, dunque, si esplicita al meglio il tratto dominante di quel mondo occidentale prima citato. Il “taglia-teste” Clooney, cioè, favorisce una trasversale identificazione spettatoriale proprio perché è solo in un mondo che sembra aver smarrito l’umanità, che tende ad assumere gli stessi atteggiamenti e gli stessi comportamenti sia sul piano privato che su quello pubblico. E dietro a questa perdita di “calore interpersonale”, Reitman lo suggerisce esplicitamente, c’è soprattutto l’algidità dei moderni sistemi comunicativi. Si può togliere l’occupazione a un uomo, senza troppi rimorsi, dallo schermo di un computer. Con un semplice sms si può essere lasciati dal fidanzato e si può lasciare il lavoro (riecco la confusione, l’indifferenziazione pubblico-privato): entrambe le cose accadono alla giovane Kendrick. Ecco dunque il motivo principale per cui questo Tra le nuvole funziona: riesce a divertire facendo riflettere e lasciando un non so che di irrisolto nello stomaco di chi esce dalla sala. Come nella migliore tradizione della commedia brillante americana. Certo, non siamo dalle parti di Capra o di Wilder: qualche difettuccio c’è (la parte centrale del film, quella del “ritorno alla purezza delle origini” di Ryan corre il rischio di cadere nello scontato e nello schematico. Rischio fortunatamente evitato da un’impennata nel finale). Tuttavia, la semplicità della scrittura, le prove confortanti di tutti gli attori e l’efficacia di alcune trovate – Alex e Ryan che competono in varietà e prestigio di carte di credito; le testimonianze quasi documentaristiche di veri impiegati licenziati; la voce off sui titoli di coda di Rolfe Kent, musicista del film, che simula una telefonata al regista Reitman, chiedendogli di utilizzare la sua colonna sonora per la pellicola, visto che anche lui ha perso il lavoro – valgono abbondantemente il prezzo del biglietto.

Un plauso particolare, infine, lo merita lo stesso Reitman, capace di tirare le fila di tutto con una regia accattivante. La sua cinepresa riesce a descrivere perfettamente il mondo di Ryan, stabilendo una felice corrispondenza tra il carattere del personaggio e l’ambiente che lo circonda. Le camicie meticolosamente ordinate, i collaudati movimenti del trolley, i rituali di corteggiamento: la metodicità della sua vita e il suo carattere omologato si riflettono felicemente nell’occhio geometrico del regista, che propone un parallelismo formale con l’occhio del protagonista stesso. Nella prospettiva di Ryan, il mondo (la sua America) appare tutto uguale, omologato come lui, appunto: dal suo oblò si scorgono campi coltivati con schematica precisione e città del tutto simili tra loro, riconosciute dallo spettatore solo grazie al nome posto in sovrimpressione. Un mondo indefinito, reso tale dalla carenza di riferimenti distintivi. Un mondo insicuro e, dunque, precario.    

TITOLO ORIGINALE: Up in the Air; REGIA: Jason Reitman; SCENEGGIATURA: Jason Reitman, Sheldon Turner; FOTOGRAFIA: Eric Steelberg; MONTAGGIO: Dana E. Glauberman; MUSICA: Rolfe Kent; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 108 min.

 


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