The Conspirator PDF 
Fabio Fulfaro   

Dovrei diventare come quelli che non dicono mai niente, anche se non tengono mai la bocca chiusa, dei veri e propri pezzi di merda che fanno le nostre leggi...

Tutto il cinema di Robert Redford, a partire dall'esordio del 1980 con Ordinary People fino ad arrivare a Leoni per agnelli, ha sempre viaggiato su un duplice binario: da una parte la lotta morale del singolo di fronte ad un sistema che tende a isolarlo ed eliminarlo, dall'altra una lente di ingrandimento sulle dinamiche familiari con particolare attenzione al rapporto padri e figli. L'ultima opera di Redford regista, The Conspirator, percorre speditamente le sopracitate coordinate traendo spunto dalla cronaca di un fatto realmente accaduto: la cospirazione che il 15 aprile del 1865 portò all'assassinio del presidente americano Abramo Lincoln, e che vide coinvolta una donna, Mary Surratt (madre di uno degli attentatori), ingiustamente dichiarata colpevole da un tribunale militare e condannata all'impiccagione.

Redford prova ad analizzare razionalmente, senza sentimentalismi o retorica, la reazione del sistema di potere di fronte ad un attacco violento: in tempo di guerra vengono a cadere tutti i diritti civili, e questo sembra l'alibi per colpire indiscriminatamente colpevoli e innocenti. Una donna che ha la sventura di ospitare nel suo ostello i cospiratori viene già giudicata e condannata al di là di ogni ragionevole dubbio, al di là di prove evidenti che ne fanno risaltare l'estraneità ai fatti. La sua morte dovrebbe servire da deterrente, da modello esemplare, da avvertimento. Invece rivela la barbarie e l'inciviltà di un sistema di governo che ama definirsi la democrazia più liberale del mondo e invece compie attentati alla Costituzione e alle regole del normale vivere sociale. È facile pensare ai giorni nostri, al periodo che è seguito agli attentati alle Twin Towers nel 2001, alle ritorsioni americane, a Guantanamo, ai discutibili metodi della CIA, alle influenze sulle altre democrazie europee, alle bombe “diversamente intelligenti”, alla soppressione di Osama Bin Laden senza un processo. Redford fa assumere il proprio punto di vista all'indiscusso protagonista del film, il giovane eroe di guerra (dalla parte dei nordisti) Frederick Aiken (ottima l'interpretazione di James McAvoy), che, divenuto avvocato, si accorge dell'enorme distanza tra gli ideali della sua professione e una intera Nazione che pretende vendetta, calpestando norme e arrivando ad occultare la verità. Pur assumendo la difesa della sudista Mary Surratt in maniera poco convinta, il giovane Aiken, con al fianco il solo senatore Reverdy Johnson (un gigantesco Tom Wilkinson), si rende col passare del tempo consapevole di essere di fronte ad una specie di messinscena travestita da tribunale militare. Il procuratore, il Ministro, la giuria, la stampa, le autorità religiose, i testimoni sono tutti attori che recitano una parte di un film dell'orrore dal finale già scritto.

Robert Redford, l'attore de I tre giorni del condor e Tutti gli uomini del presidente, il regista di Quiz Show e Leoni per agnelli, il fondatore del Sundance Film Festival, l'amante della natura (e della pittura naturalistica), ha sempre combattuto nella vita di tutti i giorni per affermare i suoi principi democratici, il suo antimilitarismo, la sua dichiarazione di indipendenza dallo star system di Hollywood. C'è una frase che viene pronunciata proprio da Redford nelle vesti del professor Stephen Malley in Leoni per agnelli, “dire le cose come stanno significa essere pronti al passo successivo ...”, che ne rivela l'impeto morale, un atto d'amore verso la verità che diventa sinomimo di giustizia e libertà. Viene subito alla memoria la lezione di Sydney Lumet in Twelve Angry Men, in cui un uomo solo si batte contro gli altri undici giurati per dimostrare la pericolosità e le responsabilità morali di un giudizio frettoloso e sommario. Solo che stavolta vi è un ribaltamento dei punti di forza e la consapevolezza che le lobbies di potere possono cambiare le regole del gioco e trasformare una vittoria in una sconfitta con il semplice gesto autoritario di un editto presidenziale che si fa gioco dei principi costituzionali dell'Habeas Corpus. A differenza di Leoni per agnelli, dove l'impostazione teatrale privilegiava il campo/controcampo, Redford fa ricorso a molti espedienti per movimentare l'azione e per coinvolgere maggiormente lo spettatore: il montaggio alternato che segue le diverse linee della cospirazione, la macchina a mano nelle scene processuali, gli insistiti primi piani sui volti dei protagonisti, la rispettosa plongée nella scena dell'esecuzione. E soprattutto un lavoro accurato nella fotografia a volte sovraesposta in alcune scene, molto “caravaggesca” in altri momenti, come quelli della prigionia, con fasci luminosi provenienti dalle finestre che strappano i personaggi dalle tenebre e li denudano di fronte all'occhio della macchina da presa, in un'operazione che richiama alla memoria quella di Ridley Scott ne I Duellanti. E così, soprattutto il personaggio di Mary, novella Giovanna D'Arco condannata al rogo, assume una aurea di sacralità che ne fa risaltare il martirio, la disperata solitudine.

Dicevamo della immane fatica del protagonista di fronte a una sentenza già scritta, ma su questa sofferenza fisica e morale si innesta il secondo tema redfordiano sulla conflittualità dei legami familiari. Mary Surratt è lacerata da un sentimento ambivalente: da un lato vorrebbe allontanare lo spettro dell'inevitabile condanna a morte, dall'altro vorrebbe proteggere la latitanza del figlio, coinvolto nel complotto. Così alle reticenze dei testimoni, ai commenti sarcastici della fidanzata, all'esclusione dai circoli privati cui precedentemente era ammesso, per il povero avvocato Aiken si aggiunge la beffa di una assistita non collaborante, chiusa in un'anoressia verbale e nervosa che riflette l'enormità del suo conflitto interiore. Sembra di ritornare alle dinamiche nevrotiche di Gente Comune o ai percorsi di conversione de L'uomo che sussurrava ai cavalli: il senso di colpa per una responsabilità troppo grande, il rimorso per ciò che si poteva dire o fare e invece si è lasciato a metà vigliaccamente, il legame familiare che si trasforma in una corda con il nodo scorsoio. Ma mentre nei film precedenti compariva una figura provvidenziale, “salvifica” (lo psichiatra, il “sussurratore”), che convogliava la narrazione verso un rasserenante lieto fine, nelle ultime opere di Redford l'amarezza e la disillusione sembrano prendere il sopravvento.

La tendenza del cinema americano contemporaneo post 11 settembre è stata proprio quella di prendere coscienza della fine ingloriosa del “grande sogno”, evidenziando le contraddizioni e le stonature. Si pensi a Il Petroliere di Anderson, a Onora il padre e la madre di Lumet, a Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen fino ad arrivare a Revolutionary Road di Mendes e a Gran Torino di Eastwood. L'America sognata dai padri è divenuta l'incubo dei figli. La nuova America multirazziale è confusa, sbandata, e la ricchezza si basa su un commercio di prodotti a breve conservazione: è la New Economy del cinismo di imprenditori senza scrupoli, distruttori di beni altrui. Con The Conspirator si compie quell'opera di rivisitazione e destrutturazione storica che consente di portare un raggio di luce dentro il neo-oscurantismo medioevale che vorrebbe occultare eventi e documenti per creare una bibliografia a posteriori fittizia e naturalmente scritta dal vincitore. Un po' l'operazione sottilmente sovversiva di Polanski con L'uomo nell'ombra, un po' il furore iconoclastico di Oliver Stone (JFK, Wall Street), Redford mitiga tutti questi ingredienti evitando le cadute di gusto o gli scivoloni qualunquisti: non c'è solo il grido di protesta o il lamento poco costruttivo, c'è anche l'invito a fare “qualcosa che serva” non solo a sé stessi ma anche per gli altri. Di conseguenza, la scelta di Frederick Aiken di mollare l'avvocatura per diventare un giornalista del Washington Post (un Bob Woodward ante litteram) è un tentativo di controbattere aggredendo il sistema dall'esterno piuttosto che provarlo a cambiare dal proprio interno. Resta l'amarezza per l'ennesimo “ghost citizen” incastrato dalla ragion di stato e già archiviato nella cartella “invisibili”: non è stato il primo, non sarà l'ultimo. E quell'ombrello nero che nel finale si apre contro il sole non è solo un presagio di morte, ma anche la prova indiretta di un Paese che ha perso definitivamente la sua innocenza.

 


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