Emidio Greco PDF 
Enrico Maria Artale   
Indice articolo
Emidio Greco
Pagina 2

Continuiamo sulla questione che lei ha aperto riferendosi a quel dialogo tra il protagonista e l’ingegnere; ciò che è venuto in mente a me, e a molti altri, proprio nella costruzione della sceneggiatura, nel mettere in scena situazioni il cui dialogo non sarà ulteriormente chiarificato…
Situazioni fini a sé stesse, ma ognuna delle quali è una tessera a comporre il puzzle…

ImageCerto; ma c’è una stratificazione di senso che lascia volutamente indefinite molte questioni. Penso che proprio questo possa essere collegato a Luis Buñuel, perché viene a costituirsi  una certa astrazione dal contesto reale.
Sta pensando a Il fascino discreto della borghesia?

Esattamente. L’ultima straordinaria fase della produzione di Buñuel.
Lei sa che per me Il fascino discreto della borghesia è il film più importante o comunque più compiuto di Buñuel?

Non lo sapevo ovviamente, ma l’avrei immaginato; e comunque, mi conforta saperlo. Pensavo infatti anche ad uno sguardo rivolto alle dinamiche nascoste che esistono nei rapporti di società, e ad un certo surrealismo sublimato dal confluire di questi elementi nel contesto realistico; anche rispetto a Buñuel, ma lei mi sta anticipando, volevo sapere qual era il suo rapporto e quanto questo rapporto fosse importante per il film.
Buñuel mi piace moltissimo, ma non ho mia pensato a lui facendo questo film; lei mi ci fa pensare tuttavia. Ribadisco intanto che Il fascino discreto della borghesia è a mio avviso il film più compiuto di Buñuel, nel senso che il momento fantastico o surreale di Buñuel è metabolizzato dalla struttura narrativa. Un film miracoloso, quando io lo vidi nel ‘72, pur essendo allora di una giovinezza preoccupante, uscii dal cinema Barberini come se mi avessero dato una scarica di cazzotti. L’idea che il film lo avesse realizzato un signore che all’epoca aveva 72 anni mi ha lasciato del tutto sconcertato; all’epoca comunque era di fatto il film più d’avanguardia, se uno non va per linee esterne, per così dire. Ciò detto non ho mai pensato ad alcun regista facendo questo film, ma questo è normale perché ad un certo momento ognuno parla con la sua voce; da tempo non ho più alcun problema di riferimento ad altri autori. Ad un certo punto chiunque i suoi riferimenti deve averli metabolizzati. Si può citare, ma ormai la poetica citazionista postmoderna ha avuto la sua stagione, producendo molti film straordinari, molte scopiazzate spacciate per postmoderno, ed in quel caso è chiaro che forzatamente si deve risalire agli autori di riferimento. Ma per quanto mi riguarda credo di fare autonomamente il mio cinema, nella sua originalità. Tuttavia alcuni autori di riferimento è chiaro che ognuno di noi li ha metabolizzati, e quindi non li ha annullati. Naturalmente se li porta dietro, ma ciò vale in ogni momento della storia dell’arte, per chiunque, in qualunque campo.

ImageÈ ovvio, proprio a quel tipo di relazione io mi riferivo, ad un portarsi gli autori dentro. In Buñuel c’è la volontà di descrivere certe dinamiche, certi aspetti del mondo o della società, o ancor di più, in un senso più antropologico che psicologico a mio avviso, certi istinti comportamentali delle persone. Allora in confronto, volevo chiederle se nel suo ultimo film c’è ancora la volontà di descrivere o forse di interpretare qualcosa del mondo reale, oppure il cinema ha perso il potere critico nei confronti della realtà stessa.
Che il cinema abbia la capacità di relazionarsi con la realtà è un dato di fatto; io rifiuto l’interpretazione del cinema in chiave sociologica. Il problema è capire in che modo il cinema o la letteratura si può relazionare con la realtà; certamente, per quanto mi riguarda, non ha alcun senso pensare di relazionarvisi per raccontare la realtà. Questa idea sociologica del cinema è quella predominante, oggi, come spesso in passato; e il problema non è facile da comprendere perché nel frattempo le cose si sono anche complicate. Come si può ignorare che i fatti che ci interessano non sono soltanto quelli che ci riguardano personalmente, del quale veniamo informati e che stanno in un raggio di realtà piuttosto breve? Come si può da una parte sentire continuamente la parola globalizzazione e poi pensare che sociologicamente il compito del cinema consista nel raccontare un particolare di cui non ce ne può fregare nulla, e di cui sappiamo assolutamente tutto perché tanto la televisione, magari in maniera distorta, ci informa costantemente? Il particolare può essere scelto perché capace di affrontare altro, di ampliare gli orizzonti; non voglio dire che bisogna affrontare i temi della globalizzazione, ma deve essere presente il sentimento di far parte di una realtà globale. Per quel che mi riguarda il modo in cui il mio cinema si relaziona con la realtà è in senso etico; nel mio primo film, a differenza di quanto accadeva nel libro, non a caso il naufrago distruggeva la macchina, e cioè la consolazione di una immortalità fittizia; in Una storia semplice, se qualcuno aveva dei dubbi viene detto chiaramente che non esiste la verità o la giustizia con l’iniziale maiuscola, e che lo statuto della realtà è l’ambiguità; quindi dal punto di vista etico significa che il problema è di accettare di vivere nell’ambiguità, privandosi delle fughe o dei traguardi creduti raggiungibili di verità assoluta o di giustizia assoluta; perché è molto più difficile vivere in una realtà che si dà per statuto come ambigua. Ne Il consiglio d’Egitto sono comprensibili le motivazioni che portano l’abate Vella e l’avvocato Di Blasi a coltivare delle idee totalizzanti; nell’abate quella di raddrizzare le gambe alla storia attraverso un codice falso, e nell’avvocato attraverso una patetica rivoluzione immaginata nella Palermo del tempo. È comprensibile, ma è comprensibile anche che nella misura in cui i due progetti si atteggiano in maniera totalizzante siano destinati a fallire, e quindi la risposta è identica; ancora una volta è l’invito a far conto con la realtà nelle sue espressioni più inaccettabili; prendere atto e non pensare che ci siano delle chiavi passepartout per risolvere le cose; le cose sono un po’  più complicate e faticose. Anche ne L’uomo privato è comprensibile che il personaggio vivendo con malessere la realtà che lo circonda possa credere di riuscire a costruirsi una sua torre d’avorio. Apro una parentesi: anche se l’ho scritto nelle note di regia pochi hanno notato che questa situazione dell’uomo che vive subendo la prevaricazione della realtà, nella grande maggioranza dei casi, nel cinema come nella letteratura, viene affidata a personaggi perdenti. Nel nostro caso il personaggio è il perfetto contrario, un uomo più che normale, con una serie  di privilegi; è di bell’aspetto, ha molte donne, è di borghesia professionale consolidata, è ascoltato come un esperto; insomma, è perfettamente integrato. Pensa di poter usare i suoi privilegi come uno schermo da frapporre con la realtà. Ognuno di noi può avere le sue buone ragioni per vivere la realtà come invivibile; non ne privilegio nessuna, le considero tutte sullo stesso piano. E però, nel momento in cui il suo progetto è comprensibile, questo progetto è giustamente destinato al fallimento. Questa è la tragedia; perché con la realtà bisogna fare i conti. È il tema ricorrente in tutti miei film. Per chiudere si potrebbe dire dei miei film che il rapporto che intrattengono con la realtà non è moralistico, spero, non è consolatorio, non è ipocritamente giustizialistico.

A me sembra che in qualche modo in questo duplice rifiuto, da una parte della psicologia e dall’altra della sociologia all’interno del film, si possa rintracciare, in conclusione, proprio un certo atteggiamento di Bresson verso la psicologia, e un certo atteggiamento di Buñuel verso la sociologia.
E forse anche Hitchcock, Welles…

Sì, ma nello specifico di questo film e di questo duplice rifiuto di psicologia e sociologia io vedo decisamente più pertinenti quei due autori.
È evidente. È evidente. L’etica di Bresson e il distacco ironico di Buñuel.

ImagePrima dicevamo che in questo bagaglio personale non ci sono soltanto i registi ma ovviamente anche altre figure, ad esempio autori letterari. A questo proposito le confesso che riflettendoci un po’ su ho trovato L’uomo privato un film decisamente sciasciano, almeno sulla base di ciò che io ho letto di Sciascia.
Sì. Non a caso io ho fatto due film tratti da Sciascia; quello che penso di lui l’ho detto ormai diverse volte: nel corso del tempo è stato molto celebrato ma molto frainteso, poi anche dimenticato; ed è un grande scrittore, ma non perché, come appare, è uno scrittore di impegno civile; se fosse soltanto ciò non conterebbe nulla perché sarebbe legato solo a contingenze. Invece è tra i pochi scrittori al mondo, citiamo Calvino, Kundera, Auster e qualcun altro, che tenta di conciliare due sentimenti molto contrastanti: da una parte questa attenzione etica di dare senso e ragione alle cose, di formazione illuministica dunque; e dall’altra il sentimento perfettamente opposto, vale a dire il disincanto circa la possibilità di dare senso alle cose stesse; questa è la sua grandezza. Questo secondo sentimento gli viene attraverso la via naturale che passa da Pirandello e Borges. Sciascia è il più borgesiano degli scrittori italiani, assieme all’ultimo Calvino. La sua forza sta in questo tentativo di conciliare due sentimenti opposti, e ci arriva proprio con Una storia semplice. Quando ho letto il primo capitolo ho perso la testa, anche se si tratta di una trentina di paginette appena. Ora, in questo senso, certo il personaggio de L’uomo privato è sciasciano. Però il dato di partenza del personaggio è quello di uno che ha capito qual è il senso e qual è la deriva della realtà.

È proprio questa graduale intrusione della realtà nel privato, vissuta con un inevitabile senso di angoscia, a ricordarmi Sciascia.
Lei ha ragione. È proprio così; come se in questa stanza dove siamo io posso illudermi che ci sia una chiusura ermetica e invece in realtà il mastice si è staccato, passa un filo di vento e alla fine la temperatura non è quella desiderata. 

In quest’ottica avevo immaginato che non fosse del tutto una coincidenza che Tommaso Ragno interpreti, sia ne Il consiglio d’Egitto sia ne L’uomo privato, un uomo di legge.
No, questa è una coincidenza.

Vede, a me aveva incuriosito e intrigato, diciamo da critico, non tanto la presenza dello stesso attore, ma il fatto che le questioni di diritto costituiscano in entrambi i film il sottofondo filosofico della vicenda.
Devo dirle che è una coincidenza, però effettivamente questa sua osservazione coglie una cosa vera, a cui io non avevo pensato. Di Blasi è un avvocato certo; è un  personaggio reale della storia siciliana d’altra parte. Non ci avevo pensato a questa cosa: è incredibile. Ed è del tutto casuale. Ciò detto però ho preso Ragno per ragioni molto precise; siccome il progetto è annoso, e mi sembrava che fosse sempre di grande attualità, a mio parere ovviamente, ho sempre immaginato il protagonista più grande, tra i 50 e i 60 anni; e lo vedevo come un uomo di potere. Ma il personaggio rischiava di essere motivato da una crisi senile e sarebbe rientrato dalla finestra ciò che usciva dalla porta, vale a dire le caratterizzazioni psicologiche che volevo evitare. Doveva essere un quarantenne in perfetta efficienza. Mi serviva un personaggio convenzionalmente accettabile come oggetto del desiderio, tra virgolette, che fosse fisicamente rinviabile ad una borghesia agiata. Ragno nella sua astrattezza, che rimanda ad attori degli anni Quaranta o Cinquanta, magari non italiani, era perfetto. Avrei pensato a Gunnar Bjornstrand ad esempio, e Ragno ha quella stessa astrattezza.

Quella idealità…
Sì. Dopodichè io trovo Ragno bravissimo perché è un ruolo di una difficoltà mostruosa, e lui riesce attraverso piccoli comportamenti ad evidenziare come il personaggio sia attraversato dalla melanconia, nonché da quel sentimento fondamentale nella cultura del Novecento, compreso il cinema, vale a dire la noia. La noia come sentimento nei confronti della realtà, la consapevolezza di non poter incidere. Il disincanto degli autori stessi, tant’è vero che a differenza di prima, quando si costruivano grandi cattedrali, in un orizzonte totalizzante, le opere del Novecento non sono che delle schegge.

ImageOltre alla presenza problematica di Sciascia, con i suoi temi, e i suoi toni descrittivi oserei,  si percepiva nel film una sfumatura metafisica, tra virgolette, più di quanto non avvenga in Sciascia, dove tutto ha una concretezza immediata e tangibile, o addirittura insopportabile. La sequenza chiave in questo senso mi sembra quella, molto riuscita a mio avviso, dell’interrogatorio.
Certo. Per curiosità, lei che studi ha fatto?

Io vengo da studi filosofici.
Ah ecco, mi diceva: l’interrogatorio. Metafisica potrebbe dar luogo a tanti fraintendimenti, ma direi che ci siamo capiti.

L’interrogatorio è in questo senso la sequenza più metafisica dell’intero film, e anche in questo caso la letteratura mi sembra gravida di possibili suggestioni: sicuramente Kafka; la storia intera possiede qualcosa di kafkiano, ma la figura del commissario, il modo di condurre l’interrogatorio, lo sgomento e il senso di colpa del protagonista la rendono veramente vicina a certe pagine del grande romanziere. Ma anche, volendo restare in Italia, situazioni simili sono state messe in scena da Dino Buzzati, in alcuni dei suoi racconti più inquietanti. Quanto lei riesce a far passare della letteratura nel cinema?
Non la letteratura in quanto tale; i temi possono passare, attraverso i grandi autori. È molto bello il riferimento che lei fa a Kafka; perché il personaggio è oggettivamente incolpevole; eppure, venendo interrogato, egli avverte di essere colpevole. Perché si pone il problema, perché ha visto al computer ciò che ha visto; scopre che il suo comportamento non è privo di conseguenze nel mondo, non è vero che non danneggia nessuno. Per quanto riguarda la ragazza lascia dietro di sé delle scie di dolore; tuttavia, vede che il suo comportamento, che per noi può anche essere condannabile, viene visto dal ragazzo come addirittura un modello, un esempio impossibile da raggiungere, al punto da suicidarsi. È una delle motivazioni più classiche del suicidio: farla finita quando qualcosa ti sembra irraggiungibile; certo, uno si può uccidere realmente, ma questo tipo di meccanismo è molto più frequente in senso metaforico. Quanti avevano degli obiettivi e pur di non confrontarsi con i modelli più alti non ci hanno neanche provato? Uno vuol diventare un grande filosofo, ha degli esempi enormi, e sceglie di fare il giornalista culturale. È una forma di suicidio.

Assolutamente. Effettivamente dev’essere molto più comune di quel che si pensi; in alcuni campi in particolare poi, nella musica ad esempio.
Alcuni non vivono questa scelta di vita come una frustrazione, perché magari sono stati fortunati, altri invece la vivono male. È una forma di suicidio rispetto all’ideale. Però! Abbiamo messo mano a cielo e terra!

Veramente! In ogni caso sto finendo. Rispetto al personaggio di Colpire al cuore di Amelio, un film quasi di venticinque anni fa, mi riferisco al professore che cerca di tenere insieme il suo progetto politico, legato al terrorismo, e il suo progetto familiare intrecciato con la storia del figlio, l’uomo privato è in qualche modo l’erede diseredato, ossia deprivato di un progetto politico da una parte e di un progetto familiare dall’altra? E, soprattutto, è questa privazione a renderlo figlio di quest’epoca?
No, non credo, non arriverei a tanto. Certo: questo è un personaggio totalmente immerso e motivato dalla realtà che lo circonda. È perfettamente certo che la realtà che lo circonda è orribile: non è solo una questione di fastidio superficiale, è la consapevolezza che il processo in atto è irreversibile. Su questo non ci sono dubbi. Del resto una persona che si rispetti può pensare che il processo in atto sia reversibile? Cosa dovremmo capire noi? Che da una parte è irreversibile, dall’altra comunque vi è la necessità quotidiana di far fronte al processo stesso; questo è un po’ il labirinto mentale e quindi comportamentale di fondo. È un figlio del nostro tempo, non legato a delusioni del passato; ha quarant’anni, il Sessantotto neanche lo riguarda; e nessuno meglio di lui, per il tipo di lavoro che fa, può essere consapevole di questa dinamica. Nella prima lezione infatti dice che la realtà è quello che sta al di là del cono di luce; lui spera di rimanere sempre all’interno del cono di luce ma è la realtà che sta all’esterno che lo frega. Pensa, come professore di diritto, di potersi limitare a quella zona; ma come pensa di potersi salvare? Sarà travolto, o comunque sia dovrà fare i conti con la vita. Questo è il tipo di realtà con cui oggi abbiamo a che fare, ed essendo al di là del cono di luce è qualche cosa che non si può più intenzionare, come direbbe Husserl, usiamo questi termini filosofici.

Volevo chiederle qualcosa sul finale: mi è piaciuto molto il reiterato tentativo del protagonista di trovare un equilibrio, un adeguamento ormai impossibile, attraverso la visione delle tre combinazioni delle luci, nella stanza.
Ormai siamo quasi nell’isteria, e c’è un tentativo di riconquistare un armonia, sapendo già che non sarà possibile.

E invece nella sequenza precedente, quella del convegno, con tutte queste lingue differenti, questi schermi, questo labirinto, c’è qualcosa di simbolico o metaforico?
Ma simbolico non direi; cosa fanno nel convegno? A livello culturale e mondano, si pongono lo stesso problema che si è posto lui all’inizio, cioè credono di poter tracciare un confine tra ciò che è amico e ciò che è nemico, con tutte le conseguenze, anche politiche, che ne deriverebbero. Allo stesso modo di come si è pensato tempo fa, se pensiamo a Carl Schmitt, laddove i rapporti di forza sono incentrati sul meccanismo amico-nemico; quello che è successo in base a questa idea si sa, o comunque quello che succederebbe: la guerra in Iraq si basa ancora sull’idea di un confine amico-nemico. In tutti i campi l’idea di poter tracciare un confine è una sciocchezza; e il protagonista sa che è una sciocchezza, ironicamente ha suggerito questo titolo. Ma lui si aggira mortalmente annoiato perché è costretto a stare lì; per occupare il tempo e per verificare se è ancora capace di graffiare corteggia questa bellissima donna. Ma non ce la fa più perché nel frattempo ciò che gli è successo, per restare nella metafora felina, gli ha tagliato le unghie. È ipotizzabile che in un’altra circostanza ci avrebbe messo ben poco.

E questo continuo sovrapporsi di linguaggi diversi partecipa a creare un certo disorientamento?
Eh sì, perché lui è fuori di testa ormai.

C’è qualcosa che vuole dire sull’ultima edizione della Festa del cinema di Roma. Come saprà è stata acclamata e criticata al tempo stesso?
Io ho visto soltanto il mio film, perché sono stato costretto tra l’altro. Per quanto riguarda invece la Festa in sé il problema non può che essere visto in rapporto agli altri festival. Credo che non sia per caso che la Festa di Roma venga contestata per la sua collocazione temporale; ma io ho il sospetto che questo tipo di accusa sia dovuto al fatto che i festival si somiglino tutti. Se ognuno avesse una loro specificità non ci sarebbe questo problema. Poi è chiaro che la Festa di Roma, anche se io mi sono avvicinato poco, preme molto di più sull’aspetto festivo per l’appunto, il glamour, il pubblico, etc. Ma mi sembra un problema di nuances, non qualcosa di sostanziale. A Venezia succede la stessa cosa; mica parliamo di Venezia di quando l’ho conosciuta io nel ‘66, che poteva piacere o non piacere, ma era un’altra cosa. Quando Louis Malle vinse il Leone d’Oro con Atlantic City, nel 1980, disse che se avesse dovuto scegliere tra la Palma d’Oro e il Leone non avrebbe avuto alcun dubbio. Perché appunto il festival di Venezia rispetto a Cannes si caratterizzava per ragioni diverse, si chiamava, e si chiama, Festival d’Arte Cinematografica. Con il tempo però l’arte cinematografica ha perso i suoi connotati rincorrendo il consenso, e ora Venezia non può che invidiare a Cannes il mercato. Il festival è un momento in cui uno può presentare dei film sperando di riceverne una ricaduta positiva. Punto e basta. Il cinema sta da un’altra parte, però è sempre più condannato al silenzio; il desiderio di avere un altro cinema è condannato al silenzio. Perché al livello dei grandi mezzi di comunicazione si interessano solo dei film che, per tante ragioni, faranno più rumore, non dei film più riusciti o più interessanti. E si cade continuamente dalla padella nella brace.



 


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