Bread & Roses ha una struttura ad anello, che fornisce alla storia la dimensione di un intervallo, dello spazio sospeso tra un arrivo ed una partenza.
Maya compie il suo viaggio iniziatico alla ricerca di un futuro che ipotizza migliore lontano dalla miseria di casa sua.
Lascia il Messico ed approda nella grande America.
L'inizio del film è fatto delle immagini frastagliate e dei suoni mischiati di un lungo piano sequenza, girato con la camera a mano.
Il mondo è una figura frantumata.
Si potrebbe contestare a Loach un esperimento estetico privo di chiarezza, eppure forse è proprio in questo esordio confuso che risiede una dichiarazione d'intenti da parte del regista: attuare sul piano estetico un rapporto di empatia tra Maya e lo spettatore.
Le cose si renderanno chiare in seguito: via via che la storia va avanti si fa strada l'immagine di una comunità sommersa, silenziosamente rannicchiata all'ombra degli splendori di L.A., che nutre il successo dei ricchi soffrendo discriminazioni a tutti i livelli.
Lo sguardo di Maya è ora fin troppo chiaro: il mondo appare diviso, come in un favola, tra buoni e cattivi.
Come in una favola c'è posto anche per un principe azzurro, angelo del bene che sostituisce un cavallo bianco con un'immagine bohemienne e che fa della lotta di classe l'esperienza romantica degna di una singolar tenzone.
C'è perfino un ballo in Bread & Roses, in cui principe e principessa si dichiarano il loro amore.
Le proteste in strada sanno di goliardia, non scorre sangue e nessuno sembra fare sul serio. Il marito diabetico di Rosa sviene durante la festa e l'episodio è costruito come una parentesi: l'uomo semisvenuto è ripreso dall'alto, rapidamente.
Segue uno stacco.
La scena cambia.
Rosa è la sorella cattiva, scontrosa, monocorde nella sua ostinata antipatia verso il genere umano, mediata da insistenti primi piani. Maya vede tutto o bianco o nero e con lei lo spettatore, fino a rimanere quasi annoiato da tanta ridondanza.
D'un tratto però tutto cambia, proprio quando Rosa incarna il ruolo della strega cattiva e tradisce il gruppo.
Maya furente l'aggredisce, incapace di giustificare l'operato della donna, ma qualcosa si lacera nelle sue certezze.
La scena inaugura una cifra registica che durerà fino alla fine del film: la macchina da presa riprende magistralmente lo scontro tra le due donne affettando brutalmente le certezze della ragazza con il montaggio rapido di campi e controcampi in primo piano.
Le immagini sono asciutte ed il suono depurato da qualsiasi compiacimento formale: la realtà del film sovrasta la confezione affabulatoria.
il ritorno in messico è reso con una lunga, fluida soggettiva.
Maya guarda Rosa, il suo principe e i suoi eroi mentre si allontana sul furgone di criminali rimpatriati.
Sporcarsi le mani nella vita vera le chiarisce lo sguardo e fa imboccare alla vicenda un'ipotesi metafilmica in cui, come all'inizio, è il piano estetico più che quello logico-discorsivo a coinvolgere lo spettatore.
Il film è stato visto all'interno della rassegna Schermi americani II: Los Angeles, la città degli angeli organizzata dal Museo Nazionale del Cinema, settembre 2002.
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