Cinema verità su un uomo che mente - Haynes e Scorsese alla ricerca di Bob Dylan PDF 
Umberto Ledda   
Indice articolo
Haynes e Scorsese alla ricerca di Bob Dylan
Pagina 2

ImageIl contenuto dei due film è, se non altro per questioni meramente biografiche, piuttosto compatibile. È l’approccio, il punto di vista scelto, e la stessa motivazione nel sceglierlo, che fanno la differenza: semplicemente, la volontà di Scorsese era di fare un film su Dylan, quella di Haynes un film che fosse Dylan. Film-saggio entrambi, il primo un saggismo biografico e psicologico (accentratore, si diceva, e legato alla ricerca di causalità e radici), il secondo saggismo mitico: estremamente fluido e non immune all’ambiguità, del tutto slegato alla causalità e più propenso all’analogia. Da una parte, il tentativo di costruzione di un significato, dall’altra parte la sua decostruzione. Da questo punto di vista, è chiaro l’intento postmoderno di Haynes, che del postmodernismo mantiene tutte le marche tematiche (il doppio, la menzogna, la maschera) e formali (rifrazione, moltiplicazione, multilinearità, dispersione). Bob Dylan è stato scelto per la sua continua fuga dall’identità, per la sua costante ricerca di altre maschere, altri volti, altre menzogne: del resto, la sua carriera è costruita sulla totale e ricercata ambiguità. Se a livello superficiale ricorre la figura della maschera e del trucco sul volto, tutti i sei personaggi hanno in sé un elemento di finzione e menzogna, si contraddicono, recitano, cambiano pelle, utilizzano strategie semiotiche destabilizzanti. A livello formale, riferimenti ad altro cinema, ad altro spettacolo, sono costanti: e se Fellini è citato pesantemente (Dylan sospeso in aria legato per i piedi è un trasparente omaggio ad 8 ½, l’elemento circense è onnipresente, filtrato in questo caso anche dal Burton di Big Fish), altrettanto esplicito è il richiamo alla comicità del muto nella scena dell’incontro fra Dylan e i Beatles. Infine, Io non sono qui tratta quasi metanarrativamente dei meccanismi stessi che regolano lo spettacolo, il suo insistere sulla finzione, il suo dadaismo dispersivo e autocontraddittorio, il suo ricreare anche strutturalmente il nonsense ironico che Dylan sfoggiava in interviste e conversazioni sono segni di una ricerca che non si ferma all’analisi biografica e aneddotica, ma si porta più in alto, esplorando l’ambiguità delle strategie comunicative nell’epoca della sovraesposizione mediatica. Il significato del film è disperso, il cerchio non si chiude ma si avvolge a spirale, il film su un uomo che mente e si nasconde (I’m not there) è coerentemente ambiguo e aleatorio. È per questo concreto aggancio sociologico che la dispersività di Io non sono qui non è fine a sé stessa: per Haynes, è lo spttacolo ad avere come prima regola la menzogna, e la società degli ultimi quarant’anni è la società dello spettacolo. I due grandi film musicali di Haynes trattano di uomini che mentono, uomini che si mascherano, uomini che nella perdita di un’identità propria e nella moltiplicazione di sè assumono una personalità assoluta, e quindi mitica: e come Bowie raggiungeva questo attraverso un processo soprattutto visivo, Dylan raggiunge questa indefinibilità attraverso il linguaggio.

ImageIn tutto questo è ovvia la distanza che corre fra la ricerca scorsesiana e quella di Haynes. La cosa effettivamente interessante è scoprire, ad una analisi appena più approfondita, i segni di un’intima e strettissima corrispondenza. Tanto per cominciare, entrambi sono film documentari. Nessuno a prima vista direbbe di Io non sono qui che è cinema di verità. Eppure lo è. Non perchè utilizzi stilemi documentaristici in alcune sue parti (quello è solo un altro gioco di rifrazioni, un altro moltiplicare i piani): lo è perchè fa documentarismo non della realtà ma della percezione. Mentre Scorsese, anche nel tratto dylaniano di The last Waltz, si sofferma sul personaggio, ne indaga la presenza fisica, Haynes documenta l’emanazione mediatica e universale della figura del cantante. Haynes parla di spettacolo, di industria, non parla della canzone ma della sala che applaude la canzone, non si sofferma sul volto del cantante ma sul riflettore che lo illumina. Haynes ha scelto Dylan perchè era una pedina impazzita del sistema-industria dell’immaginario. Abbastanza intelligente da riuscire a cavalcarlo rimanendone saldamente all’interno (Io non sono qui è affermazione che sa di marketing rock ‘n’ roll), ma abbastanza folle e geniale da non esserne mai del tutto amalgamato. Il fenomeno Dylan è consapevolmente omogeneo con il carrozone industrialmusicale, ma lo è con modalità sghembe, diventando una cartina di tornasole per indagare la costruzione di un’immagine mediatica. Todd Haynes gira con Io non sono qui un film di realtà, ma il suo è realismo mitico: decrive puntigliosamente un immaginario di rappresentazioni, non un universo concreto. E allora tutto si attua su un piano simbolico, i personaggi sono rappresentazioni fittizie di Dylan (ma non rappresentazioni costruite da Haynes, bensì cementate nell’immaginario comune), e in questo lavorare costantemente su rappresentazioni mediatiche sta il motivo della moltiplicazione del senso e del paradosso, della rifrazione e della duplicazione. Io non sono qui non punta alla divulgazione (il film è stracolmo di riferimenti privati, di notazioni inconoscibili ai non addetti ai lavori), ma alla suggestione, al mito, all’astrazione. Da questo punto, la domanda che occorreva porsi riguardo a Dylan era: è possibile fare documentario, dire la verità su un uomo che mente per definizione? Scorsese non ha attuato questo tipo di ricerca. Il film di Haynes soffre di innumerevoli difetti (cacofonia semiotica, presunzione, oltre ad innegabili cadute di ritmo), ma è innegabilmente molto più dyaniano del suo predecessore.

ImageC’è dunque una sorta di dipendenza - meglio, di consequenzialità - nei film di Haynes e Scorsese: nel primo, Dylan descrive il suo mondo, nel secondo c’è la messinscena di questo mondo. La stessa molteplicità di Haynes è d’altronde prefigurata dallo stesso Dylan in No Direction Home, mentre racconta dl mondo del circo, delle sue maschere, della sua finzione: “la gente del circo svolgeva più di un lavoro (...) pensai che era un’idea interessante fare più di un lavoro”. Sembra un’affermazione innocua, ma parlando di un agente dello spettacolo, assume un certo spessore. Fare più di un lavoro quando il lavoro è essere qualcun’altro è di fatto l’idea cardine dell’opera di Haynes. Come se Scorsese avesse una sceneggiatura filmata da cui Haynes ha tratto il suo film, quasi una sorta di remake questa volta in prima persona e non in terza. Manca del tutto in Io non sono qui la ricerca e il contesto, tutto il lavoro di ricerca storica e musicale che prevale in Scorsese, perchè si lavora dall’interno del mondo di Dylan. L’elemento paradossale, in questo, è che la verità sul personaggio appare più filtrata in No Direction Home che non in Io non sono qui: la verità su un manipolatore professionista è fatalmente impossibile, e Haynes ha assecondato la mistificazione, tentando di raccontare una cultura attraverso i sogni che uno dei suoi simboli più luminosi origina nelle menti delle persone.



 


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