La felicità non costa niente PDF 
di Leone Augusto   

La filmografia di Mimmo Calopresti suggerisce che solo chi può permettersi il lusso di deragliare dalla normalità della convivenza borghese e dalle sue regole arriva là dove il cuore porta, dove si raggiungono, isolate ed emarginate, le risposte essenziali alla nostra ricerca di senso, nella capacità di amare e di dare felicità a noi stessi e agli altri e di adeguare gesti e parole a un'altra logica, più autentica rispetto a quella convenzionale imposta dall'ossequiare la burocrazia dei rapporti umani.

Le prime sequenze di La felicità non costa niente sono un richiamo esplicito alle pellicole precedenti del regista: Sergio, un architetto di successo, benestante, amato da moglie e amanti, colpito nell'intimo dalla morte di un suo operaio, a lui imputabile, smarrisce la ragione e non accetta più le ipocrisie delle persone che gli stanno intorno: se "la sincerità è un utopia", come gli ricorda l'amico intimo, lui questa utopia vuole edificarla cercando di essere se stesso fino in fondo, dicendo quello che ha voglia di dire, lasciando il lavoro e tornando indietro alla ricerca della propria infanzia smarrita nella casa dei genitori: come lui, la ricca e nevrotica protagonista di La parola amore esiste o la terrorista e la sua vittima di La seconda volta dalla distruzione della normalità imposta, tramite la malattia psichica o il trauma incancellabile della lotta armata, cercano tutti, per vie traverse e complicate, di approdare alla dimostrazione di un personale teorema di verità. Dunque se questa esiste ed è nella vita di ciascuno di noi, per arrivarci bisogna sconvolgere parenti e amici, fare violenza alle prassi consolidate del vivere come si vive.

Intenzionato a ribadire la forza stringente di tale assioma, Calopresti se ne fa personalmente testimone e gira il suo lungometraggio recitando nei panni del protagonista, e il racconto della vicenda viene ad assumere il tono di una confessione, un po' come avviene nella maggior parte dei film di Nanni Moretti, che di Calopresti è mentore. In effetti i lungometraggi di Moretti spesso non sono che pagine aperte di diario e il suo è l'atteggiamento del poeta satirico che, paradossalmente, fa della propria arrogante antipatia e della propria insofferenza una lama tagliente per stigmatizzare i vezzi o le debolezze di chi gli è affine per cultura o per ideologia: "D'Alema, di' qualcosa di sinistra" è l'esempio assurto a dignità di cronaca. Le sferzate dell'eroe contestatore de La felicità non costa niente invece non feriscono e non incidono, perché la sua riflessione sull'infelicità e sulla felicità si perde in un labirinto vago di immagini, monologhi, pensieri e accuse e il tipo umano che ne emerge è sfocato, più una stilizzazione che un'individualità riconoscibile.

Il risultato di tanto arrovellarsi è un titolo che suona bene e un messaggio con esso coerente: la pasta al dente dell'ultima sequenza e il pane e salame del sogno costano poco e bastano per essere felici. Francamente risulta una scoperta poco sorprendente. Già Epicureo parlava dei piacere naturali e necessari, lo faceva Orazio in alcuni versi impareggiabili; ma quasi sempre intellettuali e filosofi rifiutano con frasi altisonanti poteri e ricchezze; a parole, perché i soldi non faranno la felicità e saranno una "gran fregatura" come si sente dire nel film, ma solo chi li ha può dirlo con tanta sicurezza e quindi è meglio averli. Rivalutare e dare dignità a un rudimentale desco implica anche rivalutare e dare dignità a chi, per mancanza di mezzi, è costretto a sedervi. Nulla di sorprendente neppure qui. Nella vita conosciamo poveri complicati e ricchi semplici, ma al cinema è sempre esattamente il contrario, ovvero i poveri non sono mai complicati. Si intuisce che Calopresti, sottolineandone la dignità e la dedizione al mestiere, ha grande rispetto per essi, ma la sua rappresentazione si risolve in una schematica e anacronistica contrapposizione fra borghesi e non, secondo la vecchia gerarchia degli stili in base alla quale i conflitti dell'anima sono propri solo delle classi elevate; gli altri, la colf, gli operai vivono in un arcadia di genuinità e salute interiore.

Prima di arrivare al suo piatto di pasta al dente, Sergio imbocca anche il sentiero della passione amorosa, innamorandosi, dopo averla distolta da un tentativo di suicidio, di una donna bellissima (Francesca Neri) incontrata per strada di notte: Sara, però, è presenza troppo evanescente sulla scena per avere lo spessore di un personaggio affascinante e complesso. Molto più credibile la suora burbera e impudicamente curiosa impersonata dalla bravissima Laura Betti. Anche la religione, infatti, è una delle tante possibilità sperimentate da Sergio nel suo percorso di ricerca: disperato per l'abbandono di Sara, egli entra in chiesa, prega senza crederci troppo il corpo nudo di Cristo e, uscendo, riceve il miracolo di ritrovare l'amante scomparsa, ma è piuttosto una beffa crudele, in quanto l'incontro gli svela l'impossibilità dell'amore. E arriviamo così al grande sogno finale: c'è una grande tavolata bianca, cantieri sullo sfondo, gli operai lavorano solo quando ne hanno voglia e si gustano il pane e salame. Siamo in Paradiso o nell'utopia della società giusta teorizzata dai filosofi? Non è importante in fondo, poiché ciò che conta è appunto la gioia materiale ed elementare di una panino al salame.

Di fatto, il solipsismo di La felicità non costa niente e di altre pellicole italiane recentemente nelle sale è strumento inefficace per analizzare il disagio esistenziale universalmente diffuso nelle nostre società del benessere; l'intimismo e il minimalismo assimilato da una certa tradizione filmica fa da schermo a un'indagine più approfondita sulle cause vere del nostro malessere contemporaneo. De Luise e Farinetti concludono il loro saggio filosofico sulla storia della felicità (Storia della felicità. Gli antichi e i moderni, edito da Einaudi), trovando per l'uomo dei tempi moderni la calzante definizione di edonismo infelice: "A minare l'ottimismo di Voltaire era bastato il terremoto di Lisbona. Come può non pesare, sul nostro fragile edonismo, il dolore, la mancanza di garanzie e di dignità riservate alla stragrande maggioranza del genere umano?"
Tuttavia il film qualcosa riesce a comunicarcelo ed è esattamente il contrario di quello che vorrebbe dirci: la felicità non è affatto semplice, è invece qualcosa di molto complicato, perché ciascuno di noi ha la propria, un labirinto inesplorato da cui si entra, si esce, ma l'entrata e l'uscita non sono mai quelle giuste.

 


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