Educazione siberiana: iconografia in (continuo) movimento PDF 
Paolo Fossati   

Se c’è una costante nei libri di Nicolai Lilin è l’insegnamento che “leggere” i simboli raffigurati nei tatuaggi siberiani sia impossibile. Sono come sentimenti, li devi sentire. Osservarli nel contesto, per capirli. Proprio come i film. Sia il cinema che l’arte dei tatuatori Urca raccontano storie e regalano la sensazione di scoprire grandi verità sul mondo e sulle relazioni umane. Accendono l’emozione di risolvere il rompicapo che possa svelare il mistero dell’universo. Anche solo per un attimo.

Lilin | with eyes completely open... just like the films.
“Da piccolo mi piaceva disegnare. Disegnavo sempre, mi portavo dietro un quadernetto e disegnavo tutto quello che vedevo. Mi piaceva vedere come i soggetti si trasferivano sulla carta, a incantarmi era il processo del disegno, mentre mi davo da fare con la matita”. “Kolima! Kolima!”. E’ una chiamata. E’ un’invocazione con un velato tono d’ammonimento. Il soprannome Kolima, echeggia pronunciato da John Malkovich nelle vesti di nonno Kuzja. Richiama l’attenzione del giovane nipote, protagonista del film. Rappresenta una richiesta di essere testimone, oltre che attore della propria vita. Di essere, un giorno, colui che racconterà. Le regole dell’educazione siberiana sono tante e difficile è la missione di chi debba riassumerle, soprattutto se con l’arte del cinema, incline a divenire noioso quando si lascia sedurre da facili elenchi. Salvatores sceglie così la strada delle immagini simboliche e di un ordine degli eventi rimescolato in modo funzionale al pathos che il film dovrà trasmettere, raccontando le vicende a sfondo autobiografico narrate da Nicolai Lilin. Non mantra di regole dunque, ma sentimenti evocativi. Come la responsabilità di essere testimone di vicende e stili di vita molto particolari, che Lilin ha inseguito fin da adolescente. L’ha esercitata prima imparando l’arte del tatuatore e poi scrivendo. Si tratta, in entrambi i casi, di affrontare quell’attività di decodifica e ricodifica della vita in forme figurative e narrative che gli artisti inseguono per missione. Chi in modo più esplicito, chi esprimendosi con fare più criptico.

Quella dei tatuaggi è descritta, fin dal romanzo, come una questione semiotica: il tatuatore è un interprete delle vite altrui, allinea le esperienze del soggetto nella giusta sequenza e compone grandi affreschi di simboli decodificabili attraverso le esatte posizioni e le adeguate distanze tra un’icona e l’altra. Lilin, con la recente pubblicazione di Storie sulla pelle, continua a far luce su quest’arte. O meglio, su questo apostolato. Quello di Kolima, oltre ad essere un tipico percorso di formazione, è un viaggio iniziatico da esploratore di nuovi mondi (dopo aver compreso la propria cultura di appartenenza si trova dinanzi a cambiamenti storici epocali, come la caduta del muro di Berlino). Il punto di contatto principale tra lo stile del romanzo e quello del film, nella lavorazione del quale Lilin è stato coinvolto, è legato all’importanza della liturgia e dei rituali. E se nell’educazione criminale ogni situazione deve essere affrontata secondo le regole tramandate dalla comunità, nel cinema ogni autore ha un proprio stile, ma determinate pratiche si configurano come teorie, valide come assiomi: ad esempio l’utilizzo di una canzone come Absolute beginners di David Bowie che accompagna una scena corale come quella del gruppo di amici sulla giostra. Tutto è plausibile e coerente con l’epoca di riferimento, ma l’artificio di sommare musica e testo di Bowie al momento ludico appare chiaro agli spettatori. Emerge, nel film, come una scelta forte, coraggiosa, quasi provocatoria. Il pop (di grande qualità, naturalmente) irrompe nelle vite criminali. La scelta è coerente con l’epoca storica e rende bene l’affievolirsi del contrasto tra blocco sovietico e occidente. I colori stessi della giostra accompagnano in scena le musiche, ne garantiscono la necessità. Siamo d’altronde spettatori postmoderni (ormai nell’intimo, non per abitudine) e godiamo dell’artificio perchè lo riconosciamo come arte: ne percepiamo il valore. La scena è simbolica e gli stessi rapporti tra personaggi sono frutto di un grande lavoro di decostruzione della materia letteraria in schematismi da sceneggiatura.

La seconda parte della sequenza è, di fatto, un videoclip. O l’esperienza più simile alla visione di un videoclip possibile per quei ragazzi. A livello metaforico il momento descritto individua esattamente lo spartiacque che segna la fine dell’adolescenza dei protagonisti. Ed è l’artificio del cinema, puntuale, preciso e definitivo come un tatuaggio a sancire il confine esatto tra il vecchio e il nuovo mondo (e tra l’adolescenza e l’età adulta): la canzone di Bowie prima è diegetica, perchè diffusa dagli altoparlanti della giostra, poi, con una brusca e vibrante variazione di volume diviene extradiegetica. I suoni diventano più avvolgenti in perfetto accordo con i tempi del montaggio video, che allora mostra le immagini degli amici che si divertono, in una sospensione della realtà che è pura evasione adolescenziale dalle responsabilità, per un attimo. Afferrano il nastro blu che di solito regala un giro di giostra in più. Hanno sete di vita e di nuove possibilità. Di cambiamenti e novità, ma senza che si dissolva la loro comunità. Il loro inseguirsi e ridere nell’aria sta cementando i valori e i sentimenti che li legano e renderà ancora più drammatico il tradimento di Gagarin del quale si respira in qualche modo un presagio (paga per tutti il giro di giostra, con soldi di dubbia provenienza ed è un personaggio che mostra un’avidità tipica da criminale tout court, non certo in linea con i criminali-onesti del villaggio Urca). E noi spettatori, con Lilin, dobbiamo assistere a questa scena con gli occhi completamente spalancati... sta accadendo qualcosa di invisibile nella vita, ma di percepibile attraverso chiari segnali emozionali, proprio come sulla pelle tatuata e proprio come nei film.

Salvatores | un tatuatore di storie sulla... pellicola.
Gabriele Salvatores non ha paura. S’innamora di romanzi e autori e opera la difficile arte della trasposizione delle storie in immagini. Non teme le sperimentazioni e affronta le nuove avventure contestualizzandole nell’universo di riferimento. Insomma: si appassiona alle vicende narrate. Senza l’egoismo autoriale di arroccarsi in virtuosismi, realizza film pensati per il pubblico. E’ altruista, mentre mette in scena. Tutto ciò non inficia l’entusiasmo artistico, che si riflette nelle modalità del racconto, attraverso il ritmo del montaggio, nelle colonne sonore (per Educazione siberiana insieme a Mauro Pagani). Non ultimo si interroga sulle radici culturali dello spettatore contemporaneo e riesce a confezionare una stratificazione di riferimenti più o meno espliciti all’interno del film, utili a renderlo un prodotto complesso, adatto ad appassionare fruitori eterogenei. (Simbolico l’esempio di 1960 realizzato come film di montaggio da materiali d’archivio delle Teche Rai, ma reso racconto mozzafiato grazie alla voce extradiegetica di Giuseppe Cederna e per merito delle musiche). Salvatores non dimentica mai l’ottica di costruire il film stesso come fosse un velato omaggio al cinema. Per Educazione siberiana lo sguardo è rivolto a Sergio Leone: molte le assonanze con C’era una volta in America, dal racconto di un’adolescenza criminale dei protagonisti alle loro vite che si dipanano in direzioni diverse a partire da un’unica fotografia che ritraeva quattro ragazzini, senza dimenticare le umili origini dei protagonisti e il loro vivere sul crinale di un mondo destinato a mutare. Un’opera multilivello, un affresco ricco di personaggi con una tessitura di relazioni complicate, riconoscibili solo decodificando la rete di legami ed eventi predisposta dalla sceneggiatura. Come Lilin, da tatuatore siberiano, riesce a riassumere la vita in simboli, anche Salvatores padroneggia l’arte di trasformare i racconti in sequenze d’immagini. L’arte del cinema. Un cinema non elitario e di difficile lettura, ma rigoroso e popolare, in quanto comprensibile ed appassionante per il grande pubblico. Come a dire: il lavoro duro è fatto dal regista e dagli sceneggiatori, che riescono a ricomporre storie articolate in sequenze nitide. In sala, poi, ci si puà far trasportare dalle onde delle emozioni evocate. “Per leggere i corpi con tatuaggi così complessi bisogna avere molta esperienza e conoscere perfettamente la tradizione del tatuaggio; per questo nella comunità siberiana la figura del tatuatore ha un posto speciale: è come un sacerdote autorizzato da tutti gli altri a operare in nome loro”. Nella tradizione culturale Novecentesca, questa speciale dote è riconosciuta ai registi.

Letteratura italiana | cinema internazionale
Prendere un romanzo di successo, in pratica un oggetto di culto, e tradurlo è una grande responsabilità. Il modo in cui Salvatores ha affrontato questa sfida affonda le radici nella storia del cinema: ha costruito il cast ricordando la tecnica dell’amalgama espressa da Bazin e cara al Neorealismo, ovvero mescolare attori non professionisti e divi. E’ così che un folto gruppo di esordienti perlopiù provenienti da paesi dell’Europa dell’Est, si ritrovano a recitare con John Malkovich e Peter Stormare. E in molti casi si impongono in scena in modo davvero convincente. Questo coraggio è forse la cifra distintiva di quel raro cinema italiano che sa essere internazionale. Come non pensare a Gomorra (Italia, 2008), film nel quale Matteo Garrone ha saputo affrontare le pagine di Saviano affidandone le storie a giovani selezionati con casting nelle terre di camorra descritte dal libro, addirittura intrecciando realtà e finzione quando ai provini si presentavano dei piccoli criminali in cerca un sigillo mediatico della propria appartenenza alla malavita: una sorta di autocelebrazione, di viatico per la mitizzazione del proprio ruolo sociale. Un cortocircuito tra il mito di Scarface e la realtà dolente di una vita da gangster di provincia, prigioniero di una quotidianità randagia e fuori tempo massimo con la Storia, che solo il cinema poteva riallineare con i sogni. Sebbene con le dovute differenze, soprattutto in termini di etica criminale, anche la produzione di Educazione siberiana utilizza lo stesso tipo di approccio culturale alla materia letteraria e (ri)consegna le storie agli ambienti che le hanno ispirate (in location dalle caratteristiche geografiche e climatiche simili). Si tratta anche in questo caso di un film atteso da un pubblico di lettori ansiosi e curiosi di vedere le vicende narrate prendere forma nei luoghi descritti e animarsi nei volti confluiti sul grande schermo.

Nonostante i due romanzi di partenza siano davvero diversi, le assonanze con Gomorra non si esauriscono osservando l’approccio all’operazione mediatica. C’è qualcosa di più profondo che lega i due (quattro, considerando i film) testi: uno spirito dei tempi che permea i due universi criminali narrati, seppur molto differenti tra loro. Non tanto i tempi diegetici, quanto i tempi della fruizione: siamo spettatori affascinati dal crimine e abbiamo ritrovato in queste narrazioni due mondi descritti da autori che hanno vissuto in prima persona le esperienze. Su due fronti opposti, l’uno da osservatore, l’altro da criminale (criminale onesto, per la precisione), Saviano e Lilin hanno aperto vasi di Pandora su scenari difficili che la contemporaneità aveva dimenticato di raccontare in modo analitico e approfondito. Gli scrittori, dunque, sono entrambi riusciti a consegnare al lettore la cronaca degli eventi in modo avvincente e con un forte senso etico, che irrompe sulla pagina. I registi e gli sceneggiatori, lavorando in modo totalmente diverso, hanno saputo rendere universale la letteratura italiana contemporanea, attraverso un cinema di respiro internazionale, intellegibile, appassionante e qualitativamente di grande livello. Garrone ha costruito un film a episodi con uno stile estetico pseudo-documentaristico, ma attentissimo alla regia. Salvatores ha collaborato con Rulli e Petraglia, sceneggiatori di riferimento per il cinema italiano della commedia popolare storico-celebrativa, che di crimine avevano trattato anche nel Romanzo criminale di Michele Placido (Ita/Fr/GB/Usa, 2008) adattato dal libro di Giancarlo De Cataldo, apripista di un filone di grande successo negli ultimi anni, che ha guidato i gusti del pubblico fino a rendere le ricostruzioni di epopee criminali un fenomeno di culto. In questo caso sembrano aver ben inteso la lezione americana che impone sceneggiature inossidabili, con conflittualità nette tra personaggi e altalene di sentimenti ben calibrate rispetto al minutaggio della pellicola. Complice, probabilmente, la produzione, che ha imposto test di proiezione con pubblico di prova in Inghilterra, a fronte dei quali hanno invitato il regista a tornare sul set mesi dopo le riprese per approfondire le scene finali ed alcuni raccordi. E se tradurre senza tradire è impossibile, meglio dunque tradire con stile. Con arte, come quando si ritocca un tatuaggio preesistente. L’opera ispirata dal testo vivrà una vita propria, senza dimenticare il proprio passato e celebrandone l’etica.

 


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