Alle prese con C’era una volta in Inghilterra (Once Upon a Time in the Midlands, 2002), Shane Meadows sembra essersi posto un paio di domande fondamentali. Come si può a lavorare su una storia molto classica senza per questo scadere nel già visto e già sentito? Come si fa a uscire, da un lato, dal comodo tracciato di una tradizione e, dall’altro, dallo stereotipo narrativo? Come riuscire, in altri termini, a lasciare un segno della propria personalità con un materiale neutro? È un po’ lo stesso problema che si trova davanti chi scrive di cinema quando gli sfugge la necessità e l’urgenza di ciò che ha visto. Provare a sbandare, deviare a lato, intraprendere dei percorsi non omogenei. Questa, probabilmente, è l’unica risposta. Che comporta, automaticamente, dei rischi: “tradire” i presupposti di partenza e, al tempo stesso, non andare da nessuna parte.
Shane Meadows, qui, sembra accettare la sfida. E questo già la dice lunga sul suo coraggio e la sua lucidità, sulla sua voglia di mettersi in gioco, un po’ per incoscienza (i trent’anni?), un po’ per la consapevolezza che sempre di un gioco si tratta, quando si agitano i fantasmi del cinema. Meadows, aiutato alla sceneggiatura da Paul Fraser, opera una trasposizione, cioè, per l’appunto, un tradimento. Parte da un plot abusato, la donna contesa tra due uomini, e costruito su tipi psicologici fin troppo definiti: l’innamorato goffo e impacciato, ai limiti della vigliaccheria, e lo sbruffone drop out, affascinante, ma assolutamente inaffidabile. A far da sfondo, la solita working class britannica. Ma tutto questo, personaggi, atmosfere e ambiente, viene, in qualche modo, trasferito in un altro immaginario, quello western, fatto di sfide duelli (stavolta all’arma bianca), rovelli interiori. Tutto evidente e tutto già notato. Il richiamo leoniano sin dal titolo, le musiche che fanno il verso ai celebri temi di Ennio Morricone. Ma una cosa, forse, non è stata sottolineata abbastanza. Pensare Leone è già pensare a un western di secondo grado, per così dire, cioè a un cinema già totalmente immerso e nutrito dall’immaginario. In altri termini, Meadows sembra arrivare al western, cioè all’America e al cinema, solo attraverso altro cinema, uno sguardo filtrato. E tanto basta a inserire Once Upon a Time nella scia di tanti altri film degli ultimi decenni, ridimensionando all’istante la portata potenzialmente eversiva del tradimento di Meadows.
E non bastano un paio di campi lunghi e un personaggio che suona musica country a ridare contorno e sangue all’immaginario evocato, a ritrovare i sentieri spiazzanti di un altro paese. Si rimane sospesi in un limbo evanescente, in un carineria da souvenir. Paradossalmente, Meadows sembra trovare il western molto più in This is England, perché riesce a cogliere, più o meno consapevolmente, uno dei motivi fondanti del genere: il rapporto del singolo col gruppo, l’immedesimazione, più o meno critica, dell’individuo con l’idea (e la storia) della nazione. Ma sebbene la deviazione sia un giro a vuoto e l’atmosfera poco più che una pallida suggestione, C’era una volta in Inghilterra recupera slancio in quei momenti in cui Meadows ricorda la sua vera vocazione, quel saper guardare a personaggi ‘normalissimi’ e fregati dalla vita con una partecipazione totale e un amore incondizionato. Una vocazione che in parte attinge, è vero, al cinema ‘realista’ (senza re) di Loach e Leigh. Ma che per stile, toni, simboli, umori, sembra rispondere ancor più a una questione anagrafica, a un dato generazionale. Meadows, classe 1972, è figlio più che legittimo dell’era punk dei Sex Pistols e dei Clash. Per questo ogni richiamo ad altro, a un finto western, è solo una patina superficiale da rimuovere in fretta. Il suo cinema non può che essere il racconto di quest’Anarchy in the UK. E, tra amore e rabbia, è chiamato a compiere quel percorso che dal Free Cinema arriva alla densità dello sguardo di Stephen Frears, sempre capace di aprire le maglie del reale attraverso ogni trama e ogni genere (quanto My Beautiful Laundrette c’è nel cinema di Meadows?).
Ecco. È quando incrocia gli attimi di vuoto negli occhi ‘inebetiti’ di Dek/Rhys Ifans o accarezza le solitudini e i prematuri rimpianti della piccola Marlene (Finn Atkins). È quando riesce a farci sorridere per la stolta buffonaggine dei suoi personaggi fuori le righe o per le solenni incazzature di Kathy Burke. È quando sgrana la pellicola in una sorta di filmino familiare che ci accompagna e ci saluta malinconicamente nei titoli di coda. È qui che Meadows dà il massimo di sé e tira fuori il meglio dai suoi interpreti. È qui che, incrocia, nuovamente, il cammino già intrapreso. Quello che lo porterà fino all’intenso ed epocale This is England e al magnifico Le Donk & Scor-zay zee, finto documentario qualunque puntato sull’abisso che separa l’illusione del gioco e la verità del dolore e dei fantasmi.
TITOLO ORIGINALE: Once Upon a Time in the Midlands; REGIA: Shane Meadows; SCENEGGIATURA: Paul Fraser, Shane Meadows; FOTOGRAFIA: Brian Tufano; MONTAGGIO: Peter Beston, Trevor Waite; MUSICA: John Lunn; PRODUZIONE: Gran Bretagna/Germania/Olanda; ANNO: 2002; DURATA: 104 min.
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