Aliens e la femminilità vincente di Ripley PDF 
Piervittorio Vitori   

This is a man's, a man's, a man's world
But it wouldn't be nothing, nothing without a woman or a girl

(J. Brown – J. Newsome)

Sequel dell’Alien di Ridley Scott (1979) e progetto reso possibile a James Cameron dal successo del suo Terminator (1984), Aliens (1986) è un titolo la cui analisi è inevitabilmente legata al confronto con i due titoli citati. Confronto che, con una sintesi efficace, si può ricondurre all’individuazione di due dinamiche opposte tra loro: la discontinuità rispetto ad Alien e, dall’altra parte, la ripresa di elementi fondanti di Terminator.

Da un punto di vista tanto strutturale, quanto tematico, la distanza tra i primi due capitoli della saga spaziale può essere riassunta nella dicotomia unitarietà vs. frammentarietà. La sostanziale unità spazio-temporale della pellicola di Scott viene a cadere con Cameron, che già si premura di “staccare” cronologicamente i due film con un’ellisse di non poco conto. Sono infatti passati 57 anni dall’avventura della Nostromo, quasi sei decenni che il tenente Ripley ha passato in stato di ipersonno. Quando la donna viene svegliata/salvata, deve affrontare il processo relativo alla distruzione della nave, l’evento che aveva chiuso Alien. La sospensione della sua licenza e, ancor più, i continui incubi che la tormentano sono le ragioni per cui faticosamente accetta di ritornare su LV-426, aggregata ad una compagnia di Marines incaricati di far luce sulla misteriosa interruzione di contatti da parte della colonia che nel frattempo si è insediata sul pianeta. Il film, dunque, dopo aver bypassato il periodo trascorso da Ripley sotto osservazione medica, la riporta sul luogo in cui aveva avuto origine il dramma. Un dramma naturalmente destinato a replicarsi, ma secondo modalità nettamente diverse rispetto all’opera di Scott: l’horror fantascientifico (e dalle connotazioni metafisiche) giocato sui meccanismi dell’ansia e della suspense – un singolo ambiente claustrofobico, un ridotto numero di personaggi – lascia il posto ad un action-movie spaziale, che opera per accumulo tanto quanto Alien aveva giocato di sottrazione. Ecco allora più personaggi, più ambienti, più violenza e molti, molti più alieni: non a caso un altro riferimento che Cameron aveva ben presente in fase di lavorazione era il romanzo Fanteria dello spazio di Robert Heinlein, che nel 1997 avrebbe ispirato una pellicola per diversi aspetti simile ad Aliens.

Uno di questi aspetti, piuttosto rilevante, è quello che fa capo ai Marines e alla loro missione, ciò che ha reso molto semplice il lavoro di quanti hanno voluto vedere nel film un esplicito richiamo alla guerra del Vietnam e, forse in misura ancor maggiore, ai film prodotti sull’argomento. La galleria di personaggi sbozzati da Cameron appartiene in realtà ai canoni del film bellico in senso più lato: l’ufficiale irresponsabile ed inesperto ma capace all’ultimo di sacrificarsi per gli altri; l’esaltato che nel momento di crisi si fa prendere dal panico; il soldato tranquillo che si scopre essere il più preparato e coraggioso, ecc. Altri elementi fanno però propendere in maniera più netta verso il conflitto che oppose gli americani ai vietcong: il fatto che i Marines siano esplicitamente statunitensi (lo dichiarano le loro divise), il fatto che intervengano “in terra straniera”, il territorio su cui si trovano ad agire (esterni piovosi ed interni caldi, umidi ed oscuri)… Se quindi l’allegoria non trova appigli sul piano motivazionale/ideologico, come ricapitola un’analisi sul tema (1), regge invece su quello visivo/dinamico. Senza dimenticare il punto di contatto forse più importante: l’idea di una tecnologia superiore sconfitta da un nemico che non è tecnologico ma è superiore in numero e ha la capacità di mimetizzarsi nell’ambiente circostante.

La critica alla tecnologia e ai rischi connessi alla fiducia cieca che l’uomo può riporre in essa è in effetti un tema dominante in tutta o quasi l’opera di Cameron, a partire dal citato Terminator (ed ecco, dopo il sovraccarico di azione, il secondo elemento comune tra i due titoli). Qui la si ritrova non solo nella sconfitta dell’avanzato arsenale a disposizione dei Marines, ma anche nel piano di Burke, l’uomo della Compagnia che trama in segreto nella speranza di utilizzare la biodiversità aliena per sviluppi bellici (2). Tema strettamente connesso a questo, ed anch’esso “amplificato” rispetto all’Alien di Scott, è quello dell’avidità, un tratto che – sembra dirci il film – è comune a tutto il genere umano, senza significative distinzioni di ruoli sociali. Ad un livello “macro”, rappresentato dalla Compagnia, se ne affianca uno “micro”, rappresentato dai singoli (3): i soccorritori di Ripley, che ad inizio film sembrano quasi rammaricati per aver trovato una superstite sulla navicella; i soldati, che si lamentano di non essere pagati abbastanza; i coloni, con i genitori di Newt che si avventurano fatalmente nel relitto alieno per brama di guadagno. L’eccezione, in tutto questo, è naturalmente la protagonista, che rappresenta il vero cuore dell’opera: non solo in senso figurativo, ma anche extratestuale, giacché rappresenta il punto di sintesi tra le due fonti citate in apertura, Alien e Terminator.

Rispetto al primo film, Ripley mantiene quelle caratteristiche di “chiarore di lineamenti” (4) che, insieme alla resa cromatica degli interni in cui la vediamo ad inizio e fine film (l’ospedale e la navicella), ne suggeriscono la purezza. L’aspetto in questione è rimarcato anche in altre due occasioni specifiche: il suo ritrovamento iniziale (5), con l’ovvio richiamo alla figura della Bella addormentata nel bosco, e l’appellativo “Biancaneve” con cui uno dei marines la indica ai compagni appena risvegliatisi, sull’astronave che li porterà su LV-426. La doppia attribuzione di matrice favolistica ci spinge a percepire quello interpretato da Sigourney Weaver come un personaggio archetipico. Ragionando sui connotati della protagonista, si giunge quindi all’individuazione del tema centrale della pellicola: quello, assente in Scott, della maternità. La notizia iniziale della morte della figlia di Ripley (mentre lei era immersa nell’ipersonno) e la successiva scoperta che l’unica superstite di Hadley’s Hope è una bambina, a quel punto orfana, configurano la struttura di set up/pay off fondamentale per interpretare la linea emotiva della trama. I termini del rapporto che si viene a creare tra le due figure sono proposti magistralmente nella scena in cui Ripley mette a letto Newt, nella cabina del laboratorio medico, là dove il dialogo ci permette di capire cosa le due abbiano in comune (6): entrambe sono venute a contatto con l’elemento alieno, entrambe sono traumatizzate dagli incubi e da una perdita (la figlia in un caso, la famiglia nell’altro), entrambe sono state tradite (Newt dalla madre che le dice che non esistono i mostri, Ripley dalla compagnia e da Ash in Alien). In particolare quest’ultima considerazione, unita al fatto che a segnare il destino dei genitori di Newt è stata la loro avidità, ci dice di come la bambina possa trovare in quel “surrogato” rappresentato dalla protagonista una madre migliore di quella biologica. Altro passaggio notevole del dialogo è quello in cui Newt esplicita il parallelismo tra la gravidanza (e la nascita) degli esseri umani e l’incubazione (e la fuoriuscita) degli alieni. La battuta di Newt e la successiva scoperta del piano di Burke adombrano la possibilità che David Fincher renderà attuale in Alien 3: quella di una Ripley che da madre positiva (di una bambina) si trasforma in madre negativa (“ospitando” un alieno). Se questo sviluppo è qui risparmiato al pubblico, non manca comunque la nemesi della protagonista, incarnata da quello che si rivela essere il nemico principale: la regina aliena, in cui non a caso si rinvengono i caratteri dell’archetipo materno negativo di Jung (7). Uno scontro tra genitrici, dunque, in cui viene maggiormente alla luce un tratto di Ripley che è concettualmente implicato dal suo carattere di madre: la femminilità.

Facendo un rapido passo indietro, c’è da rilevare come nella pellicola di Scott la caratterizzazione di Ripley come femmina, da un punto di vista puramente narrativo, fosse piuttosto blanda (tanto che in origine sarebbe dovuto essere un personaggio maschile, e sostanzialmente la storia avrebbe funzionato comunque). Qui invece, anche in sede di scrittura, gli elementi che portano in primo piano la specificità di genere sono più evidenti. Maternità a parte, c’è una nemmeno troppo velata dinamica di seduzione tra lei e Hicks – come appare chiaro nella scena in cui lui le spiega come usare l’arma/simbolo fallico, ed è proprio grazie ad un dialogo tra i due che apprendiamo finalmente il nome di battesimo della protagonista (Ellen), ciò che rafforza la sua caratterizzazione come femmina. Inoltre, la dialettica maschile/femminile presente tra i Marines – con uno di loro che chiede a Vasquez se qualcuno l’abbia mai presa per un uomo, rimarcando così la sua appartenenza di genere – si riverbera anche su Ripley. È infatti palese che i soldati non la vedono come una di loro perché non è una combattente professionista (quindi non è utile alla missione) e perché è una donna. Viatico per l’accettazione diventa allora il calarsi in panni maschili, ed è quello che Ripley fa quando “indossa” l’esoscheletro, che diviene quindi simbolo di virilità. Ciò che risulta è quindi un personaggio che acquisisce un ruolo di utilità ai fini del gruppo (utilità che crescerà vieppiù quando, su LV-426, sarà lei a prendere in mano la situazione) e che, parzialmente celato dalla struttura che lo ricopre, tende ad annullare la visibilità – e di conseguenza l’importanza percepita – della sua femminilità.

Cameron riprende dunque la figura a lui cara della donna/madre combattente, già al centro di Terminator, e in un certo senso la rende più complessa, sfumandone il primo dei due connotati. Questa sfumatura di genere, o meglio questa transizione da femminile a maschile, ritorna poi con maggiore pregnanza nel finale, quando Ripley, nel frattempo divenuta titolare del ruolo di madre, opera un nuovo scarto verso la virilità e, per affrontare nello scontro decisivo la regina aliena, si serve nuovamente dell’esoscheletro. Riuscirà però ad avere ragione dell’avversaria solo quando, intrappolata nella camera stagna, si libererà dalla struttura, recuperando quindi il suo statuto femminile. Azione, spostamenti spazio-temporali, ri-attribuzioni di genere: al di là delle traversie di lavorazione e delle accuse di reaganismo (o anticomunismo), James Cameron, in attesa della consacrazione di Terminator 2, dimostra di aver imparato in fretta come padroneggiare il linguaggio e l’oggetto cinematografico. Unico tra i registi della saga di Alien ad aver anche sceneggiato la propria prova, rivela la capacità di adattare ad istanze personali un modello di successo, confezionando uno spettacolo di alto livello. E non è un caso che Aliens sia considerato da molti appassionati ed addetti ai lavori uno dei pochi sequel che, in termini di qualità complessiva, se la gioca con l’originale (anche se usando armi diverse). Già quella volta, un risultato non da poco.

Note:
(1) cfr. Mike Dawson, Analysis: Aliens – The Vietnam War Metaphor (www.leftfieldcinema.com/analysis-aliens-%E2%80%93-the-vietnam-war-metaphor)
(2) In questo senso, l’evidente eccezione è rappresentata dall’androide Bishop, a significare anche un’altra rottura rispetto ad Alien (dove l’androide Ash si rivelava invece un personaggio negativo)
(3) cfr. Scott Myers, 14 Days script analysis: Aliens (www.gointothestory.com/2009/11/14-days-script-analysis-aliens.html), 20/11/2009
(4) cfr. Emanuela Martini, L'ultimo viaggio della Nostromo, in Cineforum n. 320, dicembre 1992, pp. 65-68
(5) Proprio questa scena, giocata sul fascio di luce blu del faro con cui i soccorritori indagano l’interno della navicella, propone quello che è l’unico richiamo all’interno del film ad un altro topos cameroniano: le profondità marine
(6) cfr. Scott Myers, cit
(7) cfr. Michael R. Allen, Aliens: an analysis, (www.associatedcontent.com/article/1069700/aliens_an_analysis_pg3.html?cat=40), 28/09/2008

TITOLO ORIGINALE: Aliens; REGIA: James Cameron; SCENEGGIATURA: James Cameron; FOTOGRAFIA: Adrian Biddle; MONTAGGIO: Ray Lovejoy; MUSICA: James Horner; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1986; DURATA: 148 min.

 


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