"Non sono cattivo, è che mi programmano così": appunti su cinema e videogiochi PDF 
Umberto Ledda   

Parlando del rapporto fra cinema e videogiochi la prima cosa è fare una ovvia, scontata e semplice distinzione. Ci sono da una parte i film tratti dai videogiochi e dall’altra i film che parlano di videogiochi, oppure direttamente che funzionano come videogiochi (nei limiti dell’implicita assenza di interattività del cinema). Alla prima categoria appartengono pellicole che vanno dalla gradevole vaccata (i vari Tomb Raider, Prince of Persia), passano per la vaccata tout court (la serie di produzione familiare Anderson-Jovovich Resident Evil) e arrivano fino agli orrori di Uwe Boll, regista-pugile specializzato in riduzioni videoludiche famoso sostanzialmente per la bruttezza dei suoi film. Alla seconda categoria, più sparuta e, pur non essendo priva di vaccate, qualitativamente migliore, appartengono pellicole decisamente diverse fra loro per epoca e tematiche: da Tron a Scott Pilgrim Vs The World, da Death Race all’ultimo film di animazione Disney, Ralph Spaccatutto, che arriva a utilizzare i mondi videoludici come metafora (blanda, semplice e tenerosa, trattandosi pur sempre di un prodotto per tutte le età) della società umana.

Della prima categoria c’è poco da dire, a parte che i film tendono a essere inguardabili: in questo caso il cinema guarda al videogioco come a un serbatoio di storie e non come a un medium, a un linguaggio, e quindi il suo rapporto con esso è puramente occasionale. Ed essendo queste pellicole perlopiù operazioni di merchandising, una versione più costosa delle action figures, le storie stesse (anche nel caso di videogiochi dotati di una struttura drammaturgica più complessa) vengono utilizzate in maniera piuttosto rozza, mimetica, badando più a ricalcare determinate situazioni di gioco per il piacere del fan che non a tradurre queste situazioni in una struttura narrativa indipendente. Le ragioni per cui questi lavori possono rivelarsi interessanti (presi come categoria, non più come singole opere, soprattutto visto che dalle singole opere è spesso difficile cavare fuori qualche barlume di significatività) stanno altrove, nella loro stessa esistenza e nella percezione che il pubblico ha di essi. Perché questi film sono sostanzialmente prodotti di marketing, ma sono prodotti di marketing che funzionano. Funzionano pur costando un pacco di soldi. Il che significa che, per così dire, se ne sente il bisogno. È un fatto curioso, a ben vedere. Un videogioco veramente funzionale non dovrebbe aver bisogno di una trasposizione cinematografica, che ne riprende, copiandole, le scenografie, le immagini e le atmosfere, ma che ovviamente non può offrire quello che il videogioco offre: la possibilità di prendere davvero parte nella narrazione. Probabilmente questo vuol dire che il medium videogioco ha sì dalla sua parte l’interattività, ma gli manca ancora la tanto agognata percezione di realtà. Che il cinema, pur più limitato per molti aspetti, invece possiede. E il fan del videogioco, pur avendo passato ore all’interno di una simulazione che durante il gioco era portato a considerare come reale (la cara vecchia willing suspension of disbelief di ogni forma narrativa: se scelgo di entrare in una narrazione, scelgo di crederci), nonostante tutto, è interessato al film perché il film gli permette di vedere davvero quello stesso mondo, quella stessa storia.

Nella percezione comune il mondo videoludico si percepisce come minore rispetto al cinema (l’unico linguaggio che può trasporlo efficacemente, fra l’altro, la narrativa scritta essendo troppo lontana), e cerca nel cinema la giustificazione della sua esistenza. Non a torto: per quanto mostruosamente migliorata, la narratività del videogioco è ancora ben lontana dalla complessità del cinema. Ma non è detto che questo debba valere per sempre. Quello videoludico è un medium giovane, non un medium minore. I videogiochi, intesi non solo come “passatempo”, ma come struttura tecnologico-linguistica che può potenzialmente consentire la simulazione immersiva e verosimile di una realtà alternativa, è certamente uno dei dei media del futuro. E quando non si sentirà più il bisogno di trarre da essi dei film (o comunque, di farlo in questa maniera così rozza e mimetica, così esplicitamente mercantile), sarà uno dei segnali che sarà finalmente giunto a maturazione. E allora saprà magari lavorare con storie sempre meno rozze e sempre più complesse, e, alla pura adrenalina dell’azione, si affiancheranno dinamiche psicologiche di immedesimazione più raffinate (per fare un parallelismo con i generi cinematografici, attualmente la maggior parte dei videogiochi sono action, ma in teoria nulla vieta l’esistenza potenziale, ad esempio, di videogiochi romantici). E si apriranno prospettive interessanti, e non solo sul piano ludico o su quello della narrazione.

C’è poi un’altra distinzione da fare parlando di videogiochi: quella fra videogiochi narrativi e videogiochi non narrativi, tra videogiochi-gioco e videogiochi-storia. Cos’ha da spartire un divertente passatempo, poniamo, come Tetris, e una megaproduzione da 100 milioni di dollari prodotta e magari scritta da un George Lucas o da uno Steven Spielberg, con trame complesse, caratterizzazione più che decente dei personaggi, ambienti verosimili e curati in ogni dettaglio, e una tremenda immersività, una di quelle robe che se inizi a giocarci anche solo per sbaglio poi la notte sogni di essere il tuo personaggio? O di una simulazione realistica e per così dire orizzontale, protratta nel tempo, in cui il giocatore connesso a internet intesse relazioni sociali complesse con una miriade di altri giocatori di ogni parte del mondo, in un “gioco” il cui scopo è semplicemente quello di primeggiare sulla comunità attraverso l’uso accorto e strategico di queste relazioni? Ha senso considerarli parte di una stessa categoria? Ha senso usare lo stesso nome per definire entrambi? Quando i videogiochi fecero la loro irruzione, fra gli anni ’70 e gli anni ’80, erano tanto rivoluzionari quanto primordiali. Il nome videogioco per l’epoca era perfetto. Gioco, cioè appunto passatempo senza implicazioni, eseguito su uno schermo, cioè senza alcuna forma di interazione sociale o con la realtà. Che era un po’ la versione colorata per dire “giocare col muro”. Lo schermo per esserci c’è ancora, ma ora tutto si è fatto decisamente più incasinato. Il gioco è ancora una parte importante, ma non è più la più importante: sarebbe forse più corretto parlare di simulazione, che include l’aspetto ludico, ma molte altre cose. Attualmente, il termine “videogioco” sta piuttosto stretto per un medium che ha sviluppato una complessità decisamente alta, sia sul piano della simulazione di realtà, sia su quello dell’interrelazione sociale fra persone reali.

Tornando al cinema e passando alla seconda categoria di cui si accennava all’inizio, quella dei film che non copiano semplicemente un videogioco, ma ne fanno materia stessa di narrazione e riflessione, bisogna ripartire dall’inizio. Se già verso la fine degli anni ’70, quando ancora i videogiochi erano a uno stadio praticamente larvale, George Lucas inseriva nelle sue Star Wars elementi tratti dai pochi arcade da bar allora esistenti, è negli anni ’80 che l’uso del medium videoludico si fa più strutturato. Il cinema ne intuì rapidamente le potenzialità e le implicazioni: sostanzialmente quello di fantascienza, com’è giusto che sia essendoci in ballo la tecnologia e il futuro. Erano gli anni del cyberpunk, dell’attrazione-timore verso una tecnologia che poteva rendere gli uomini simili a dei e al tempo stesso potenziali schiavi. Il videogioco divenne, abbastanza naturalmente, uno dei temi-simbolo della realtà virtuale, un metamondo illusorio che sempre più spesso, nelle narrazioni dell’epoca, si affiancava e si sovrapponeva a quello reale finendo col confondercisi. Tron, ambientato nel mondo, allora decisamente nuovo, dei programmatori informatici, fu forse il primo film ad affrontare direttamente la questione, sicuramente il primo a usare massivamente la computer grafica, portando al cinema la sostanza stessa dei videogiochi, in un effetto che per l’epoca doveva risultare piuttosto sconvolgente: era la storia di un videogioco-mondo governato da un software intelligente e malvagio, secondo un classico topos delle distopie tecnologiche. Dopo Tron la via era aperta. Alcuni dei film-videogioco che seguirono rimangono significativi, se non altro per il culto che hanno generato: come Wargames, dove un giovane hacker appassionato di videogiochi utilizza come tali le simulazioni militari del Pentagono che ha trovato su internet, rischiando di scatenare, poiché l’intelligenza artificiale di tali simulatori non è in grado di distinguere simulazione e realtà, la terza guerra mondiale. Non sono film particolarmente raffinati, ma rimangono piccole tappe della riflessione narrativa sul rapporto fra uomo e tecnologia digitale, che i videogames, con la loro aria innocua, ed essendo in sostanza il primo tentativo umano di costruzione di un universo parallelo, per quanto rozzo, rappresentano perfettamente.

Il videogioco diventa la metafora di una sovrarealtà malevola e ambigua e consente di affrontare problemi tipici della riflessione tecnologica di quegli anni (e in realtà, fatta la tara delle ossessioni più paranoiche e deliranti in cui spesso il cyberpunk incappava - non che fosse un torto, erano narratori di fantascienza mica un’accademia di filosofi -, attuali ancora adesso). I rischi di una tecnologia capace di creare nuovi mondi, così verosimili da portare gli individui che li abitano a dimenticarsi del mondo reale di appartenenza (il tema che poi arriverà al successo planetario con Matrix, alle soglie del nuovo millennio); mondi magari dominati da un’AI non proprio bendisposta. Senza contare che una tipologia narrativa così apparentemente “minore” come il mondo dei videogiochi si presta molto più di qualsiasi altra, compreso il cinema, a rappresentare una delle ambiguità che da sempre ossessionano l’essere umano. Il videogioco è interattivo, il fruitore ha quindi la capacità e la libertà di modificare il mondo finzionale in cui si trova. Ma il videogioco è programmato da altri, per cui la reale libertà di movimento è illusoria, inscritta in un percorso su cui non si ha un reale controllo. Ed ecco che una roba per adolescenti brufolosi e smanettoni diventa rapidamente l’occasione per riflettere nientemeno che sul libero arbitrio. Era ovvio che un linguaggio già decisamente maturo come il cinema si gettasse pesantemente su questo nuovo oggetto, seducente e pericoloso.

Passata la novità, e passato il decennio del cyberpunk con le sue paranoie tecnologico-cibernetico-meccaniche, il cinema lascia da parte i videogiochi per un po’. Gli anni ’90 registrano qualche caso sporadico: Cronenberg si diverte a tornare alle sue ossessioni di inizio carriera con eXistenZ, film matrioska di videogiochi dentro i videogiochi dove dopo dieci minuti non si capisce più da che parte stia la realtà, e in Italia Salvatores fa uno dei film più coraggiosi della cinematografia nostrana con Nirvana, in cui Abatantuono, personaggio del videogioco che dà il titolo al film, scopre per l’appunto che il suo è un personaggio programmato, e che il suo libero arbitrio era solo illusorio. Sono opere affascinanti, ma non aggiungono poi molto per quanto riguarda il rapporto fra cinema e videogiochi in questa iniziale fase di studio. Il mondo dei videogames diventa nel frattempo sempre più importante all’interno della semiosfera, e, più o meno inconsciamente, il cinema inizia a risentirne: giusto per fare un esempio, la sempre più ricorrente strutturazione dei film a livelli, con prove successive meccanicamente giustapposte fino alla sfida finale. Ma il rapporto fra i due media dà segni di una raggiunta maturità solo negli ultimi anni. Negli anni zero e negli anni ’10 il cinema non usa più il videogioco come tema, ma ne usa direttamente il linguaggio, come se l’universo videoludico fosse ormai incorporato nella mentalità e nelle abitudini attuali: non più un corpo estraneo, da analizzare con timore e inquietudine, ma un elemento ormai ben radicato dell’immaginario collettivo. Sul versante tamarro-cazzaro un primo tentativo compiuto di ibridazione avviene con Death Race (dello stesso Anderson che fa i Resident Evil, per una volta alle prese con un progetto che va oltre la semplice trasposizione, sempre tenendo conto del contesto di puro genere), un "actionaccio" molto lurido ma piuttosto funzionale, che, all’interno di una storia su una colonia penale in cui i detenuti si giocano la libertà o la morte in turpi gare automobilistiche, utilizza come parte integrante della costruzione della suspence (e quindi come parte integrante della struttura drammatica) un sacco di elementi tipici dei videogiochi: i personaggi che possono prendere bonus durante le gare passando sopra quelli che di fatto sono pulsanti sul percorso, l’aspetto grottesco e caricaturale dei contendenti, l’ambientazione in un unico luogo che funge da arena, eccetera.

Sul versante più fighetto-intellettuale-nerd, senza per questo dimenticare l’aspetto cialtrone, sta invece quella che probabilmente è la pellicola che, al 2013, rappresenta più esplicitamente la definitiva infiltrazione dei codici videoludici all’interno del linguaggio cinematografico, Scott Pilgrim Vs The World. Non un film che tratta di videogiochi o che ne sfrutta alcuni codici, ma un film strutturato come un videogioco, avvolto sulla trama di una tipica commedia agrodolce indipendente: ragazzo si innamora di ragazza, ma deve fare i conti con il turbolento passato sentimentale di lei, e lottare quindi per conquistarla davvero, per maturare, affrontando i lati più sgradevoli di sé, e per capire che cosa davvero vuol fare e che cosa conta nella vita, eccetera eccetera. Ma il passato turbolento di lei si materializza letteralmente in sette evil exes, gli ex malvagi di lei, da affrontare uno dopo l’altro a cazzotti come boss di differenti livelli, per ottenere i punti che permetteranno al giovane Scott di affrontare il duello successivo. L’ultimo nemico, ovviamente (spoiler alert), è la versione oscura di se stesso, con cui può scegliere se combattere o venire a patti. E anche il sistema dell’1-Up, la vita extra sbloccata in particolari circostanze del gioco, diventa un sistema di messa in scena delle dinamiche esistenziali, in cui il personaggio può tornare sui propri passi, ripercorrere gli errori già fatti ed evitare di commetterli di nuovo. Anche l’estetica segue con coerenza (attingendo però, oltre ai videogiochi, anche al mondo del fumetto, da cui la storia proviene, a quello della televisione, e in realtà a tutto quello a cui si può attingere): continue sovrimpressioni sullo schermo, vere e proprie indicazioni di gioco e semplici descrizioni dei vari personaggi, accanto a un’ambientazione sovracaratterizzata e antirealistica. Si tratta di un film che difficilmente un non nativo (o non quasi-nativo) digitale potrebbe anche solo comprendere, uno strappo linguistico netto e per molti aspetti importante con il cinema commerciale. Il videogioco trasformato in alfabeto comune, parte integrante dell’orizzonte interpretativo del ventunesimo secolo.

Meno innovativo, ma certamente importante, per molti aspetti, è l’ultimo esempio di incontro tra i due mondi, l’animazione disneyana di Ralph Spaccatutto. Nessuna ibridazione linguistica in questo caso, ma una specie di consacrazione. Drammaturgicamente tradizionale, imperniato sulle vicende di un cattivo di un vecchio videogioco stanco del ruolo per cui è stato programmato che si mette in viaggio attraverso la sala giochi, in differenti universi ludici, per guadagnarsi la medaglia che da antagonista lo qualifichi come eroe, Ralph Spaccatutto non è, al di là delle valutazioni sulla sua qualità o funzionalità drammaturgica, un film particolarmente significativo di per sé. A parte lo spunto, già ampiamente utilizzato (dal Giuda biblico - almeno secondo alcune interpretazioni - in poi…) ma sempre interessante, dell’uomo potenzialmente buono programmato per fare la parte del cattivo da un’entità superiore, e a parte la vena di nostalgia per tempi più semplici e meno incasinati (in questo caso rappresentati da quegli stessi videogames tutti pixel che all’epoca erano considerati dai più una diavoleria d’avanguardia), è probabilmente significativo che per la prima volta il videogioco venga utilizzato dalla Disney per una delle sue semplici e didattiche metafore delle interazioni umane. È un piccolo segnale che i videogiochi, pur nella semplicità simbolica di una messinscena di un film per famiglie, sono ormai percepiti come un medium capace di rappresentare, di metaforizzare, una cosa complessa come la società. E la lunga sfilza di citazioni videoludiche, spesso anche abbastanza specialistiche e destinata evidentemente agli adulti che hanno vissuto gli albori della tecnologia interattiva, stupisce proprio per il fatto di trovarsi in un film con un target così generalizzato: non un film per nerd, ma una storia per bimbi accompagnati da genitori. È probabilmente una forzatura, ma forse questo significa che ci sentiamo (a così pochi anni dalla loro nascita) già rappresentati dai videogiochi, da questa lunga serie di 1 e di 0 messi in fila, che somiglia così tanto alla vita e alla realtà. O, almeno, a una realtà abbastanza verosimile e avvolgente da potercisi rifugiare, dimenticando per un tempo più o meno lungo, il mondo da cui veniamo.

 


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