TFF 28/Non ti serve un’estetica quando hai una vita: il cinema di John Huston PDF 
Umberto Ledda   

Hollywood è una metafora e un sogno. È la metafora della seconda possibilità e della libertà di diventare ciò che si vuole nonostante ciò che si è, è il sogno delle psicologie borderline, a metà fra l’abisso e lo splendore, che si rifugiano in un universo parallelo e intavolano le carriere bizzarre che nel mondo reale non potrebbero avere. Da una parte, di Hollywood, ci sono i film, d’accordo, e sono importanti, ma dall’altra c’è il mondo di coloro che li fanno, importante come e più dei film: un rifugio per vite troppo grosse per stare in altri posti. John Huston, in questo, è forse uno dei simboli stessi di Hollywood e, di conseguenza, è uno dei simboli dell’America. Huston era americano in un modo quasi violento, per quanto suo padre fosse canadese e lui stesso alla fine abbia scelto di diventare irlandese (ma d’altra parte i veri americani non esistono più da quando gli americani attuali li hanno ammazzati). Non dell’americanità cattiva che si è diffusa ultimamente nell’immaginario, di bastardi cinici e ignoranti convinti di essere proprietari dell’universo per mandato divino. Ma quell’americanità buona e arruffata, l’americanità degli sbandati imprendibili e randagi che possono sopravvivere solamente in un paese che ha fatto promessa di libertà, e in qualche modo deve almeno provare a mantenerla. John Huston era quel tipo di americano di cui negli anni Trenta si innamoravano i Pavese e i Vittorini.

John Huston è passato alla storia per essere un regista: giustamente, visto che ha girato sessanta film e alcuni dei quali li conoscono tutti, anche quelli che il suo nome non lo hanno mai sentito nominare. Alcuni sono effettivamente dei capolavori: Il mistero del falco, oltre al merito puramente tecnico di essersi inventato Humphrey Bogart, in qualche modo ha inventato il noir, Giungla d’asfalto, che è il noir (e il noir cinematografico è uno dei linguaggi che meglio sono serviti per capire poi, sociologicamente, quello che stava accadendo all’uomo in quel periodo), Gli spostati, che è l’ultimo film di Marylin Monroe e mette davvero paura a guardarla. Città amara, The Dead, con il suo chiacchiericcio inutile che si risolve nel vuoto e nella neve (un’ultima scena che è più dell’originale di Joyce). Eppure è strano: con tutti i suoi film, con tutto il suo fascino americano, Huston è rimasto un po’ fuori dai circuiti della memoria. Se lo ricordano i vecchi critici, e se lo ricordano bene, perché davvero, non appena provavi a informarti un po’ sul regista, oltre i film, ci mettevi poco a vedere uno di quei personaggi su cui il mito di Hollywood è fondato, un tipo alla Hemingway, cool all’ennesima potenza, bastardo come i suoi personaggi, una specie, appunto, di idolo americano bigger than life, amante dei superalcolici, amante del gioco, amante del pugilato, amante delle donne e possibilmente di molte, che fossero mogli o amanti, ateo miscredente e faccia da figlio di puttana. Insomma, uno di quei personaggi che se hai meno di trent’anni non puoi non amare, com’è nell’ordine naturale delle cose. Forse è solo quel tipo di mito americano ad essere tramontato, eppure ai cinefili giovani non viene nemmeno in mente, Huston, quando si elencano i registi che hanno segnato il passaggio dall’era classica del cinema a quella moderna. Si ricordano i film, ma mica molti; forse solo il primo e l’ultimo. Tarantino non lo citerà mai, diciamo, anche se ora si è messo a citare anche i classici ufficiali e i vecchi film in bianco e nero: e la sua personale storia del cinema, è innegabile, è la storia dell’immaginario della nostra epoca e della nostra società. E Huston non ne fa parte, non può farne parte. Non può piacere, adesso. Non è cool.

Forse dipende dal tipo di regista che era, e dal tipo di persona che era, visto che la seconda, volenti o nolenti, finisce sempre con l’influenzare il primo. Dal tipo di autore, o non autore, che era. Huston non ha mai fatto arte coi film: non ha mai espresso niente di fondamentale, dai suoi film non trapela mai un progetto di visione del mondo. Probabilmente perché non ci aveva pensato. I suoi film tentano l’arte nelle singole inquadrature, perché Huston amava la pittura ed era anche pittore, e lo si può vedere un po’ ovunque, nelle composizioni di corpi de La Bibbia del 1966, o nella scena finale de Gli spostati, che rimane una delle più belle rappresentazioni visive della lotta, fallimentare, dell’uomo contro l’universo e la natura. O in come ha inventato le ombre tutto intorno a Humphrey Bogart. Ma la sua volontà di bellezza si ferma al particolare, non si fa mai sistema di pensiero. Non c’è un progetto. Ci sono solo storie. D’altra parte lo si diceva già negli anni Cinquanta. C’è una recensione di Mario Gromo a Giungla d’asfalto che racchiude molte cose. Inizia con una dichiarazione secca, decisiva: Huston è un grande regista. Ma poi “bisogna che c'intendiamo, su questa parola regia. Se vuol dire dominio degli attori e di tutti gli altri elementi del quadro, se vuol dire sagacia di scorci, abile uso del particolare, coerenza di toni: allora l'Huston è davvero molto innanzi, non gli rimane certo molto da imparare. Ma se regista è il vero autore del film, se il suo film deve allora avere (e comunicarci) una sua convinzione profonda con una sua sentita, inconfondibile umanità; se il suo film, insomma, deve dirci una sua parola: allora una vera fisionomia dell'Huston, anche in Giungla d'asfalto, non la si intravvede”. Ecco.

Ci sono sempre stati due cinema: quello che raccontava storie e quello che diceva cose consapevolmente e sistematicamente. Poi, con la nouvelle vague il secondo ha vinto definitivamente sul primo, almeno nel campo dei cinefili, e il cinema di storie è rimasto relegato al puro campo dell’intrattenimento, e le strade si sono separate del tutto. Huston appartiene al primo cinema, una generazione più ingenua (ma in senso buono, una generazione non troppo consapevole, che non doveva costantemente monitorare il rischio di mordersi la coda), di registi che non si sentivano obbligati a rivelar qualcosa ad ogni uscita. I suoi film dicono cose, è ovvio: Il mistero del falco ci dice che le nostre ossessioni e i nostri sogni si prendono gioco di noi e in questa lotta senza speranza noi ci rimettiamo la vita. Ma non è Huston a dirlo, è Hammett, Huston si limita a mostrare che facce hanno questi uomini ossessionati e a far vedere le ombre dei loro pensieri. Gli spostati ci dice che siamo fragili e che il mondo, muovendosi intorno a noi, può sfiorarci e romperci, ma anche in questo caso è Arthur Miller a dirlo. Freud dice che ogni impresa immensa va fatta da soli e ci si rischia sempre tutto. Città amara dice che bisogna stare attenti ai propri sogni. The Dead dice che gli uomini a un certo punto si incrinano e il nulla da fuori entra dentro di loro, ma come è Joyce a dirlo: Huston mostra solo il colore di questa incrinatura e di quel vuoto. Huston è stato un pittore di film, un talento purissimo di metteur en scene di parole altrui, riempiendole di quelle atmosfere che gli originali potevano avere solo parzialmente. Ma per quanto riguarda una visione coerente, nulla. I suoi film dicono cose, ma sono cose dette da altri, e anche se provi a capire il criterio che lo ha portato alla scelta, il filo rosso, ottieni solo forzature o banalità: qualsiasi storia parla di sogni, di desideri e di illusioni.

Huston non piace più perché non è immediatamente riconoscibile, perché non ha una poetica esplicita e da lui non può essere estratta alcuna teoria cinematografica, perché se c’è da escludere qualcosa è proprio il fatto che a Huston sia passata anche solo una volta per la testa l’idea di una teoria artistica o cinematografica. E noi ora, in piena epoca del caos, possiamo amare soltanto coloro che possono servirci da bussola, cose che Huston non era e non aveva interesse ad essere (c’è anche una ipotesi più cinica: oggi, nel tempo del disordine, non sappiamo più riconoscere un individuo se non dal vestito che porta, e un regista dal vestito che fece portare ai suoi film.) Huston non piace perché non era post, non ragionava a posteriori, criticando dal punto di vista del futuro il momento che stava vivendo. D’altra parte, a che pro avere una poetica quando si ha una vita: e anche se è idiota giudicare un professionista dalla vita che fa, è comunque necessario ammettere che non c’è niente di male a vivere. Huston non era quel tipo di intellettuale che abdica alla vita per costruire un universo parallelo; viveva per conto suo, tirava di boxe, beveva litri e litri, talvolta si sposava e talvolta divorziava, veleggiava sull’esistenza. Faceva film per mestiere e perché era bravo a farlo e perché era un mestiere che gli permetteva di avere la vita che desiderava. Era un regista di poche seghe mentali, diciamo. Invisibile, faceva il suo lavoro in maniera superba (rimane l’uomo che ha fisicamente scelto l’impermeabile di Bogart, e che ha scelto Bogart, e rimane quindi fra i più grandi artefici dell’immaginario collettivo novecentesco), raccontava le sue storie e prendeva soldi per farlo e usava questi soldi per vivere. Dagli anni Sessanta in poi nei circoli cinefili si è affermato il regista iperuranio, e lui era davvero poco iperuranio.

Rimangono i singoli film. Uno diverso dall’altro. Il suo eclettismo ha dello straordinario. Di solito i registi si specializzano, anche a Hollywood, c’è quello bravo a fare biografie, c’è quello bravo con le storie di grandi imprese perché sa calibrare bene l’epica dei crescendo, quello che gli vengono bene i film di guerra e quello che con le commedie è il meglio di tutti perché ha i tempi giusti. Poi, anche a Hollywood, c’è quello che fa arte perché ha un groppo così piantato in fondo al cuore e nei film trova il pretesto per alleggerirsi un po’. Huston ha fatto alcuni fra i migliori noir della storia del cinema (il regista di noir uno se lo immagina tormentato e sul filo della follia), ha fatto documentari bellici di propaganda americana (il regista di documentari del genere uno se lo immagina come un uomo di poco cinema e tanta politica, o, se non si è d’accordo con quanto propagandato, come un servo del sistema che mette in immagini diktat superiori), ha fatto film biografici, ha messo in scena Melville, Joyce, Kipling, Miller, ha fatto recitare Sylvester Stallone e Orson Welles e Max Von Sidow, oltre che Pelè. Ha girato La Bibbia. Ha fatto anche western. E ha fatto anche film d’autore (difficile definire altrimenti Gli spostati, o anche The Dead), che a loro modo appartengono a un genere esattamente come il western. Ha fatto di tutto, insomma. Per soldi, anche. Perché gli piaceva girare, è evidente (il cinematografaro come avventuriero, il set e non la sala come vera sfida). O, per buttare lì un’ipotesi un po’ forzata, per ironia. Per sfottere un po’ l’immagine seriosa del creatore di sogni. Un’ironia mai esplicita, ma che si sente.

Basta prendere il film che meno si accorda con tutto il resto della sua opera: La Bibbia. Difficile immaginarsi uno come Huston, vitalista, fedifrago, bevitore smodato e giocatore smodato, e soprattutto ateo come un pezzo di legno, nei panni dell’illustratore di un Dio veterotestamentario. E infatti tutta la sua Bibbia è quanto di meno spirituale si possa immaginare; umanissima, pur nella consueta diseguaglianza delle parti (quando c’è in campo Caino sembra neorealismo, quando ci sono Abramo e Isacco si sta dalle parti del simbolismo pittorico). E, in un certo modo sottilissimo, ironica, proprio perché si suddivide in spezzoni diversi ma con un unico comun denominatore: Dio sancisce, gli uomini si piegano, poi Dio si gira un attimo dall’altra parte (anche solo per dormire un po’, come nel settimo giorno della creazione) e gli uomini si corrompono in tempi record. Dio li punisce malamente e i sopravvissuti si ricorrompono. Tutte cose che ci sono già nella Bibbia, ma qui è proprio lo schematismo della struttura a dare al tutto un che di farsesco: la sensazione che può facilmente risultarne è quella di un Dio frustrato, che tenta di correggere la sua correzione venuta malino ma senza riuscirci più di tanto, e che si incaponisce a correggerla, ma ancora invano. E poi c’è la scena meravigliosa di Noè (Huston stesso si prese la parte del barcaiolo biblico, forse per scelta precisa, forse perché altri avevano rifiutato). Presentato come un candido imbecille, un naïf che compie il volere di Dio senza troppi rimuginamenti, per ingenuità, come se stesse giocando. Una scena terribilmente terrena, dove il protagonista invece di meditare sulla malvagità degli umani dà da mangiare alle bestie e aspetta. Giusto per rendere ancora più inverosimile il suo exploit religioso, Huston girò subito dopo Riflessi in un occhio d’oro, dramma morboso e grottesco di militari machisti segretamente omosessuali. Difficile immaginare che l’uomo che aveva accettato di dirigere il primo film abbia poi scelto coerentemente il secondo sulla base di un progetto, di una comune sensibilità, di un criterio qualsiasi.

Alla fine la poetica di Huston è nel suo spirito, nella persona, nel non sentirsi responsabile rispetto all’opera passata, nel non sentirsi artista, nell’essere libero di essere anche un gretto e pragmatico mestierante (di classe sopraffina, ma comunque un professionista, senza sentire l’imposizione della profondità), nel rinunciare alla pretesa dell’immortalità per abbracciare il tempo e il maggior numero di avventure, esperienze (e donne) possibile. La verità su Huston è che in lui non c’è niente da capire, nessuna profondità insondabile nascosta dietro una disuniformità solo apparente. Il suo cinema è davvero disuniforme, manca davvero un unificante consapevole, rimane lì, film dopo film, pieno di ripensamenti e di cambi di rotta e di eventi slegati e meravigliosi, come accade nelle vite insensatissime e disorganiche degli esseri umani.

 


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