È di un enorme responsabilità lavorare con le parole, non vorrei dire nulla di falso … Io non voglio essere un cerebrale. Ho una terribile paura di poterlo essere. Non lo sono mai stato in tutta la mia vita […] Sono uno che scrive storie e non ho che una storia da raccontare: l’uomo. Questa storia molto semplice la voglio raccontare a modo mio, dimenticando gli artifici della retorica e della composizione. Io ho qualcosa da dire e non ho nessun desiderio di esprimermi come Balzac. Non sono un artista; non credo troppo alla cultura. Non sono affatto entusiasta del progresso (1).
“It’s not a political factor, it’s a human factor”, dice il Mandela interpretato da Morgan Freeman, e si potrebbe, parafrasandolo, dire che in Invictus a essere significativo non è tanto il fattore cinematografico quanto quello umano. Eastwood ha realizzato un film intriso di stereotipi e retorica, nella peggiore tradizione del genere “sportivo”. Un film disomogeneo, confuso e caratterizzato nella scrittura da continue digressioni assolutamente superflue. Lo ha fatto consapevolmente, così come consapevole era Gran Torino, immenso “film malade”. Possiamo credere che un uomo di ottant’anni, passati in gran parte a Hollywood, non riesca a vedere le crepe delle sceneggiature che si trova di fronte? Forse solo non gli interessano, non hanno importanza. Eastwood le asseconda perché a essere importante è qualcos’altro, il fattore umano, appunto.
Invictus è un film di spazi vuoti e silenziosi che si riempiono di persone, parole e rumori. La storia di un paese svuotato che deve darsi una forma e di un popolo che deve tornare ad abitarlo. Invictus narra la vicenda di un uomo, che solo raccontandosi a chi gli è più distante, può ricucire le sue ferite e quelle della sua gente. È il racconto senza tempo dell’incontro con il diverso, dell’umanità generata nell’unione con l’altro da sé. E poco importa allora se una mano bianca ne stringe una nera, come nella pubblicità di certi biscotti cacao e vaniglia. Giorgio Agamben ha scritto che è contemporaneo colui che guarda non la luce, bensì le ombre del proprio tempo (2). Invictus, come Gran Torino e Letters From Iwo Jima, fa luce sull’ombra più oscura della contemporaneità: l’odio per ciò che non si conosce, per coloro che non fanno parte della cerchia ristretta di una società, quella occidentale, sempre più chiusa in sé stessa, nei suoi pregiudizi e nelle sue paure. Eastwood è un regista ontologicamente contemporaneo, in grado di osservare la realtà con istinto, naturalezza e lucida partecipazione. Il suo sguardo però non appartiene al presente e nemmeno ad un arcaica, quanto vaga, classicità. Uno sguardo fuori dal tempo, che genera nello scontro con l’oggetto guardato (il mondo), un paradosso, un aporia. Un’ immagine, la sua, qui nous regarde, che ci guarda e ci riguarda. Dialettica perché nuova ed ancestrale nello stesso istante, perché sembra essere un’invenzione della nostra memoria come il ricordo di un fatto mai accaduto (3).
Un’immagine di avanguardia prodotta nelle retrovie: gli spalti al ralenti e insieme i volti dei giocatori schiacciati nella mischia, animaleschi come le loro urla distorte. E noi sospesi, increduli eppure toccati nel profondo. Invictus va però oltre le sue immagini; è un film saggio “alla Griffith”, che ha nella sintesi l’ obbiettivo dichiarato del suo procedere, sin dalla prima scena: un campo da rugby verde brillante sul quale giocano ragazzi biondi da una parte, dall’altra ragazzini neri che rincorrono un vecchio pallone e a metà, una strada, su cui passa l’auto di Mandela. Il presidente sudafricano raccontato da Eastwood è un uomo che insegnerà al suo popolo a percorrere quella strada, a riconoscere l’io nell’altro. Invictus mette in scena l’aprirsi di un dialogo. Perché solo nel dialogo si riconosce all’altro la qualità di soggetto, pari a quell’altro soggetto che è l’io (4). Un dialogo difficile però, che non ha certamente la sua conclusione nella vittoria di una coppa dorata. Bianchi e neri festeggiano ancora separati, le guardie del corpo non trovano il coraggio di abbracciarsi e solo una serva e un ragazzino storpio possono partecipare (come mascotte) alla gioia degli Afrikaners. È dunque solo l’inizio di qualcosa, per loro e per chi guarda: “Io celebro me stesso, io canto me stesso/e ciò che io suppongo devi anche tu supporlo/Perché ogni atomo che mi appartiene è come se appartenesse anche a te” (5).
Note:
(1) W. Saroyan, Che ve ne sembra dell’America?, Mondadori, 1998 p.40
(2) G.Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, 2008
(3) G. Didi Huberman, Il gioco delle evidenze, Fazi, 2008 p.71
(4) T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, 2010 p.161
(5) W. Whitman, Foglie d’erba, Einaudi, 2009 p.41
TITOLO ORIGINALE: Invictus; REGIA: Clint Eastwood; SCENEGGIATURA: Anthony Peckham; FOTOGRAFIA: Tom Stern; MONTAGGIO: Joel Cox, Gary Roach; MUSICA: Kyle Eastwood, Michael Stevens; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 134 min.
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