La verità dell'apparenza. Videocracy e la civiltà dell'immagine PDF 
Enrico Maria Artale   

Negli anni Settanta nasce in Italia la televisione commerciale, un evento chiave non solo per la storia della comunicazione, benché in pochi avrebbero potuto immaginarne la potenzialità di trasformazione, che in questo paese era superiore rispetto al resto del mondo occidentale. Le conseguenze sulla politica, sulla cultura e sull’economia sono state radicali, e se non pochi, nella raffinata classe intellettuale dell’epoca, percepirono intimamente la rivoluzione incombente, pochissimi le sopravvissero. E non soltanto per motivi d’anagrafe. La televisione italiana era improntata ad un modello pressoché utopico, che prevedeva l’alfabetizzazione mediale di una nazione, e riusciva a saldarsi in modo ineguagliabile per i tempi con un’industria cinematografica viva, per di più avallando nelle proprie produzioni tentativi sperimentali che difficilmente sarebbero state prodotte per la sala. La Rai era quasi una garanzia d’impegno, almeno dal punto di vista della produzione audiovisiva dedicata. In poche parole, difficile immaginare un passaggio così veloce, da La presa di potere di Luigi XIV, alla soap opera.

L’ultimo lavoro di Erik Gandini, Videocracy, inizia proprio da lì la sua ricognizione, con queste immagini video, in bianco e nero, poco definite, tra le prime prodotte dalla tv commerciale. Non si tratta di immagini a caso del resto, ma di una specie di strip-tease a bassissimo tasso di erotismo, esibito da un’ipotetica casalinga invitata in studio. L’autore sceglie così fin da subito quella che sarà la sua direzione di approfondimento all’interno dell’orizzonte televisivo, e pone nel sottotesto morale del suo montaggio, arricchito fin dalle prime immagini da un utilizzo del sonoro in contrasto assoluto, un’associazione di idee, una parola chiara anche per gli spettatori ormai smaliziati: pornografia. E qui filosofi e artisti inizierebbero ampiamente a discutere, anni Settanta alla mano, tanto su cosa possa essere a rigore considerato pornografia, quanto sull’atteggiamento ideologico che andrebbe tenuto nei suoi confronti. Vale la pena sintetizzare il dibattito in due posizioni estreme, ognuna sostenuta da una letteratura eterogenea per ruolo e corrente culturale. Da un lato chi, soprattutto sul versante francese, con grande veemenza provocatoria ha denunciato la pornografia come un regime dell’immagine assai poco riducibile all’accoppiata tette-culo, e piuttosto ravvisabile nella quasi totalità delle immagini contemporanee, in modo particolarmente grave in un cinema presunto alto, d’autore o d’impegno, che con scarsa consapevolezza si dimostrava connivente sul versante estetico, e quindi nella propria essenza artistica, con gli stessi regimi criminosi che pretendeva di denunciare. Una posizione sotto certi aspetti datata, quella di Daney, di Rivette, ma che ad oggi non dismette il suo potere illuminante, specie nelle sue formulazioni più rigorose. Chi l’ha sentito non può dimenticare Jean Marie Straub, con in mano la copertina di un’elegante film inglese, in cui ogni corpo umano si mostra rigorosamente vestito, alzarsi indignato e sentenziare: pornografia! Dall’altra in molti non hanno esitato a sottolineare, a volte con vanto, a volte con i toni di un’ammissione di colpa, l’assoluta radicalità della pornografia vera e propria, la sua semplicità, l’assenza dell’inganno, imputato invece al film erotico con ridicole pretese artistiche. E al tempo stesso la valenza dell’impatto provocatorio, destabilizzante, o addirittura la portata rivoluzionaria.

Volendo banalizzare si potrebbe riassumere la questione nell’opposizione, cara alla storia dell’arte e della religione (associazione tutt’altro che casuale), tra iconoclasti e iconolatri, soprattutto se si considerano quali immagini chiave il sesso, per l’appunto, e la morte. Famosa l’indicazione baziniana secondo cui questi due eventi non andrebbero filmati. In realtà in pochi, anche nello stesso contesto culturale, hanno preso alla lettera le parole del teorico francese, indirizzando piuttosto la ricerca verso le modalità alternative per cui tali eventi, ma più in generale tutte le passioni umane, dovrebbero essere elaborate cinematograficamente. Tanto più che, come detto, la questione della pornografia non riguarda così strettamente il sesso. Del resto anche dall’altra parte, pur mostrando a tratti una certa ostinazione nel voler filmare radicalmente il rapporto sessuale, e soprattutto la morte, gli artisti cercavano soprattutto una possibilità alternativa, per loro violenta e coraggiosa, all’immagine istituzionale. In definitiva appare chiaro come esista un’affinità molto profonda tra questi due atteggiamenti verso la pornografia, una radice comune, vale a dire una vera e propria passione per l’immagine e una piena consapevolezza del suo potere, esperienziale, rivelatore, per alcuni addirittura salvifico. Ma questa tensione può essere compresa soltanto a partire dal riconoscimento di uno statuto globale, e cioè che la tanto analizzata e dibattuta civiltà dell’immagine altro non è che la civiltà in cui l’immagine ha perso ogni sua forza e potenzialità essenziale, innanzitutto a ragione di una proliferazione incontrollata e anestetizzante.

Rispetto a tutto ciò  l’opera di Gandini assume una posizione curiosamente contraddittoria, che in parte riflette banalmente l’opinione del senso comune, in parte la scardina. Videocracy è, per così dire, tanto banale nella riflessione quanto originale e spiazzante nella pratica. Va da sé che il problema dell’immagine e del suo utilizzo, in relazione al potere, è infatti il tema centrale del lavoro. E quindi la povertà concettuale che Gandini sembra presupporre è grave: puntare fin da subito il dito sull’eccessiva presenza di corpi femminili seminudi quale principale causa o conseguenza di un decadimento generale dei costumi risponde ad un’opinione comune, peraltro non esente da un moralismo piuttosto spicciolo, partorito in seno alla buoncostume piuttosto che a dei valori etici. Non è un caso che questa accusa venga spesso pronunciata all’interno di una trasmissione televisiva, magari un format pomeridiano in cui il vuoto benpensare preferisce ammantarsi di contenuti nobili per nascondere la sua contiguità con una coscia in bella vista. È bene non dimenticarsi che la televisione, in quanto riproduzione inscatolata dell’intero sistema, ne eredita la stessa capacità inglobante e onnivora, in modo da poter costantemente assimilare e produrre da sé persino le accuse contro se stessa, creando una sorta di deserto circostante. E in nessun posto si parla così male della televisione come in televisione… Videocracy si concentra, almeno nella prima parte, sulla volontà di alcuni personaggi di presenziare sul piccolo schermo: si va dalla divertente fusione di Van Damme e Ricky Martin, alla schiera di ragazze che aspirano a diventare delle veline. Provini, esercizi, delusioni e le trafile note. Tutti cercano di proporre alla televisione, e attraverso la televisione, la loro immagine, secondo un’ossessione che negli Stati Uniti ha raggiunto livelli ben più preoccupanti. Tutto ciò pone un problema diverso, e più ampio. Essendo la televisione un mezzo che lavora per immagini, essa può garantire solo questa via d’uscita dal privato, ma la questione si sposta su un terreno prettamente psicologico evidenziando un spasmodica volontà di emergere: che si vada in televisione per cantare, ballare, o mostrare il culo, la differenza, da questo punto di vista è poca, e non basta certo la concessione della parola a nobilitare la presenza, tanto più quando le parole hanno perso il loro significato. Nulla di per sé eleva un famoso conduttore televisivo al di sopra di una qualsiasi velina. Entrambi gli “artisti” rispondono spesso ad una volontà di emergere cui non corrisponde alcuna volontà di esprimere. E d’altra parte la questione esorbita il settore televisivo, per quanto ne risulti parallelamente determinata.

L’approccio di Gandini al problema non ha l’impatto critico di chi intravedeva l’elemento pornografico nei contesti più insospettabili, né la provocazione anticulturale di chi lo esaltava coraggiosamente al grido di: “un bel seder non fu mai scritto”. La polemica sul suo essere un autore schierato non ha senso: intanto perché gli autori schierati realizzano spesso lavori intrisi di rara passione; in secondo luogo perché a livello politico e culturale la posizione di Gandini non fa notizia o scandalo, ma ricalca un sentore piuttosto diffuso. Il suo sguardo è moralista, irritante nell’ostinazione e nell’assenza di spunti, banale e fuorviante nelle conclusioni: basta apparire. La filosofia degli ultimi due secoli ha condotto una battaglia per la giusta considerazione dell’apparenza; e non dell’apparenza in quanto necessariamente correlata con una profondità nascosta, invisibile e molto più importante. Gli esempi che si potrebbero fare sarebbero moltissimi, da Nietzsche alla fenomenologia, ma se esiste un pensatore che nel Novecento ha scardinato in modo più radicale il falso mito della profondità questi è sicuramente Wittgenstein. La voce narrante di Gandini, giustificabile nel suo intento comunicativo al di fuori dell’Italia, ma insopportabile nei toni e nei contenuti, insiste su un punto, sfiorando quasi il ridicolo: bisogna entrare nelle cose più nel profondo, in modo più approfondito. Il presupposto sembra chiaro: le cose più importanti per comprendere il mondo non si vedono e vanno cercate nel profondo. Sembra paradossale che a dirlo sia un regista, uno che dovrebbe avere a che fare con immagini (e suoni, in ogni caso nulla di nascosto). Del resto tutta la tradizione occidentale ha posto il vedere alla base della conoscenza e in questo senso il cinema e l’audiovisivo sembrerebbero, a diritto, il compimento di un percorso lungo secoli. L’immagine, l’apparenza, il fenomeno, il volto: e adesso, d’un tratto, sembra che apparire sia la cosa più sconveniente, e che il mondo sia diventato fatto di concetti, che pensare sia l’unica cosa importante, a discapito dell’esperienza sensoriale tutta.

Ma la questione è assai sottile: l’apparenza è forse la cosa più importante del vivere umano, anche se non ce ne rendiamo conto. Ma è altrettanto vero, come si diceva, che esistono oggi più che in passato forme degradate dell’apparenza, al punto che nell’apparire non appare più nulla. E dunque la televisione è ciò che ha inaugurato una radicale distruzione dell’apparenza e della sua centralità per garantirne un surrogato assai più diffuso e democratico, ma svuotato. Warhol ha registrato in modo essenziale l’ultima rivoluzione dell’immagine, sancendo così una volta per tutte la fine della storia dell’arte, almeno per come è stata intesa per più di cinquecento anni. Così affermava esaltato: “in futuro ognuno avrà il suo momento di celebrità, per quindici minuti nella vita”. Ma la lucidità di quest’affermazione è resa possibile dall’atteggiamento che caratterizzava l’artista, del tutto privo di moralismi e pregiudizi, tanto da accettare e anzi salutare con gioia proprio l’avvento del vuoto che la diffusione assoluta dell’immagine avrebbe comportato, come se quel vuoto potesse veramente essere spensierato al punto da compiere una rivoluzione. In fondo la domanda teoretica sulla verità dell’immagine è pur sempre una questione etica originaria, nel senso che è all’origine di ogni posizione etica, oltre che politica. Il mito della caverna di Platone, che si chiama sempre in causa (anche a sproposito) quando si parla del cinema, è si un mito di carattere filosofico, ma la possibilità di uscire dalla caverna costituisce l’archetipo dell’utopia rivoluzionaria. E dunque la rivolta contro la civiltà dell’immagine innescata dal sistema non ha tra i suoi obiettivi la mancanza di profondità o il decadimento dei costumi che sembrerebbero interessare a Gandini. Ha a che vedere con le possibilità di porre di nuovo sotto gli occhi l’immagine nella sua potenza spiazzante e rivelatrice, spazzando via le immagini trite e ritrite del quotidiano nutrimento mediatico.

Eppure, ecco la contraddizione, seppur partendo esplicitamente da una riflessione povera, Videocracy è esattamente questo: un tentativo di re-immaginare, nel senso letterale di fornire nuove immagini, qualcosa che occupa costantemente i supporti ordinari del visivo, e perciò, in questo senso sì, è invisibile. Un tentativo di aprire gli occhi sull’abisso che è in ogni luogo comune, citando ancora Wittgenstein. Un tentativo peraltro riuscito, e con risultati straordinari. Gandini vorrebbe entrare nel profondo, ma non approfondisce nulla, non fornisce informazioni segrete, non trae particolari conclusioni: si limita il più delle volte, e quando lo fa è strepitoso, ad osservare il fenomeno, l’apparenza. La sua cinepresa affronta luoghi e persone che vediamo ogni giorno sui nostri televisori. Si addentra, è vero, in ambienti seminascosti che normalmente non vengono mostrati, ma in questo ambienti non scopriamo assolutamente nulla che non ci saremmo aspettati. La villa di Lele Mora è affollata di giovani ragazzi aitanti, le veline ballano in palestra, il regista del Grande Fratello coordina decine di camere. Ma non è il contenuto dell’immagine, ma la sua qualità, la sua estetica "altra". Scegliendo di filmare in pellicola con un look decisamente cinematografico, Gandini elimina un velo. Potrebbe sembrare un paradosso, perché l’oggettività della ripresa televisiva sembrerebbe maggiore, ma non è così. Intanto, è chiaro che proprio il cambiamento di per sé vivifica delle immagini altrimenti morte, così come al cinema a volte le sporche riprese digitali possono sembrare più insolite e perciò catturare maggiormente l’attenzione della pellicola stessa. Ma la questione riguarda ovviamente anche il differente statuto "filosofico" delle due tecnologie: da un lato un supporto fisico che riceve ed impressiona un dato luminoso, dall’altro un processore matematico che ricalcola e trasforma in immagine le informazioni acquisite. In un certo senso, quindi, il valore veritativo del supporto filmico è assolutamente superiore, data la presenza di un referente reale, oggettivo. Si potrebbe riconoscere come illusoria questa fiducia nella verità oggettiva, innanzitutto perché anche l’immagine analogica ha ampi margini di modifica, ma anche perché sarebbe ingenuo concepire la verità come semplice riproduzione. E allora, da questo punto di vista, il digitale, che non fa mistero della sua assoluta indipendenza e della falsificabilità infinita, si rivela più onesto nel presentare una verità possibile solo in ragione di una libera scelta dell’autore. Ma qui l’orizzonte di riflessione esula il contesto televisivo in cui si muove Videocracy: Gandini e il suo operatore Carl Eisner sottopongono un contenuto generalmente esclusivo dell’immagine digitale al giudizio della pellicola, giudizio che passa attraverso una rigenerazione estetica completa. L’operazione funziona perché la televisione è un mezzo arretrato, e per capirlo è bene lavorare e ragionare secondo modelli concettuali arretrati, come è in parte anche quest’opposizione tra pellicola e digitale.

In realtà,Videocracy mette in mostra un mondo arretrato, in inarrestabile declino. Descrive un’era iniziata negli anni Settanta e culminata poco tempo fa, la parabola di un percorso che ha portato al potere Silvio Berlusconi. Non registra, a dire il vero, ciò che in prospettiva è più interessante, e cioè il tramonto imminente di un’epoca: non soltanto, infatti, la televisione ha esaurito la propria centralità a livello di comunicazione, ma sta del tutto esaurendo anche la sua affidabilità come strumento di potere. E basteranno pochi anni per osservarne il tracollo definitivo. Proprio in questi giorni assistiamo alle battaglie legali su Mediaset, che probabilmente non arriveranno ad intaccare più di tanto il potere di un presidente che ha saputo abilmente farsi i suoi calcoli, al fine di poter evitare, nonostante la bocciatura del “Lodo”, i processi avviati nei suoi confronti. Ma anche Berlusconi fatica sempre più a imporre la sua immagine attraverso il mezzo televisivo, e per farlo è ormai costretto ad alzare costantemente i toni delle polemiche per poter, riuscendo così a distogliere lìattenzione tanto dai suoi problemi legali che da quelli governativi. Le figure del documentario hanno tutte comunque questo sapore decadente, uomini ricchi e potenti che vedranno inesorabilmente diminuire la loro fama e resteranno asserragliati nelle loro fortezze bianche senza capire molto di ciò che gli accade intorno. Ed è affascinante che la figura conclusiva del percorso sia questa sottospecie di antieroe mediatico, Fabrizio Corona, il cui volto sembra sempre più vuoto, in ogni inquadratura, in ogni frame, resistendo quasi stoicamente ad un tentativo di lettura psicologica del personaggio, come fosse lui il grado zero dell’autoreferenzialità della televisione. Videocracy getta a suo modo uno sguardo illuminante sulla società italiana, ma è come se lo facesse pochi istanti prima che questa società e la relativa forma di comunicazione vengano spazzati via definitivamente.

Ad oggi, dal punto di vista del potere (e non solo), l’unico mezzo che conta è la rete. E non soltanto perché negli ultimi anni è venuta meno la spaccatura tecnologica e culturale che precludeva l’utilizzo di internet alle fasce più basse della popolazione, quanto perché la rete mostra adesso le sue vere potenzialità, digrigna i suoi denti di pixel e dissuade dalle interpretazioni utopiche delle sue funzioni, che tanto ricordavano gli abbagli presi in occasione della comparsa della TV. Se già per il passaggio dal grande al piccolo schermo si parlava di individualizzazione e privatizzazione, quelle categorie ora si radicalizzano. Con lo sviluppo della portabilità e delle reti mobili, la struttura mondiale della comunicazione è già nella tasca di ogni individuo ventiquattro ore al giorno. E non è un caso che adesso si condensino nello stesso dispositivo la possibilità di accedere alla rete e la possibilità di introdurvi del materiale multimediale, in un interscambio continuo. Se la peculiarità del Fascismo, rispetto agli altri sistemi dittatoriali, consisteva forse nella capacità di penetrare a fondo nella sfera privata, dovremmo dire che le democrazie multimediali della contemporaneità sono assolutamente fasciste. E che le loro leggi subiranno nel giro di poco tempo una decisa e obbligata trasformazione, dal momento che ad esempio, concetti come la privacy o i diritti d’immagine sono diventati privi di significato perché non tutelabili. E una legge non può non tenere conto della sua possibilità di applicazione: che senso ha parlare di diritti d’immagine nel momento in cui ogni individuo dispone di un cellulare con cui può filmare di nascosto il vicino, e nel giro di pochi secondi inserirlo sulla rete per milioni di persone senza che questi o alcun organo di controllo possa venirne a sapere qualcosa? In un capitolo esilarante di Infinite Jest, il grande romanziere americano David Forster Wallace si lascia andare ad un resoconto spassoso di una fantastoria della videofonia, quale esempio calzante di una tecnologia sviluppata ma rifiutata dalle abitudini e dall’intelligenza comune. La realtà della videofonia non è stata dissimile, ma anche perché non aveva trovato il medium adeguato per flessibilità e potenzialità. Gli orizzonti della rete video sono difficilmente definibili e lasciano ampi spazi all’inquietudine. Quando John Stuart Mill parlava del rischio del “controllo di tutti su ciascuno” come maggior pericolo nella democrazia non avrebbe mai potuto immaginare una situazione del genere.

Anche in un suo precedente lavoro, Surplus, Erik Gandini aveva affrontato marginalmente il tema della comunicazione, assimilando stilisticamente telegiornali e pubblicità. Ma da questo punto di vista quel lavoro era meno interessante perché si risolveva soltanto in gioco visivo divertente, ridotto alla pratica di un montaggio molto creativo ma nel complesso meno originale e affascinante di quanto non accada in Videocracy. Senza considerare che le forme di comunicazione in questi pochi anni sono estremamente mutate. Surplus partiva con una bella sequenza di riprese realizzate al G8, momento fondamentale nella storia del rapporto tra comunicazione, rete e potere, primo terreno di sperimentazione vero e proprio della dispersione dei punti di vista video, che diventerà di lì a poco la condizione di possibilità di un evento come l’11 settembre, evento nato e concepito per essere ripreso dal maggior numero di videocamere possibili. Il film pagava poi l’ingenuità di alcuni assunti e si perdeva in una teoria critica abbozzata, quasi a voler delineare, seppur implicitamente, l’ipotesi di un sistema in mano ad un gruppo di potenti. Ipotesi abbastanza consolatoria, che offre un nemico sicuro, ma che nasconde il tratto più inquietante del sistema stesso, la sua indipendenza da qualsiasi volere umano, la possibilità di autodeterminarsi tecnologicamente in un meccanismo alienato dall’intenzione di singoli o gruppi. Si pensi a Facebook, un grande archivio mondiale interamente realizzato su iniziativa dei cittadini a partire dall’idea di alcuni studenti universitari, una risorsa stabile, dettagliata, che viene già utilizzata da alcuni governi per individuare criminali di vario genere. Non una decisione presa dall’alto, ma una propagine del sistema di sorveglianza sviluppatasi autonomamente. Certo, nella storia della televisione italiana è facile individuare chi tiene i fili dello sviluppo mediatico, e Gandini, senza avventurarsi in un’accurata disamina storica, trasmette appieno l’atmosfera opprimente di un meccanismo in cui tutto ruota intorno a pochi individui, la cui banalità umana è direttamente proporzionale all’inquietudine di chi li osserva. Le scelte stilistiche di Videocracy sono a tratti geniali, al punto da far pensare ad una gigantesca messa in scena, ad un film di finzione cui hanno partecipato molti VIP. Ma Gandini è bravo proprio a giocare su questo tratto di indistinzione tra volto e maschera, a far leva sulla vanità e sull’amor proprio, utilizzando splendidamente gli ambienti di contorno, la luce, la composizione delle immagini.

In Surplus, invece, lo stile, sempre smagliante, giocato sulla reiterazione e sui ritmi, sulla mobilità dei piani, sull’utilizzo ossessivo della musica, appare però esorbitante rispetto alla descrizione del sistema capitalistico. La connivenza estetica con il mondo che il film condanna può lasciare perplessi, poiché a tratti si ha l’impressione di un vero e proprio "consumismo" delle inquadrature. Ma il vero problema resta al livello dell’elaborazione: non che fossero necessarie altre informazioni, perché qui l’approccio non ha nulla a che vedere con Moore ad esempio, ma manca l’esibizione delle contraddizioni intrinseche, del particolare sconvolgente. E l’esigenza rivoluzionaria e violenta appare ingiustificata, normalizzata, e non indagata al punto da mostrarne le sue stesse ambiguità, lasciando lo spettatore senza particolari interrogativi: perché nel mondo occidentale il movimento di rivolta, a livello individuale, risponde quasi sempre a motivi psicologici e personali piuttosto che politici e collettivi? Perché il sistema ha una costante necessità di essere contestato? Queste domande restano estranee. E non a caso il momento migliore del documentario consiste nella parte girata a Cuba, che per molti si rivela disarmante, e non perché esista ancora una sinistra militante al punto da misconoscere i problemi che affliggono Cuba da molti anni, ma perché non ci si aspetterebbe una tale appassionata sincerità nei desideri consumistici dei giovani cubani. Qui la sintesi tra lo stile divertente e la simpatia dei personaggi tocca un livello emotivo superiore, e fa rimpiangere un mancato sviluppo della sequenza.

Nel complesso entrambi i lavori mantengono una grande forza espressiva, mostrando invece una certa carenza riflessiva che ci si aspetterebbe da lavori che si pongono a loro modo come operazioni non prive di un certo intellettualismo. Mentre in Videocracy, tuttavia, l’espressività assume una forma più originale e meno modaiola, che attraverso alcune sequenze indelebili rende il lavoro più compiuto e personale, in Surplus resta l’impressione di un fantastico lavoro di montaggio (firmato da Jonas Soderberg, assiduo collaboratore del regista), ma, complice l’orizzonte meno specifico, lascia poco di più di alcune intense sensazioni ritmiche (a parte il momento terrificante del convegno della Microsoft). Ad ogni modo Gandini, autore anche di Gitmo, dedicato alla questione Guantanamo, è un regista che sa imporre stilisticamente la sua ricerca formale, abile nel coinvolgere lo spettatore convogliandone l’attenzione su problematiche centrali della contemporaneità per rinnovare l’immaginario collettivo, intelligente nell’evitare strategie estetiche eccessivamente di nicchia grazie ad un approccio molto istintivo. Speriamo si decida ad abbandonare quelle sovrastrutture che invece di qualificarlo lo penalizzano. In fondo è una fortuna che anche lui, suo malgrado, voglia apparire.

 


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