7° Berlin Porn Film Festival PDF 
Elisa Cuter   

L'ormai settima edizione del Porn Film Festival di Berlino, tenutasi al cinema Moviemento a fine ottobre, ha ancora una volta confermato quello che ne scriveva su Rolling Stone nel 2007 Sergio Messina, e cioè che ormai il termine “'porno' significa tutta una serie di prodotti (fiction, documentari, foto, arti visive e non solo) che, pur avendo molte delle caratteristiche della pornografia - la nudità, scene di sesso esplicito ecc. - non si prefiggono lo stesso scopo. Il porno infatti si potrebbe classificare come un'arte (o artigianato, se preferite) funzionale, la cui prima ragione di esistenza è eccitare; in questo nuovo genere di pornografia questa funzione, quando c'è, diventa secondaria”.

Pensando a questo festival, infatti, viene alla mente un nuovo termine, che va ad aggiungersi alla serie di prefissi che alla pornografia sono stati affibbiati negli ultimi anni (dall'alt-porn fino al tormentone pop-porno), vale a dire che più che di porno si tratta forse di post-porno. Non soltanto nella sua accezione di democratizzazione e “seconda liberazione sessuale”, che va ad includere tutti quei soggetti che erano stati esclusi dalla secolarizzazione e deregolamentazione che si è accompagnata alla sessualità (e relativa rappresentazione) nello scorso secolo, ma proprio come messa in scena dell'atto sessuale in quanto forma di riflessione pubblica sullo stesso, non più soltanto relegata all'utilizzo privato, che, appunto, sembra diventare secondario. Perciò non è affatto una questione marginale dare uno sguardo agli spettatori in una simile manifestazione, per rendersi conto che, decisamente, non sono gli uomini in impermeabile che si sarebbero potuti incontrare in un cinema a luci rosse di trenta o quarant'anni fa. L'umanità più varia (inclusa quella più ordinaria) fa parte del pubblico di questa pornografia postmoderna, che pur essendo tale è al contempo una più o meno esplicita riflessione su se stessa. Riflessione che è volta ad abbattere pregiudizi in primo luogo teorici, per cominciare, banalmente, da quello di baziniana memoria sull'impossibilità dell'arte di mostrare la petit mort, ovvero l'orgasmo. Oppure Susan Sontag, che nel suo celeberrimo saggio sulla riabilitazione della pornografia (letteraria, però) incluso nel volume del 1969 Styles of radical will affermava che “la pornografia non è una forma che possa parodizzare se stessa”: a smentirla si trovava nel programma la rassegna di corti x-rated e tuttavia comici “Fun Porn”. Ma anche la famosa affermazione di Wittgenstein “di ciò di cui non si può parlare, occorre tacere” viene contraddetta: tesi degli organizzatori sembra essere la certezza che tutto possa, quantomeno, essere mostrato, e nella sua visione (collettiva, si noti), condiviso, discusso, al limite esorcizzato.

Fondamentale la varietà dei film presentati, con un occhio di riguardo, non a caso, per le produzioni femminili (e non soltanto quelle patinate dell'ormai celebre Erika Lust), per quelle low-budget e poco distribuite, che offrono però spunti di riflessione sul contesto di produzione (come il documentario educativo Du darfst – Truth or Dare sulla diffusione e la contravvenzione dell'HIV tra le lesbiche della scena berlinese appena dopo la caduta del muro), e per i documentari, come l'insolito Pornographie & Holocaust sulla diffusione in Israele, in concomitanza con il processo Eichmann, di letteratura pornografica ambientata nei lager nazisti. Anche la pornografia per così dire mainstream era rappresentata, ma, in primo luogo si è scelto di intenderla come una forma di archeologia, classificata nella rassegna “Golden age of porn”, dedicata ai film vintage degli anni Settanta, e in seconda istanza sempre riflessa, mediata, ragionata. Tanto per fare un esempio, infatti, è stato presentato The Devil in Miss Jones, con l'attrice hard Georgina Spelvin, che non a caso è anche la protagonista del video dei Massive Attack - nel quale racconta se stessa e il suo rapporto con la macchina da presa - con cui si è conclusa la piccola collezione di videoclip “Sex Love and Videotape” curata da Evan Romero. Breve rassegna che, tra l'altro, ha fornito un ottimo spunto per parlare di crossmedialità del porno e poliedricità del sesso come linguaggio.

E sebbene, come dicevamo, a rendere la visione una questione di pubblica utilità sarebbe bastato proiettare film simili, gli organizzatori del festival hanno voluto fare un passo oltre: alle proiezioni si sono infatti affiancati vari workshop, come quello intitolato “Say no”, che si prefiggeva lo scopo di insegnare la comunicazione al partner dei propri desideri e soprattutto dei propri limiti (ma, ancora di più, il diritto ad essa, che nella nostra tanto liberale società sembra ancora un tabù). Un'ulteriore prova della volontà di dare un'impronta sociale alla manifestazione. Come dimostrava del resto già dall'inizio la scelta del film di apertura, Chroniques sexuelles d'une famille d'aujourd'hui, di Pascal Arnold e Jean-Marc Barr, commedia molto esplicita, eppure quasi ingenua e pedagogica, su una comune famiglia borghese che si trova a discutere apertamente la propria vita sessuale, su consiglio di una psicologa a cui i genitori si rivolgono quando il figlio adolescente viene scoperto a masturbarsi in classe. Può forse sembrare banale affermare oggi che il sesso è anche una questione sociale e culturale, e che la pornografia è una delle lenti d'ingrandimento più efficaci per leggere e comprendere la società che la produce, ma forse, perché queste constatazioni non restino lettera morta o appannaggio di accademici e osservatori, manifestazioni come queste sono quello che serve per incoraggiare il dibattito necessario a far sì che la società stessa possa riappropriarsi in maniera critica e consapevole di qualcosa che fa sicuramente parte, ormai, del suo quotidiano.

 


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