Ferro3 è un film che riesce a far parlare il silenzio, all'interno di una narrazione che è onirica e insieme reale, come in fondo è la vita secondo Kim Ki-duk ("non possiamo sapere se ciò che viviamo sia sogno o realtà" recita la frase alla fine del film).
Tae-suk non dice una parola per tutto il film. Ma le sue azioni dicono molto di lui. Tae-suk riempie il vuoto, la solitudine, abitando per un po' le case altrui. Non ruba niente, mangia, si lava, dorme, e in cambio mette a posto, aggiusta gli oggetti rotti e fa il bucato. I suoi "ospiti" non ci sono mai, se non in fotografie e quadri di famiglia in cui Tae-suk si intromette grazie agli autoscatti della sua fotocamera digitale. La sua presenza è muta ma nello stesso tempo è carica di tensione e tragicità e sembra urlare, gridare e comunicare molto più di tutte le parole inutili pronunciate dagli altri personaggi del film.
Le case che abita sono spazi silenziosi in cui le uniche parole che risuonano sono quelle pronunciate dalle voci delle segreterie telefoniche: meccaniche, impersonali e banali. Nella società dell'apparire e del possedere, sono gli oggetti a parlare: album di fotografie, ritratti, frigoriferi, orologi e bilance rotte ci parlano di coloro che li possiedono.
L'altro oggetto parlante è proprio il ferro3 che dà il titolo al film: una mazza da golf, la più potente e la più difficile da usare. È un oggetto che nelle mani di Tae-suk diventa giocattolo infantile, arma di difesa, ma anche strumento di violenza e che esprime le contraddizioni e le ombre di un personaggio bizzarro e poetico che riempie il suo vuoto abitando quello degli altri e in cui abitano comico e tragico, amore e violenza, sogno e realtà.
In una delle case che visita, Tae-suk incontra Sun-hwa. Nasce un amore silenzioso tra due solitudini, un amore che non ha bisogno di parole e forse neppure di corpi: continua, infatti, a vivere anche dopo che Tae-suk si ritrova ad abitare il vuoto di una cella, continua nella mente di Sun-hwa, o forse è solo lì che è esistito.
Il silenzio parlante di Tae-suk si contrappone alla falsità delle parole del marito di Sun-hwa, della stessa Sun-hwa quando si rivolge al marito, del poliziotto che interroga Tae-suk, del carceriere. Le uniche parole vere sembrano essere quelle pronunciate dalla coppia nella cui casa Sun-hwa ritorna per riempire l'assenza di Tae-suk dormendo sullo stesso divano in cui erano stati seduti a prendere il tè. Senza domandare niente a Sun-hwa e lasciando da parte ogni diffidenza, i due sposi la comprendono profondamente e la lasciano dormire sul loro divano.
In prigione il silenzio di Tae-suk si spinge oltre l'assenza di parole. Il ragazzo riempie lo squallido spazio dell'isolamento in cella imparando a non esserci. E così riesce a comunicare non solo senza le parole, ma anche senza il corpo, decidendo quando essere visibile e quando sparire e presentandosi come fantasma alla sua amata, l'unica che può sentire il suo silenzio.
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