Kill Bill Vol.1 e il colore PDF 
di Elena Bona   

Kill Bill, Vol.1 è la summa delle caratteristiche del cinema postmoderno e di quello tarantiniano in particolare: il parossismo delle cifre stilistiche proprie del suo cinema invade lo schermo e i sensi, in un gioco di citazioni e commistioni che supera quello dei suoi film precedenti. Vi si ritrova, infatti, la frammentazione temporale, a cui corrisponde una costruzione dello spazio che passa attraverso la sua decostruzione; permane la suddivisione in capitoli già presente ne Le iene; le marche di enunciazione sono forti e inequivocabili; la commistione di generi e di stili viene esibita e diventa roboante, percorrendo con egual serietà e ironia lo spaghetti-western e il cinema giapponese di arti marziali, i film giapponesi di samurai e i fumetti manga, la soap opera e i B-movie, rivisitando i registi tra i più disparati quali Hitchcock, Woo, Nolan e, soprattutto, Tarantino stesso.


Il punto di vista si moltiplica, si sgretola in una miriade di sguardi e voci narranti. Continua e viene esasperato il gusto per gli allegri spargimenti di sangue così come per la messa in scena del corpo umano come oggetto, materia costituita di carne e pelle. Si assiste a scene in cui lunghi piani sequenza vengono intervallati da dettagli e particolari in piano così ravvicinato che vengono decontestualizzati e perdono il loro legame con il mondo diegetico, per assurgere a simbolo. Ed è questo il campo in cui Tarantino sperimenta se stesso quasi per la prima volta: Kill Bill gioca con la simbologia. Non più solo con quella dell'inclinazione della macchina da presa, da sempre nei suoi film esibita e connotativa, ma anche con quella dei colori, dei nomi, quella degli sguardi. Il regista fa riferimento a una simbologia universalmente riconosciuta da cui pesca e con cui gioca in modo così diretto che diviene ironico, tanto plateale quanto nascosta dai mirabolanti combattimenti coreografati da Yuen Woo-Ping.

Il regime simbolico dei colori è dichiarato fin dall'incipit del film: dopo il prologo nel quale si assiste a un primissimo piano del viso di Uma Thurman emaciato, nella penombra di un'illuminazione tutta dreyeriana, la prima inquadratura dopo i titoli di testa mostra la casa della "casalinga" di Pasadena inserita in un cadrage le cui caratteristiche concorrono a dare un senso di serenità: la casa è inquadrata frontalmente, al centro dell'immagine, con linee armoniose spezzate solo dal tronco di un albero che è però solidità e naturalità.

 

I colori sembrano quelli di un quadro dipinto con i pastelli e, oltre a un cielo limpido di un azzurro tenue, la tinta predominante è il verde, il colore che più di ogni altro è rassicurante, tiepido. Verde è il colore della primavera, dell'equilibrio, della stabilità. Verde è il colore dello yang, dell'anima femminile che nutre e dà pace. E Vernita Green (il nome non è casuale) è immersa in questa dimensione, dopo aver lasciato la Deadly Viper Assassination Squad: da pochi segni si può supporre che la donna si sia rifugiata in una vita fatta di piccole cose quotidiane, ama e si prende cura della sua bambina, mette in ordine la casa, dà la pappa al cane. Ma l'inquadratura è impallata completamente e prepotentemente, così come l'atmosfera tranquilla: un'automobile gialla entra in campo e si dà come elemento di disturbo e destabilizzazione. La quiete e la serenità del verde viene invasa irrimediabilmente dal giallo. Il gioco di colori funziona da campanello di allarme, metafora anticipatrice di ciò che accadrà di lì a poco, quando la donna bionda che scende dalla macchina ucciderà la casalinga davanti agli occhi della figlia.

Il giallo percorre il film come una lama, come una trama, come colore da cui è impossibile fuggire: è il colore della macchina, dei capelli, del vestito che indossa la protagonista. "Intenso, violento, fino a essere stridente, oppure pastoso e accecante come una colata di metallo in fusione, il giallo è il più caldo, il più espansivo, il più ardente dei colori, difficile da spegnere e che oltrepassa sempre i limiti nei quali lo si vorrebbe confinare", recita il Dizionario dei simboli (1) e sembra davvero che stia parlando di Black Mamba. Questo colore - e questa donna - sembra incarnare la forza e l'eternità divina, il potere sulla altrui vita, l'impossibilità di scappare dal suo controllo. Nessuno riuscirà a sopravvivere a Black Mamba, nessuno sarà in grado di sfuggirle e il suo colore si infiltrerà con grande potenza visiva e distruttiva per tutta la storia.


Un altro colore che viene messo in scena con insistenza per tutto il film e che si presenta anch'esso già in questa prima sequenza è, ovviamente, il rosso, colore del fuoco e del sangue. Lo si trova sul cofano dell'automobile di Black Mamba su cui sono disegnate fiamme, nell'abito e le unghie di O-Ren nei cui occhi viene riflesso per un momento (il momento in cui il suo personaggio potrebbe coincidere con quello di Black Mamba per la sete di vendetta e il dominio sull'altrui vita), il giallo e il rosso dell'incendio, nel sangue che spruzza da braccia e teste mozzate, sulle labbra e nel manico d'ombrello di Mr. Island. Lo si trova nell'illuminazione che pervade il ricordo di Black Mamba dopo aver guardato negli occhi Vernita Green: la passione (di morte) che si scatena nella donna tinge le immagini di rosso e macchia il bianco: colore della purezza, non riesce a rimanere integro in nessuna sequenza in cui viene insistito. La cucina della casalinga, a parte ospitare un quadro con macchie rosse (simile alla siepe alla sinistra della casa) viene schizzato di sangue, così come il vestito della mezzosangue nipposinoamericana e il paesaggio incantato ricoperto di nerve su cui cade, l'abito da sposa di The Bride come l'ambiente che la ospita (tra il bianco e il marrone, colore della convenzione e della tradizione).
Ultimo, ma non per frequenza, il nero, il colore della morte, delle tenebre, del nulla, è messo in scena ogni qual volta non-compare Bill, viene dato per assenza di luce, è il dominante degli abiti delle "Vipere".

 

Anche rispetto ai nomi Tarantino fa riferimento a una simbologia universalmente riconosciuta: nessun personaggio viene chiamato con il nome di battesimo, forse perché non esiste al di là dell'universo diegetico, forse perché rappresenta un archetipo piuttosto che una persona, forse perché ognuno di loro è una marionetta senza personalità e senza anima. L'associazione criminale capeggiata da Bill si chiama Deadly Viper Assassination Squad: la vipera è rappresentata nell'antico Egitto nell'atto di ingoiare i defunti e simboleggia pertanto il luogo nel quale si compie il trapasso dalla vita terrena a quella ultraterrena, dal mondo dei vivi a quello dei morti: compito della squadra è essenzialmente quello di uccidere. Tutti coloro che ne fanno parte sono chiamati con nomi di serpenti velenosi: sono esseri freddi, che strisciano dalle oscurità delle origini per dare la morte all'uomo, suo rivale.

Uma Thurman, ricostruendo linearmente il tempo, è stata Arlene Machiavelli, con un chiaro riferimento al letterato del Quattrocento italiano, Black Mamba, serpente mortale dell'Africa, e La Sposa: colei che, anche in vista del figlio che aveva in grembo, sta cominciando e dando origine a una nuova vita, che le viene però interdetta nel momento stesso della celebrazione. Chi è adesso non ci è dato sapere, tanto che le uniche volte che qualcuno la chiama per nome un intervento che si palesa come forte marca di enunciazione copre il sonoro con un "beep": non possiamo accedere alla sua identità, dal massacro del Texas non esiste più in quanto persona, è stata spogliata del figlio, della comprensione e della compassione e allora non possiamo percepirla se non come simbolo della vendetta contro cui nessuno può fare nulla: non si può avere alcun potere su una creatura senza nome che "oltrepassa sempre i limiti nei quali lo si vorrebbe confinare". Tarantino, e con lui Uma Thurman, pervengono quindi pienamente a ciò che Pirovano chiama Selfless-Ness:

 

La perdita della coscienza del sé nel gioco del linguaggio, nelle differenze di cui è costituita la realtà contemporanea. Il sé impersona continuativamente la sua assenza. Inoltre la stessa importanza attribuita ad ogni frammento narrativo impedisce qualsiasi tipo di introspezione psicologica dei personaggi che perciò risultano costituiti da più sé ciascuno dei quali non sovrapposto, ma giustapposto all'altro. Non più quindi una narrazione che spinge in profondità, ma al contrario una narrazione che si perde su diverse superfici. (2)

E così in questo labirinto narrativo Tarantino porta a compimento un'altra delle semine che aveva iniziato ne Le Iene: là Joe chiama ogni componente della banda con il nome di un colore per non svelarne l'identità; qui il colore diventa personaggio, l'identità si moltiplica e nel moltiplicarsi si dissolve, a favore non solo dell'azione, ma del valore simbolico di ciò che rappresenta.

In un universo in cui si assiste irrimediabilmente alla perdita di senso, alla decostruzione e ibridazione della forma, alla perdita del cosa a favore del come, questo film si aggrappa a degli archetipi per dare, se non proprio un significato, un indizio per l'interpretazione del testo, in cui lo spettatore deve farsi sempre più attivo.

(1) CHEVALIER J., GHEERBRANT A., Dizionario dei simboli, Milano, Ed. BUR, 2002
(2) PIROVANO F., L'itinerario dello spettatore postmoderno nei film di Quentin Tarantino, in www.fucinemute.it

 


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