Vogliamo anche le rose PDF 
Francesca Druidi   

ImageDopo Un’ora sola ti vorrei, in cui ripercorreva la dolorosa storia legata alla morte della madre, e Per sempre, riflessione tesa a indagare le ragioni che spingono alcune donne ad abbracciare una vita monastica, la regista milanese Alina Marazzi torna, con Vogliamo anche le rose, alla forma del documentario scelto come mezzo privilegiato per scrutare la dimensione femminile, facendo riferimento nel titolo allo slogan di protesta usato nel 1912 dalle operaie tessili nel Massachusetts (titolo anche della pellicola di Ken Loach, Bread and Roses). In questo caso, focus del discorso filmico sono le storie e le identità delle donne nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, in un periodo cruciale per il cambiamento dei costumi e della mentalità, attraversato da lotte familiari e politiche, personali e collettive per l’affermazione di diritti che, nel nostro paese, hanno stentato a trovare il giusto riconoscimento. 

Come ricorda la grafica, appena prima dei titoli di coda, in Italia, nel 1966, la contraccezione era considerata un reato contro la stirpe (la vendita della pillola viene, infatti, resa legale solo nel 1971) e, nel 1967, il diritto di famiglia assegna ancora all’uomo l’esercizio esclusivo della patria potestà. E mentre, nel 1970, viene approvata la legge sul divorzio, confermata dall’insuccesso del referendum abrogativo del 1974, bisogna aspettare il 1977 per la legge della parità sul lavoro, che sancisce uguali diritti e uguali salari, e il 1980 per l’abolizione del cosiddetto “delitto d'onore”. È una lista di date e di eventi significativi, quella compilata da Alina Marazzi al termine del film, che definisce l’arduo percorso a ostacoli verso la tutela della donna e dei diritti civili nel Bel Paese. Tra le date maggiormente salienti, il nuovo diritto di famiglia, la legge 194 sull'aborto, la violenza sessuale finalmente considerata un delitto contro la persona e non contro la morale. Vogliamo anche le rose trasforma in materia cinematografica le testimonianze profondamente intime e personali contenute negli estratti di tre diari provenienti dall’Archivio dei diari personali di Pieve Santo Stefano, scritti da tre ragazze senza volto, Anita, Teresa e Valentina, appartenenti ad ambienti e culture diverse, rispettivamente la Milano del 1967, la Bari del 1975 e la Roma del 1979. Diari letti e interpretati sul grande schermo da Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti. Le loro storie, rappresentative di esperienze e di battaglie vissute singolarmente ma esemplari delle rivoluzioni sociali in atto, declinano il primo strato narrativo del documentario, ossia l’universo privato delle donne negli anni chiave del boom economico e della contestazione. Anita, brava ragazza di una famiglia borghese della Milano bene, è castrata dalla cultura autoritaria e moralista, basata sulla stretta identificazione tra matrimonio e futuro, che le è stata impartita in casa, manifestando tutte le sue fragilità e il suo senso d’inadeguatezza nel rapporto con l’altro da sé, prima di tutto con gli uomini. Un blocco, psicologico e fisico, che le impedisce di vivere in maniera soddisfacente l’amore e il sesso, inibendole una piena e consapevole esperienza del suo corpo e della sua vita. Teresa deve, invece, fare i conti con una gravidanza inaspettata in un contesto esacerbato dalla mentalità con cui è cresciuta in provincia di Bari. “Per un’altra donna questo momento poteva essere di grande felicità. Ma non per me. Per me è la tragedia. Per me è la fine. Penso solo a mio padre, a mia madre, e che sarebbe meglio morire”, racconta Teresa. L’aborto (nel 1976 ancora illegale) avviene in modo clandestino in una Roma vista dalla protagonista come osservatrice distante, quasi nemica. L’aborto, argomento di discussione negli incontri con le compagne del collettivo, si tramuta, quindi, da materia astratta a fatto concreto e doloroso della propria esistenza. Che non sarà più la stessa. Valentina, militante femminista romana, tenta infine di conciliare la vita privata con l’impegno politico, trovando un costante compromesso tra l’attivismo e la sua storia d’amore con Francesco. In un momento d’intimità con il suo uomo, la giovane donna è costretta da un’emergenza – un ginecologo gambizzato da un commando di compagne – a lasciare il partner in una frustrante attesa. Ma Valentina è anche consapevole che la stagione delle battaglie sta volgendo al termine: “Siamo sconfitti, uomini e donne, dopo il '77 e penso che i veri effetti saranno lenti a insediarsi nelle nostre coscienze”.

Il movimento generazionale che, in quegli anni, ha inglobato concezioni private della vita, del mondo e dei sentimenti, fondendole in una visione collettiva, è stato colto da Alina Marazzi anche nella sua dimensione maggiormente pubblica, intrecciando il momento personale rappresentato dai diari con i materiali di repertorio dell’epoca, provenienti da archivi pubblici e privati, tra cui immagini delle Teche Rai e delle Cineteche di Bologna, Nazionale e del Friuli, i filmati storici dello Studio Moro e le significative sequenze del call center che la giornalista e scrittrice Brunella Gasperini aveva creato negli anni Settanta per le lettrici della rivista Annabella, dove alla lettura dei tarocchi si affiancava la consulenza psicologica sui temi della famiglia, dell’aborto, del divorzio e della politica. Con un sapiente montaggio, la regista milanese giustappone materiale pubblicitario, fotografico e documentario, super8 di famiglia, inchieste e dibattiti televisivi, interventi militanti, fotoromanzi (la storica rivista Grand Hotel), oltre ad animazioni d’epoca e originali, accostando un tale archivio multimediale nella direzione di un’interpretazione svincolata da una pura e cronologica ricostruzione storica per restituire il più possibile l’atmosfera, le suggestioni e le problematiche di quel periodo. L’obiettivo di Alina Marazzi è quello di ripercorrere e riscrivere la storia delle donne tra la metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, chiamando in causa anche le donne di oggi sul mantenimento delle battaglie conquistate e gettando così un ponte con il nostro presente altrettanto conflittuale e contraddittorio in tema di diritti civili. Come dimostrano il dibattito sorto negli ultimi anni attorno alla proposta di legge, tuttora irrisolta, sui DICO, cioè sul riconoscimento delle coppie di fatto, e sulle polemiche che gravitano a proposito della legge sull’aborto, messa più volte in discussione.

Nella dialettica tra sfera pubblica e privata instaurata dalla regista in Vogliamo anche le rose il piano di narrazione più intimo è quello maggiormente riuscito, grazie anche alla commossa empatia che le storie di Anita, Teresa e Valentina suscitano nello spettatore. Il femminismo e la coscienza delle donne sono rappresentate senza didascalismo e ideologismo, in virtù di un inventivo e originale lavoro di ricerca iconografica e delle fonti, ma soprattutto di montaggio, dagli esiti particolarmente evocativi e simbolici. L’aspetto più debole del documentario resta forse il momento in cui viene posto l’accento sulla dimensione storico-politico-sociologica dei fenomeni messi sotto la lente d’ingrandimento. Quando dall’individuale si passa al collettivo. Restano sullo sfondo le ragioni che hanno spinto le donne, a partire dalle loro esperienze, a darsi una coscienza collettiva di genere e a scendere in campo contro usanze opprimenti, e le difficoltà del percorso civile e sociale verso la conquista dei diritti civili, dalla difesa delle legge sul divorzio nel 1974 alla faticosa lotta contro l'aborto clandestino.


TITOLO ORIGINALE: Vogliamo anche le rose; REGIA: Alina Marazzi; SCENEGGIATURA: Alina Marazzi; MONTAGGIO: Ilaria Fraioli; MUSICA: Ronin; PRODUZIONE: Italia/Svizzera; ANNO: 2007; DURATA: 85 min.

 


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