TOFIFE 2007/Those Three, Aleksandra & Brick Lane: la guerra invisibile PDF 
Alessio Gradogna   

ImageC’è la guerra, la morte, la violenza, la tragedia. C’è la battaglia, il sangue, la polvere e il sordo rumore del dolore. C’è il war movie come rabbiosa esplosione di violenza e rincorse, distruzioni e vendette, stragi e follia (da Apocalypse Now a Platoon, da Full Metal Jacket a La sottile linea rossa). E poi ci sono le guerre che si vivono all’interno di sé, nella testa di chi mandato al fronte attende il momento del conflitto lasciando scorrere sulla propria pelle giorni e settimane interminabili, oppure si esercita in condizioni ambientali insopportabili bramando una libertà che non c’è più. La guerra che si sente e si nasconde, che si respira ma non si vede, e che accomuna alcune interessanti pellicole presentate al 25° Torino Film Festival nella sezione fuori concorso.

Dall’Iran arriva An Seh (Those Three), di Naghi Nemati. Un film straniato e straniante, interamente ambientato in una desolata landa ricoperta dalla neve. Un gruppo di soldati alle prese con un addestramento fatto di interminabili giornate vissute tra atroci camminate in mezzo a montagne accecate dal biancore, e ricoperte da una densa nebbia. La ribellione di tre di loro, stanchi, stremati, pronti alla fuga pur di porre fine a questa silenziosa tortura. Tre dissidenti che abbandonano il campo per correre verso l’evasione, salvo poi perdersi nell’infinita coltre bianca che li avvolge come un manto di morte. E poi a unirsi a loro una donna, incinta, abbandonata, una figura quasi fantasmatica che appare all’improvviso come un miraggio e che si unisce al manipolo di (anti)eroi nel tragitto verso una civiltà che pare essersi dissolta nel nulla. Nessun aiuto, nessun villaggio, nessun calore umano, nessun tizzone ardente a riscaldare membra e anime congelate dal freddo, un passo dopo l’altro in un sentiero infinito che può portare solo e unicamente verso il nulla. Gelo, neve, nebbia, figure indistinte, e un muro bianco e luccicante che ingoia per ottanta minuti lo schermo lasciando storditi e inebetiti. Un’esperienza cinematografica quasi surreale eppure affascinante e sorprendente, che permette di riflettere sull’immenso potere della Natura a discapito della piccolezza cosmica dell’animale-uomo.

ImageDalla neve alla terra riarsa, dall’isolamento a una solitudine diversa, fatta di attesa e fibrillazione per una battaglia imminente da cui non è possibile esimersi. Affezionato e consueto ospite del Torino Film Festival, torna Aleksandr Sokurov, con il suo il rigore stilistico, improntato questa volta alla rappresentazione di una guerra che devasta anche senza spingere il pedale sull’estetica della violenza. Con Aleksandra, nome della protagonista interpretata dalla cantante Galina Vishnevskaya, Sokurov dipinge con la consueta perizia il viaggio di una donna rimasta vedova che si reca in un campo militare in Cecenia per fare visita a suo nipote, un ufficiale, e rimane lì alcuni giorni, a recuperare un rapporto d’affetto che da tempo si era perduto, e a rendersi conto di quanto sia difficile, per questi giovani e coraggiosi ragazzi, vivere nell’attesa di una battaglia che logora ancor prima di iniziare. Nel nome dell’etica formale, di una messinscena al solito intensa e solo apparentemente ostica, e di una costanza narrativa che non lascia spazio a tempi morti e inserti non necessari, Sokurov si immerge nella sguardo stupito della sua protagonista, spettro vagante in una realtà permeata da una brutalità strisciante e per questo ancor più devastante.

Mentre la guerra priva di una casa e della libertà anche i protagonisti dell’israeliano Bufor, di Joseph Cedar, in cui i soldati presidiano una roccaforte in Libano sognando il ritorno alle proprie famiglie, il terrorismo internazionale amplifica le tensioni razziali in una periferia londinese in cui da tanti anni vive una famiglia emigrata dal Bangladesh, protagonista del riuscito Brick Lane, dell’inglese Sarah Gavron. Un film che si regge sul tema della ricerca di una patria, di un posto dove non solo essere a casa ma sentirsi a casa, per rimediare allo sradicamento forzato delle proprie radici, avvenuto in tenera età, quando la giovane Nazneen è stata costretta ad abbandonare l’India natia per andare in sposa a un uomo più vecchio di lei e trasferirsi in Europa. Una donna infelice, che in svariati inserti onirici ricorda la propria casa e sogna di tornarci, sposata a un uomo altrettanto infelice, che cerca invano la realizzazione di sé. Lei, progettare il ritorno in patria, accumulare i soldi necessari, e poi rendersi conto che troppo tempo è passato. Ormai la giovinezza è definitivamente perduta, i prati fioriti in cui correre insieme alla sorella volando come libellule sono una chimera, ma c’è una vita davanti, da vivere lì, con le figlie, dove già si è, e dove in fondo, nonostante i gesti di violenza del popolo londinese sconvolto dagli avvenimenti del settembre 2001, non si sta poi così male. E lui, invece, all’opposto, dopo tanti fallimenti e umiliazioni, negare l’asettica realtà londinese e abbandonare la famiglia per tornare a cercare la felicità laggiù, in quell’Eden lontano che però ancora lo aspetta. Nella casa di Nazneen, e intorno a lei, si muovono stati d’animo opposti, la mancanza e i ricordi, l’amore e il tradimento; sul suo dolce volto scorrono percezioni di una vita da comprendere e ritrovare, emozioni fotografate dalla regista con affetto e sensibilità tipicamente femminili.Image

Sepolti nella neve dell’Iran, frementi nell’attesa della battaglia in Cecenia o in Libano, divisi tra passato e futuro tra Londra e il Bangladesh: da un capo all’altro del mondo c’è la guerra invisibile, che scorre dentro e fuori, che penetra come una lama fino in fondo al cuore, e che, purtroppo, rischia di non abbandonarci mai.

 


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