L’amico di famiglia: la condanna dell’infelicità PDF 
Mario Bucci   

L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino è forse il film più debole nella decennale carriera del regista napoletano, iniziata con il lungometraggio L’uomo in più e recentemente approdata negli Stati Uniti con This Must Be the Place, sebbene anche in questo lavoro il regista abbia compiuto notevoli passi avanti, cercando soprattutto di lasciarsi alle spalle quelli fatti in precedenza (purtroppo non sempre con successo e su tutti i punti). In qualche modo, infatti, L’amico di famiglia è come se già vedesse oltre se stesso, alla ricerca di una vera indipendenza da quello che era stato il successo ottenuto con Le conseguenze dell’amore, il film che lo anticipa, e che in qualche modo segnava un percorso dal quale, lo stesso regista, ha cercato di uscire. In questo movimento, alla ricerca di qualcosa di nuovo ma sostenendosi a quegli elementi che avevano garantito al regista il meritato successo, la maggior parte delle continuità e delle volontarie discordanze sono quasi tutte presenti proprio ne L’amico di famiglia, pellicola decisiva e che per Sorrentino segna il suo punto di svolta, che lo sosterrà nel realizzare poi di quello che è ancora il suo miglior lavoro: Il divo.

In questa direzione, infatti, innanzitutto la vera natura de L’amico di famiglia: un dramma che potrebbe essere anche un noir alla luce del sole se ci scappasse il morto, con tanto di truffa, soldi e femme fatale. Una scelta di genere che lo rende un ibrido, e che non fa male al protagonista come accadeva invece a Titta di Girolamo e ai precedenti Antonio Pisapia, e che in questo senso condanna Geremia de’ Geremei (questo il nome del protagonista) alla stessa vita che egli stesso si è costruito, fatta di rammarichi e all’ombra di un padre dal quale non ha preso nulla (se non i cinquanta euro finali). Alla morte del protagonista, il regista Paolo Sorrentino sostituisce l’umiliazione di continuare a vivere. Come vedremo, è questa però forse l’unica sostanziale variante sullo stesso tema. Abbandonando per un attimo il protagonista, invece, si accede a un dramma collettivo sul denaro e i sogni che lo stesso sottrae piuttosto che garantire. Si tratta infatti di personaggi che per i soldi trasformano i propri sogni in incubi (un matrimonio, una casa, un gioco, il sesso) e che coinvolge tutti, nessuno escluso, vittime e carnefici. È una parabola sul denaro dunque, capace di toglierti tutto e garantirti solo il suo ultimo pensiero: uno strozzino che non farebbe paura a nessuno (interpretato a sorpresa dall’ottimo Giacomo Rizzo) se non fosse che lui è dalla parte del capitale, al quale tutti si rivolgono anche se non ne hanno davvero bisogno (il dialogo tra l’orgoglioso padre e sua figlia, nella scena in cui parlano delle spese matrimoniali, nel bagno di casa). Come ne Le conseguenze dell’amore il denaro rende infelici e non risolve i problemi: è lo stesso Geremia (questo il nome dello strozzino) a lamentarsi continuamente della sua condizione di reietto, uomo sfortunato nel fisico, malconcio ed impresentabile, che la vita lo ha obbligato a concentrarsi solo sui soldi, ma che nemmeno lui riesce a godere. E allora, come era accaduto a Titta, troppo attento alle regole del proprio mondo, anche Geremia (attento a come risparmiare su tutto, a mettere da parte cioccolatini rifiutandoli ai bambini) accade di incontrare una donna, una neo sposa, e perdere testa e cassa per lei. A fare il gran colpo questa volta però è Gino, un outsider che vive in un camper incidentato e che sogna l’America senza davvero rincorrerla, un uomo che vive di musica country (il carrello con il quale Sorrentino lo introduce è da brividi) ma che non ha cavalli, e che gestisce un locale facendo da spalla agli affari di Geremia, e che alla fine si scopre essere l’unico in grado di truffare tutti. Una scelta narrativa che Sorrentino (come sempre autore anche del soggetto e della sceneggiatura) sembra proporre come variante sul tema, facendolo sparire come accade a chi realizza il proprio sogno (che ne Le conseguenze dell’amore condannava invece il protagonista a sparire nel cemento). È proprio nella costruzione di questo inganno però che il film ha forse il suo punto più debole (e questo si evince anche dal montaggio, più frammentato e meno lineare) un raggiro un po’ troppo complesso nel suo meccanismo da un milione di euro.

In questo film Sorrentino riprende e ripete anche non pochi elementi che lo avevano portato al successo con il precedente Le conseguenze dell’amore (un unico protagonista, il denaro al centro del suo mondo, l’incontro fatale con una donna, e un raggiro come "elemento conclusivo" della narrazione) scegliendo questa volta di abbandonare un’elegante stanza d’albergo per portarci in un più squallido appartamento condiviso con una madre incapace di alzarsi dal proprio letto. Più che un film a se stante, infatti, L’amico di famiglia sembra la versione meno romantica de Le conseguenze dell’amore, una seconda visione dello stesso fatto, questa volta più colorita e meno contenuta, ma comunque troppo simile a quella precedente. Basti pensare ai due protagonisti: un misurato Toni Servillo, dalle movenze quasi impercettibili, e un Giacomo Rizzo che deambula con una busta appesa a un braccio ingessato e che succhia cioccolatini con l’avidità dei bambini che non possono permetterseli, entrambi condannati all’infelicità del denaro. In altre scelte minori si sentono invece le influenze de L’uomo in più (primo lungometraggio di Sorrentino), come nel dialogo iniziale, dove alla ramanzina dell’allenatore viene sostituita quella per il matrimonio, o come nella scena del ballo di Laura Chiatti che ricorda quella della figlia della padrona di casa mentre il calciatore e l’avvocatessa fanno sesso nella camera da letto. 

Visivamente, poi, L’amico di famiglia è imbarazzante per eleganza e per l’abbondanza dei movimenti della macchina da presa, per l’uso esasperato dei rallenty, dei carrelli, della ricerca di una composizione del fotogramma sempre più formale (a volte anche non coerente con la storia), sublime in qualsiasi momento del film. È un film che fa dunque dell’estetica e del carattere dei suoi protagonisti il suo vero punto di forza, e che si perde nella credibilità della sceneggiatura (la penna di Sorrentino si sente soprattutto quando Geremia incontra "accidentalmente" i due manager travestiti da gladiatori), come se attraverso un elaborato aspetto visivo il regista abbia cercato di sostenere un troppo elaborato complesso narrativo, meno credibile delle immagini che lo rappresentano. L’amico di famiglia rimane comunque uno dei migliori esempi di cinema italiano, sostenuto anche da una colonna sonora "internazionale" (composta da Theo Teardo e che si avvale anche di splendidi brani di Anthony and the Johnsons), che ha mostrato i suoi limiti narrativi (il film presentato a Cannes tornò infatti in sala di montaggio) riuscendo a nasconderli il più possibile grazie proprio alle capacità tecniche e visive di quello che è uno dei maggiori registi italiani di nuova generazione. Più che un film dunque, più che la seconda parte di un percorso iniziato con Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia sembra la preparazione al vero successo del regista, Il divo, il lavoro che seguirà, dove la condanna dell’infelicità troverà una coerente unione tra forma e sostanza.

TITOLO ORIGINALE: L’amico di famiglia; REGIA: Paolo Sorrentino; SCENEGGIATURA: Paolo Sorrentino; FOTOGRAFIA: Luca Bigazzi; MONTAGGIO: Giogiò Franchini; MUSICA: Teho Teardo; PRODUZIONE: Italia/Francia; ANNO: 2006; DURATA: 110 min.

 


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