Festival Internazionale del Film di Roma PDF 
Viviana Eramo   

Stupore e più di qualche perplessità lascia dietro di sé, anche quest’anno, il Festival Internazionale del Film di Roma, giunto alla sua quarta edizione. Nato dall’idea di Veltroni di istituire una grande festa del cinema nella città eterna, che, paradossalmente, rimaneva orfana di fronte a Torino e Venezia di un evento che celebrasse la settima arte, la manifestazione, ribattezzata Festival dal giurassico Luigi Rondi, rimane ancora una volta, anche quest’anno, solo una sorta di grande e rumoroso party. Non lo diciamo solo perché è la stessa Piera Detassis (unico direttore artistico di questa edizione) ad ammetterlo nell’ultima, liberatoria conferenza stampa, e nemmeno perché, nel seppur esiguo numero di quattro edizioni, questo grande evento che colora di rosso tanti spazi della capitale e che attira su di sé grande attenzione da parte dei media, non ha ancora scelto una sua vera identità. Lo affermiamo soprattutto perché crediamo che oltre al glamour dei red carpet, degli ospiti internazionali, del clamore mediatico, l’ossatura vera di un festival, ciò che servirebbe ad assegnargli non solo un’identità e quindi una riconoscibilità, ma pure una certa credibilità, dovrebbe risiedere nelle scelte che esso compie, in ciò che decide di offrire, ospitare e presentare e, infine, nei modi in cui fa tutto ciò. Se infatti il festival non ha mancato, nemmeno in quest’ultima edizione, di prestare fede all’intento originario, dimostrandosi accessibile al grande pubblico, agli accreditati e agli addetti ai lavori, rimangono dubbi sul valore di ciò che quest’evento possa offrire a chi, più o meno in massa, vi accede.

L’idea che il grande pubblico possa avvicinarsi alle inarrivabili star non solo affollando il red carpet, ma pure accedendo, previo acquisto del biglietto in considerevole anticipo, agli incontri coi divi del cinema, non c’è che dire è “cosa che succede solo al Festival di Roma”. E che ben venga, in un momento poco democratico come il nostro, che un fan qualsiasi possa alzare una mano e porre una domanda al suo beniamino, senza passare per Facebook. Ben venga che ogni giorno il red carpet sia stato più affollato di un mercato rionale, o che il glamour bivacchi allegramente sul tappeto rosso e nelle sale: a noi francamente non dispiace, soprattutto se vige una certa silenziosa selezione su chi possa accedervi, perché ciò che è successo quest’anno al Festival di Venezia, con Noemi Letizia & Co., vorremmo non si ripetesse. Il rischio, però, è che si finisca col ridurre la manifestazione ad una gigantesca vetrina senza sostanza, perchè la sostanza, da sempre, è la qualità dei film, la scelta dei quali dovrebbe corrispondere, nel migliore delle ipotesi, a un’idea di cinema.

Il concorso, prima di tutto. Che il Festival di Roma arrivi per ultimo nella spartizione della torta delle pellicole, sembra impressione quest’anno confermata più che mai. L’andamento della selezione ufficiale, infatti, è stato piuttosto fiacco, con eccezioni solo rarissime. Il balletto inizia con Triage del regista bosniaco Danis Tanovic. Il film, soprattutto nella seconda parte, soffoca sotto il gusto per un certo didascalismo, che imbriglia le tematiche della guerra, del senso della colpa e dell’amicizia, dentro schematismi psicoanalitici o pseudo-tali, vanificando le buone suggestioni della prima parte. Nemmeno le ottime interpretazioni di Colin Farrel e di Christopher Lee riscattano in pieno la pellicola, che apre così il concorso dettandone, forse inconsapevolmente, l’andamento. Già, perché i film della selezione ufficiale sembra si siano accontentati, per lo più e nei casi più fortunati, di raggiungere la sufficienza, senza prendersi il rischio di osare. Come per esempio succede per Brotherhood, pellicola premiata dalla Giuria Internazionale, che l’ha forse scelta per un certo rigore formale e fotografico. Ma l’esordio dell’italo-danese Nicolo Donato, che sceglie di raccontare una storia d’amore omosex in un contesto così estremo come quello dei gruppi neonazisti, senza che la storia ne guadagni in novità, o riesca a dirci qualcosa che già non sapessimo, perpetua la sensazione che il film sia solo un esercizio portato bene a termine, ma senza il minimo guizzo. Commento che si adatterebbe, in parte, anche al film di Michael Hoffman. Ma The Last Station ha in più dalla sua la capacità non banale di restituire un ritratto di Tolstoj colmo di ironia e di vivace vitalità, complice un’interpretazione schizoide di Helen Mirren, che conferma il suo talento, premiato tra l’altro, proprio con il Marc’Aurelio. L’Italia, da parte sua, schiera in concorso l’amore saffico di Viola di mare e l’amore paterno di un Castellitto superlativo (premiato anche’egli col Marc’Aurelio), nel controverso Alza la testa di Alessandro Angelini. Reduce dalla presentazione de L’aria salata proprio al Festival di Roma del 2006, il regista romano torna con un  film teso, dalla regia sporca, con risultati che difficilmente si vedono nel nostro cinema. Angelini si conferma un regista dal respiro autoriale, ma la sua creatura sferra un colpo di coda nel finale (e non a metà, come in molti sostengono) che forse incrina, e non poco, il risultato. Pericolo che non corre certo L’uomo che verrà, che si è aggiudicato il Marc’Aurelio d’argento della Giuria e il Premio del Pubblico, opera solida firmata dal Giorgio Diritti de Il vento fa il suo giro, che qui mette le mani nella storia nostrana raccontando con molto rigore la tragedia di Marzabotto. Ma a parte l’interessantissimo Dawson Isla 10, firmato dal regista cileno Miguel Littin, che ricostruisce con un prologo fulminante la prigionia dei funzionari e ministri del governo Allende dopo il colpo di Stato dell’11 settembre  1973, il vero e unico colpo di fulmine di questo fiacco concorso rimane Up In The Air di Jason Reitmen. Dopo aver già vinto con Juno a Roma nel 2007, il regista conferma il suo talento confezionando una commedia amarissima sull’America di oggi. Rimettendo in piedi un’operazione furbetta almeno quanto lo fu Thank You For Smoking, Reitman, coaudiuvato da una sceneggiatura eccellente, che non perde spessore nemmeno nella vischiosissima parte finale, ci regala un film capace di essere non solo una riuscitissima commedia, con protagonista George Clooney, ma pure un’opera spietata, quasi catartica.

Cosa dire poi dei film fuori concorso? La (non) sezione anarchica ed eterogenea per eccellenza sembra raccogliere nomi e pellicole che non trovano posto all’interno del concorso, ma anche qui è difficile rintracciare anche solo una lontanissima parvenza di rigore nelle scelte. Come spiegare la presenza, in una stessa sezione, dei Coen vicino a Lucini, accanto a sua volta a Mihaileanu e all’esordio da regista di Stefania Sandrelli, a fianco alla versione cinematografica made in Japan di Astro Boy? La schizofrenia sarebbe pure ben accetta, se non si avesse avuto fortemente la sensazione, ancora una volta, di veder trasformato l’auditorium in una gigantesca vetrina da centro commerciale che indiscriminatamente cerca di vendere al meglio i suoi prodotti. Così rimaniamo delusi a vedere il bel Le Concert, uno dei pochi film davvero degni di nota dell’intera selezione ufficiale, fuori dalla competizione accanto, per esempio, al più che deludente Io, Don Giovanni di Carlos Saura o all’“antiquato” (ancora una volta) James Ivory di The City of Final Destination. Il film di Mihaileanu, – che racconta la strampalata avventura degli ex membri di un’orchestra russa protagonisti di un ultimo concerto a Parigi, luogo del riscatto dalle ingiustizie politiche e sociali che subirono all’epoca dell’unione Sovietica – riesce, meglio di quanto invece non si dimostra capace Saura, a far della musica in scena, centro tematico e concettuale di entrambi i film, un canale fondamentale dello sviluppo drammaturgico. E ancora, tra Hachiko: A Dog’s Story, il film strappalacrime firmato Hallström con Richard Gere, che in carne e ossa è stato protagonista di un incontro col pubblico (gli altri sono stati dedicati ad Asia Argento, Meryl Streep, premiata con il Marc’Aurelio alla carriera, a Paulo Coelho e al confronto tra Muccino e Tornatore) e l’ultimo film del regista cinese Zhuangzhuang Tian, a ben figurare incredibilmente, è l’ultima fatica del “regista sempre tre metri sopra il cielo”, Luca Lucini. Sulla carta, c’è poco da dire, ci siamo dovuti rassegnare ancora una volta alle scelte di un Festival che sembra più guardare ai clamori del red carpet che alla qualità delle pellicole proposte. Poi, però, nell’abnorme Sala Santa Cecilia abbiamo assistito alla proiezione del film, con tanto di cast super applaudito dalla platea. Così, dopo la visione abbiamo dovuto concludere che Oggi sposi potrebbe essere eletta la pellicola maggiormente rappresentativa del Festival, in tensione tra un remunerativo intrattenimento popolar-commerciale e l’ansia di dover disegnare, in ogni caso, un ritratto se non credibile, quanto meno vicino alla realtà del nostro belpaese. Così, lontano dai cine-panettoni, come pure dalla comicità e dalle suggestioni di Aldo Giovanni e Giacomo o Ficarra e Picone, Lucini trova, soprattutto nel confronto/scontro tra tradizioni pugliesi e ortodossia indiana, uno spunto piuttosto felice, capace da solo di sostenere l’intera baracca, nonostante le altre situazioni di contorno siano piuttosto sbrindellate. Ma, sollevati dall’aver sventato il pericolo di dover rintracciare echi vanziniani e pingitoriani, avremmo dovuto davvero rallegrarci fino in fondo di questa festa che se cerca, riuscendoci, il contatto con il grande pubblico, dimostra di possedere solo quantità e poca qualità da offrirgli?

Le sezioni collaterali. Quest’anno, finalmente, la sezione "Extra", a cura di Mario Sesti, guadagna un po’ di visibilità e attenzione da parte dei media, fin troppo sintonizzati sul red carpet romano. Vero e proprio fiore all’occhiello, nonché quasi suo estremo opposto, "Extra" ci ha ricordato, ancora una volta, la sua natura “altra” rispetto alle scelte e alla condotta dell’altra parte del festival. In quest’edizione, la sezione, ricca di proposte, ha guardato con attenzione alla produzione documentaria italiana e internazionale. "Extra" ha presentato, per esempio, un Ermanno Olmi alle prese con Le rupi del vino valtellinesi, sulle quali il regista lombardo getta uno sguardo pieno di poesia, confezionando un prodotto godibile e coinvolgente, seppur non immune da qualche deriva da spot pubblicitario. Per rimanere in Italia, Claudio Giovannesi, già autore del piccolo ma interessante La casa sulle nuvole, rinnova il suo interesse antropologico per l’identità culturale e l’integrazione con Fratelli d’Italia. Ne L’Italia del nostro scontento, invece, Elisa Fuksas, Francesca Muci e Lucrezia Le Moli disegnano, attraverso interviste a gente comune, artisti e studiosi, un ritratto abbastanza impietoso del nostro (non più) belpaese. Tenendo meglio il ritmo nelle prime parti, piuttosto che nell’ultima, il documentario racconta i tanti dolori dell’Italia di oggi, non senza che ci si ritrovi nelle tante affermazioni scomode pronunciate dagli intervistati. Maggiormente autoreferenziale il lavoro di Salvatore Nocita su Antonio Ligabue – uno dei tanti documentari sull’arte e sugli artisti che hanno rappresentato un interessante leitmotiv di "Extra" –, che alterna immagini dello sceneggiato Rai di trent’anni fa sull’artista con Flavio Bucci al ritorno dell’attore nei luoghi della storia del grande Antonio, le cui opere rimangono il prodotto di un genio assoluto. Sul fronte internazionale, invece, abbiamo trovato, per esempio, il poco riuscito Pin 2011 Recollection of the Street, anche questo su di un artista fuori da ogni schema che applica per le strade graffiti cartacei e figure 3D. Interessantissima la materia messa al centro dell’azione, ma il documentario perisce sotto l’assenza del minimo estro registico. Tutt’altra storia per Severe Clear, agghiacciante film sulla guerra in Iraq, vincitore insieme a Giovannesi di una menzione speciale per il miglior documentario. Sul fronte dei film di fiction, "Extra" ha proposto più di qualche chicca, come Bunny and the Bull, gustosissimo viaggio nella mente del protagonista, all’insegna di un’immaginazione visionaria e schizoide che fa di questa pellicola inglese un piccolo gioiello, e come Corked!, simpatico, ma non eccellente mockumentary che si burla della cultura del vino dilagante negli Stati Uniti. Seppur quest’anno non siamo incappati in film memorabili targati "Extra", come successe l’anno scorso, per esempio, con lo splendido Man on Wire, la sezione curata da Mario Sesti continua a possedere ciò che sembra mancare alla selezione ufficiale. Si continua a sentire, anche nei suoi risultati più involuti, come l’americano The Afterlight, un progetto, un’idea, una ricerca e un rigore.

Promozione quasi a pieni voti per la sezione "Alice nella città", che a giudicare dai risultati dell’anno passato, ha davvero fatto il salto di qualità. Abbandonato il gusto televisivo e il perbenismo che affligge un genere difficile come il cinema per ragazzi, e che spesso affiorava instancabile durante l’edizione passata, quest’anno la sezione ha presentato soprattutto film di pregevole fattura, sovente molto ben fotografati e diretti. L’inglese The Be All and End All, per esempio, racconta la bizzarra storia di un ragazzino a cui viene diagnosticata una malattia cardiaca incurabile, il cui ultimo desiderio è quello di riuscire a non morire vergine. Il suo migliore amico, così, cercherà di aiutarlo nell’“impresa”, dando vita a gustose gag, in un film dal perfetto equilibrio tra dramma e ironia, che piega il genere demenziale (americano) a risultati inaspettati. La sezione così si è dimostrata vicinissima alla realtà dei ragazzi e ragazzini, declinando temi a loro cari, come nel caso di Prinsessa, film svedese che mette al centro un’adolescente piuttosto grassottella che vuol fare l’attrice e che dovrà scontrarsi con la difficoltà di far accettare la propria immagine e la propria diversità: se la pellicola non è un capolavoro, evita in ogni caso le banalità del caso e colpisce nel segno. Film dalla cornice più prettamente storica, Winter in Wartime, in corsa per l’Oscar come miglior film straniero e vincitore di uno dei due premi "Alice nella città", racconta la perdita dell’innocenza di un ragazzo di tredici anni durante la seconda guerra mondiale, con l’aiuto di un’eccellente direzione della fotografia, che è un piacere per gli occhi. Più deludenti Skellig, favola dark-fantasy con Tim Roth, e Mar Piccolo del nostro Alessandro di Robilant, che tenta di raccontare la vita difficile di un adolescente di Taranto tra spaccio di droga, una normalità che non c’è e il sogno di fuggire. Il film funziona meglio quando riesce a raccontare le azioni di un ragazzo che tenta di fare l’adulto in un brutto mondo, rimanendo nell’anima un’adolescente, ma subisce tutto il peso di molte ingenuità registiche e di sceneggiatura. Che ragazzi e ragazzini abbiano potuto vedere le pellicole di "Alice nella città", non può che averci rallegrato. Vederli, poi, urlare come pazzi, al passaggio dei protagonisti di New Moon, che ha replicato l’operazione della presentazione di Twilight dell’anno passato, con soli 15 minuti di anteprima proiettati al Festival, ci ha fatto sorridere molto meno. Del resto, lo si sa, sono i giovani e giovanissimi a tirare su gli incassi, ma, per fortuna, il tentativo educativo di "Alice nella città" quest’anno sembra molto meno abbozzato dell’edizione passata.

Non vanno dimenticati, infine, i molti eventi speciali che hanno animato il Festival. Per esempio la presentazione di Parnassus - L’uomo che voleva ingannare il diavolo di Terry Gilliam, che fa da spalla ad un altro evento di “Extra”. Sono stati proiettati, infatti, alla presenza di alcuni esponenti di The Masses, diversi corti del collettivo di artisti il cui mecenate fu il compianto Heath Ledger. L'attenzione del festival si è posata anche su produzioni televisive particolarmente meritevoli, come l’interessante Red Riding, crime thriller in tre capitoli firmati da Julian Jarrold, James Marsh e Anand Tucker, e il nostrano L’uomo dalla bocca storta. Quest’ultimo, firmato da Emanuele Salce e Andrea Pergolari, andato in onda su Sky il 23 ottobre scorso, è un delizioso documentario sul quel grande personaggio che fu Luciano Salce. Il film, prodotto dalla Rai, restituisce in pieno la trasversalità di uomo di spettacolo divertentissimo e dal talento straordinario, ancora oggi capace di parlare di noi.

Ecco dunque il ritratto di un Festival disomogeneo, immaturo, che, se ha intenzione di crescere, dovrà decidere quali strade prendere. Che continui pure ad essere una festa, ma nel senso che provi a renderci felici, che trovi una sua credibilità, che risponda ad un progetto, ad un’idea. Questo ci auguriamo di scoprire nella prossima edizione, di cui, tra l’altro, si conoscono fin da ora le date.

 


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