Lo specchio PDF 
Fabio Fulfaro   

La verità era uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendo riflessa la propria immagine, credette di possedere l’intera verità.
(Mevlana Rumi)

Dopo il debutto fortunato del 1995 con Il palloncino bianco, Jafar Panahi ci riprova e dopo due anni tenta di girare un altro film, sempre con protagonista la bambina rivelazione Mina Mohammad Khani, per avere ancora una volta il pretesto di aggirare la censure del regime iraniano e parlare delle condizioni di vita nella Teheran degli anni Novanta. Come per il governo italiano il nostro cinema neorealista del dopoguerra aveva l’imperdonabile torto di non lavare i panni sporchi in casa propria, così Jafar Panahi paga il coraggio di puntare il dito contro i fondamentalismi e le limitazioni della libertà delle dittature integraliste falsamente travestite da repubbliche presidenziali. La condizione femminile, la povertà, le discriminazioni, la purezza incontaminata del mondo dell’infanzia, la repressione della polizia, sono tutti temi che ritornano prepotentemente in ogni sua opera. Ne Lo specchio il discorso sociale si arrichisce di una valenza metacinematografica, con un rapporto ambivalente tra la realtà e la finzione.

La piccola Mina esce di scuola e non trova nessuno a prenderla. Decide allora di tornare a casa con l’autobus, ma sbaglia direzione finendo all’altro capolinea. Mentre si stanno girando le riprese sul bus, Mina sbotta improvvisamente: si toglie il velo, si stacca la falsa ingessatura e decide di ritornare a casa per una festa. Dopo un primo momento di scoramento, approfittando del fatto che il microfono è rimasto in funzione, Jafar Panahi decide di continuare le riprese, spiando la bimba nel suo avvicinamento verso casa. L’originalità del film, vincitore del Pardo d'Oro al Festival di Locarno del 1997, sta proprio in questa identificazione del cinema come specchio fedele della vita: dal momento in cui Mina, in un gesto di ribellione stupendo e silenzioso, decide di abbandonare l’artificiosità della messa in scena e di abbandonare il set sotto lo sguardo allibito del regista, dell’operatore e del tecnico del suono, la finzione cinematografica diviene realtà documentaria. Non cambia tanto il rapporto della bambina con il mondo degli adulti, sempre distante, sempre poco propenso ad ascoltarne la voce, né cambiano i suoi atteggiamenti, sempre caratterizzati dalla curiosità dei suoi occhi vivaci e dalla testardaggine delle sue azioni controcorrente (come ne Il palloncino bianco). Quello che muta è proprio il meccanismo cinematografico che viene scosso da questa irruzione della realtà, da questo eccesso di naturalismo in presa diretta che fa traballare le immagini, le rende fuori fuoco, ne distorce i suoni, ne zittisce i microfoni. In questo gesto di ribellione che fa fermare apparentemente il gioco del cinema, Jafar Panahi suggerisce anche un equivalente sociopolitico, nell’immagine di un paese ingessato in un medioevo culturale che forse portrebbe insorgere e far crollare la messa in scena del regime, mostrando a testa alta la propria opinione. Un paese dove ci sono ancora matrimoni combinati a distanza (che naturalmente falliscono), in cui le donne salgono dalla parte posteriore di un bus e gli uomini da quella anteriore, in cui il denaro diventa importante mezzo di sopravvivenza, in cui il calcio ipnotizza i cittadini distogliendoli dai veri problemi (seguiamo in diretta radifonica la partita SudCorea-Iran), dove ci si affida alla chiaroveggenza per provare a inventarsi un futuro migliore.

Panahi mostra una sicurezza sorprendente nel gestire l’attrice bambina e i lunghi piano sequenza: memorabile quello iniziale che prende il via dal suono acuto della campanella di scuola e procede in maniera circolare seguendo i bambini, poi un vecchietto che prova a districarsi nel traffico caotico di Teheran, altri passanti che conversano sulla radiocronaca di una partita di calcio, per poi ritornare al punto di partenza. Una circolarità (ripresa nel capolavoro Il cerchio) che sottende l’inevitabile ripetersi del destino di queste vite, costrette a fare i conti con gravi risrettezze economiche ma sempre con un richiamo orgoglioso alla dignità che fa commuovere. Esemplare poi la scena dell’invito al matrimonio e del conseguente rifiuto ad indossare vestiti prestati, o quella della vecchina costretta a mettersi da parte per non trasmettere alla nipotina il suo accento poco lusinghiero. Come ne Il palloncino bianco, la sensazione più lacerante è quella della solitudine del mondo dell’infanzia. Molte domande restano senza risposta, mentre gli adulti perdono il loro tempo in discorsi sciocchi o in pettegolezzi, e così alla povera Mina, che guarda questi adulti come animali un po’ strambi (l’episodio del canto collettivo sull’autobus), non resta che il silenzio, stizzito e rassegnato. Mina sembra un uccellino in gabbia, in una cabina telefonica certo non a misura di bambino, in un autobus dove viene rimproverata perchè non cede il posto o perchè non conosce il nome della piazza dove deve arrivare. Alla fine tra le imposizioni della sceneggiatura e gli ordini ruvidi del regista e della sua troupe, Mina decide di aprire lo sportellino della gabbia e volare via.

È evidente (qui come altrove) l’influenza di autori come Kiarostami, De Sica, Rossellini: il tentativo di Jafar Panahi è proprio quello di aderire il più possibile al vero, portando lo spettatore a partecipare emotivamente al destino dei personaggi e nel frattempo indurlo a riflettere sull’irrazionalità e sul paradosso di certe situazioni. Girando proprio nel cuore della capitale iraniana, spesso in piano sequenza, con un suono in presa diretta che amplifica la sensazione di trovarsi proprio in mezzo al traffico caotico della città (voci vicine e lontane, urla di venditori, sirene delle onnipresenti macchine della polizia, clacson impazziti), prendendosi tutto il tempo necessario per registrare azioni e reazioni, piccoli turbamenti ed eloquenti silenzi, Panahi costruisce un percorso minimalista che parte dalle piccole cose e, attraverso un tragitto che è insieme maturazione e formazione, ritorna al punto di partenza, con le stimmate dell’esempio universale. Proprio ne Lo specchio il ribaltamento tra quello che sta davanti e dietro la macchina da presa fornisce la chiave di lettura di tutto il cinema neorealista iraniano, che riflette non solo sulla realtà che lo circonda, ma si interroga sulla propria funzione civile e sociale.

È chiaro quindi perchè proprio Panahi si trovi attualmente chiuso in carcere con l’impossibilità a dare forma alla sua voce di protesta (l’ultimo lungometraggio è Offside del 2006, distribuito solo nel 2011 in Italia, ma a Cannes quest’anno è atteso un suo film-sorpresa). Il suo cinema non mostra solo una realtà insostenibile agli occhi di qualunque spettattore (di qualsiasi parte del mondo), ma mostrando i meccanismi della messa in scena svela il grande inganno dei manipolatori della verità, delle propagande di regime, dei violentatori delle coscienze che da sempre usano il terrore e l’ignoranza per governare i popoli. Quello che fa paura di Panahi non è tanto ciò che mostra, ma è la presa di coscienza che fa sorgere in qualsiasi spettatore dotato di sensibilità e intelligenza. Così seguiamo la piccola Mina fino alle soglie della porta di casa e registriamo con un sorriso l’ultimo goffo disperato tentativo di riportarla dentro il film. Ma Mina chiude la porta e le ultime sue parole si perdono nell’errato funzionamento del microfono: la bambina torna alla sua vita e non la sottopone allo sguardo altrui, in un gesto di autonomia decisionale e autodeterminazione, un esempio di dignità e libertà. Noi speriamo che la porta della prigione, invece, si possa aprire e che dignità e libertà possano essere restituite a Jafar Panahi: per potergli consentire di continuare a fare il suo mestiere mostrando, tra gli innumerevoli riflessi di specchio filmati, il suo pezzo di verità.

TITOLO ORIGINALE: Ayneh; REGIA: Jafar Panahi; SCENEGGIATURA: Jafar Panahi; FOTOGRAFIA: Fardat Jodat; MONTAGGIO: B. Ardalan; PRODUZIONE: Iran; ANNO: 1997; DURATA: 95 min.

 


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