The Boxer PDF 
Marco Doddis   

Raramente un film di argomento sportivo, in particolare sul pugilato, si è limitato all’indagine del mero fatto tecnico-agonistico. The Boxer, opera quarta dell’irlandese Jim Sheridan, non pare sfuggire a questa tendenza, zeppo com’è di tutti quegli elementi convenzionali che abitualmente arricchiscono le vicende pugilistiche del grande schermo: travagliata storia d’amore, riscatto sociale di un outcast, ascesa-caduta (o caduta-ascesa) dell’eroe solitario.

La storia di Danny Flynn (Daniel Day-Lewis), promessa del ring che cerca un nuovo inizio sul piano pubblico (apre una palestra tutta sua) e su quello privato (riallaccia i rapporti con la vecchia fidanzata), dopo quattordici anni di carcere, si inserisce dunque perfettamente in un filone già ampiamente collaudato. Ciò che rende originale The Boxer è invece la sua ambientazione, quella cornice narrativa che è ben più di un semplice ornamento. L’irishman Sheridan ci parla di Irlanda, di Ulster, di IRA, addentrandosi con la dovuta circospezione in un terreno accidentato come quello dell’analisi socio-politica. Il suo discorso è semplice ma non semplicistico, di parte (il regista è cattolico e sta con gli irlandesi cattolici) ma non settario. La bandiera prediletta è quella della pace, che l’autore vorrebbe si potesse sventolare dopo anni di guerriglie intestine. E l’exemplum indicato è proprio il protagonista del suo film: Danny, che ha pagato con la galera e con la perdita degli affetti la sua militanza nell’IRA, ha deciso di voltare pagina, di superare le rigide logiche di appartenenza per diventare davvero un uomo libero, padrone di se stesso e del proprio destino. Ma la comunità non accetta, non può accettare che un vecchio adepto esca dalla propria trincea ideologica. E fa di tutto per rendergli la vita difficile, osteggiando il suo amore per Maggie (Emily Watson), l’ex fidanzata andata in sposa ad un altro prigioniero politico durante la detenzione di Danny.

A questo punto, appare chiaro che The Boxer è tutto fuorché un film sulla boxe, almeno in senso stretto. Il nucleo tematico dell’opera risiede nell’antinomia guerra/pace che si dispiega nel percorso narrativo del protagonista. La vicenda di Danny dimostra quanto lo sport, anche quando è violento, possa assurgere a veicolo di pace, a strumento di unione: non a caso, la palestra del pugile accoglie sotto lo stesso tetto protestanti e cattolici. All’uscita della pellicola, nel 1998, Sheridan rilasciò una dichiarazione sintomatica a proposito della capacità della boxe di assorbire quanto di meglio esiste nella guerra (un codice d’onore, il rispetto per il nemico), prima che essa degeneri in terrorismo: “Sul ring – spiegava il regista – Danny combatte secondo le regole, nella speranza che, se rimane in piedi e combatte pulito, spingerà la gente a considerare l’aspetto più nobile della lotta. D’altra parte, quando questa si trasforma, diciamo, da guerra in terrorismo, ciò avviene perché si sono perse di vista le regole e la gente non ha più idea di ciò che desidera dal proprio futuro. Danny invece ha una visione positiva di ciò che si può raggiungere se si combatte seguendo delle regole”.

Nel corso della vicenda, la “missione” di Danny, il suo fare a pugni per la pace, incontra l’ostacolo più duro nel momento dell’incendio alla palestra, appiccato, durante una notte di disordini, da Liam, il figlio di Maggie. Il protagonista, però, invece di lasciarsi inghiottire dalla spirale di violenza, decide di fuggire  per un breve periodo a Londra. E proprio dalla capitale inglese, Danny impartisce alla sua gente la più significativa delle lezioni, risparmiando da un sicuro massacro un avversario in difficoltà sul ring e lasciandogli la vittoria proprio quando è sul punto di batterlo. La scena è una delle più intense di tutto il film, anche per merito di uno Sheridan capace di non inciampare sugli scalini della retorica e del buonismo. Al di là della riflessione sul rapporto tra sport e pace, The Boxer si nutre di un secondo  decisivo alimento: l’Irlanda. Non pare eccessivo affermare che la pellicola sprizza irlandesità da tutti i fotogrammi, a conferma della costante attenzione dedicata dall’autore alla propria patria. Con quest’opera, Sheridan ottiene forse la migliore resa espressiva delle atmosfere e degli ambienti natii. In nessuno dei suoi film si percepiscono così distintamente gli odori, i colori, i sapori di quella terra. Ciò si deve innanzitutto alla fotografia di Chris Megens, abile a illuminare con luce plumbea e toni uggiosi una Belfast più reale di se stessa (gli esterni del film sono stati girati a Dublino). Senza dimenticare i meriti dello stesso Sheridan e dello sceneggiatore Terry George, capaci di offrire un efficace spaccato di alcune dinamiche socio-culturali nordirlandesi. Si veda, ad esempio, la sequenza iniziale del matrimonio, in cui vengono introdotti alcuni dei personaggi principali. Sheridan adotta in questo caso un punto di vista dagli illustri precedenti nella storia del cinema (il Coppola de Il Padrino o il Cimino de Il cacciatore), scegliendo di presentarci i protagonisti della vicenda attraverso la descrizione di una cerimonia nuziale. Il regista irlandese utilizza così, come i suoi predecessori, uno dei riti più importanti della comunità di riferimento per illustrare i codici di comportamento della comunità stessa. In particolare, nel caso specifico di The Boxer, sono soprattutto le figure femminili a uscire meglio tratteggiate, anche in riferimento ai loro rapporti con l’altro sesso: Maggie, per esempio, è una delle tante donne costrette a sottostare alla legge non scritta che costringe alla fedeltà tutte le mogli dei prigionieri politici. Nel film, dunque, la rappresentazione della dimensione pubblica acquista interesse proprio sul piano socio-culturale, assai meno schematico e superficiale rispetto a quello dell’analisi storico-politica. Insomma, per un quadro dettagliato dell’IRA, delle sue battaglie e delle sue ataviche spaccature interne, è meglio far riferimento altrove, al Ken Loach de Il vento che accarezza l’erba, tanto per fare un esempio.

Altro punto di forza di The Boxer è senza dubbio Daniel Day-Lewis, sulla cui interpretazione Sheridan fu telegrafico: “È bruciante”. La pellicola segnò la terza e ultima tappa della collaborazione tra il regista dublinese e l’attore, dopo Il mio piede sinistro e Nel nome del padre, oltre ad essere anche l’ultimo film ambientato in Irlanda. Dal successivo In America, passando per Get Rich or Die Tryin’ (2005), fino al recentissimo Brothers, il dubliner Sheridan ha definitivamente trapiantato le sue storie di disperazione e violenza sul suolo statunitense, non riuscendo più, tuttavia, a raggiungere quelle vette espressive toccate nel precedente periodo europeo. Anche l’ultimo Brothers, melodramma dal solido e collaudato impianto narrativo (è il remake del film danese Non desiderare la donna d’altri di Susanne Bier), non sembra convincere fino in fondo. Ciò non toglie tuttavia che sarebbe ormai tempo per la critica di soffermarsi con maggiore attenzione sull’opera di Jim Sheridan e di riconoscerne appieno la statura autoriale. Non è semplice, infatti, scovare un regista europeo che, negli ultimi vent’anni, abbia portato avanti un discorso tanto impegnato e coerente. Si pensi proprio a Brothers: a più di un decennio di distanza da The Boxer, siamo ancora lì, con la guerra, il ritorno a casa dell’eroe, l’instabilità dei legami familiari e comunitari. Siamo, soprattutto, a contatto ravvicinato con quel mondo che da sempre cattura le attenzioni del regista e che si configura come principale leitmotiv della sua produzione: l’infanzia.

Più della politica, dell’odio religioso e razziale, è l’universo dei bambini che sta a cuore a Sheridan. Un universo che contempla le azioni dei grandi, e ne subisce le conseguenze. Come in The Boxer, dove dopo circa un quarto d’ora dall’inizio del film c’è l’esplosione di un’auto, il cui primo spettatore è un ragazzino su una bicicletta. Non è un personaggio chiave nella storia (tant’è che non si vedrà più), ma Sheridan ce lo mostra ugualmente in una breve inquadratura. E il suo sguardo si scolpisce nel cuore dello spettatore. Si tratta di uno sguardo che mischia terrore e incomprensione. Ed è lo stesso sguardo che ritroviamo negli occhi di Liam dopo aver assistito a una discussione tra Danny e Maggie. Lo stesso sguardo che si stampa sui volti delle figlie, specie di quella più grande, di Sam (Tobey Maguire) e Grace (Natalie Portman) in Brothers. Quello sguardo è il medesimo con cui Sheridan ci invita a vedere il suo cinema.

TITOLO ORIGINALE: The Boxer; REGIA: Jim Sheridan; SCENEGGIATURA: Terry George, Jim Sheridan; FOTOGRAFIA: Chris Menges; MONTAGGIO: Clive Barrett, Gerry Hambling; MUSICA: Gavin Friday, Maurice Seezer; PRODUZIONE: Irlanda; ANNO: 1997; DURATA: 114 min.

 


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