Emidio Greco PDF 
Enrico Maria Artale   
Indice articolo
Emidio Greco
Pagina 2

L’accoglienza della critica e della stampa per il suo ultimo film, L’uomo privato, non è stata molto favorevole. Indipendentemente dal giudizio di certi giornalisti sul film l’impressione che ho avuto io negli ultimi anni, e che in qualche modo la visione di questo film ha confermato, è che la critica italiana voglia vedere sempre le stesse cose, gli stessi buoni film. Ha i suoi canoni, che possono essere più o meno sindacabili, e non è molto disposta ad allargare i propri orizzonti. Né più né meno del pubblico, anche se per ragioni diverse. Lei come vede la situazione della critica cinematografica in Italia?
Già quando giravamo il film, un po’ scherzando ma neanche tanto, io ero perfettamente consapevole della divisione che il film avrebbe creato, nel senso che ci sarebbero stati quelli che lo avrebbero accolto molto favorevolmente, e quelli che lo avrebbero rifiutato. La previsione si è avverata. Ciò detto, il problema della critica in Italia ha diverse facce: intanto, senza offendere nessuno, la critica cinematografica si esaurisce nelle pagine dei quotidiani. Voglio dire che gli effetti, sia come ricaduta verso il pubblico sia come giudizio che si viene a formare al momento, si esauriscono nelle recensioni che appaiono sui quotidiani. E questo è già di per sé è un problema. Ma c’è un aggravante: il giudizio soggettivo del critico si mischia con gli interessi dei quotidiani che inseguono un consenso dei lettori il più ampio possibile. Per cui, per dirla con una battutaccia, piove sul bagnato. La situazione cinematografica italiana infatti è quella che è. Da molto tempo, per tantissime ragioni, gravissime, il cinema italiano è un cinema “trascurato”. Chi mena la danza sono gli altri, e molto spesso la critica si adegua. Questo è il quadro generale; all’interno di questa situazione ci sono poi singoli personaggi che passano per essere dei critici, ma che sia dal punto di vista culturale, sia dal punto di vista di una competenza specifica, e in qualche caso anche dal punto di vista morale, sono personaggi assolutamente inattendibili e squalificati. Con le dovute eccezioni. E non necessariamente, a scanso di equivoci, queste eccezioni combaciano col giudizio positivo che possono aver dato al mio film. Ma che il giudizio negativo sia dovuto nella grande maggioranza dei casi alle ragioni che ho detto prima, l’adeguamento ad un certo andazzo e la modestia dei personaggi, questo lo penso.

ImageIn effetti è sotto gli occhi di tutti che i contributi migliori alla critica provengano ad oggi da altri contesti, come le riviste specializzate, o anche, in senso spesso più innovativo, filtrando attraverso le competenze eterogenee di chi non si qualifica nello specifico come un critico cinematografico: e quindi filosofi, scienziati, scrittori, etc...
È vero, solo che a differenza di quanto avveniva molto tempo fa il dibattito culturale sul cinema, la riflessione che viene fatta in seconda battuta, ad esempio sulle riviste, non ha più alcuna incidenza, senza voler sminuire nessuno. È un dato di fatto; e non riguarda soltanto il cinema. Anche la critica letteraria in buona sostanza si esaurisce nelle pagine dei quotidiani.

Lasciamo stare, per il momento, questo discorso così ampio. Personalmente ho trovato il suo film molto enigmatico, e proprio per questo, mi sono sentito piacevolmente stimolato a cercare nel mio piccolo bagaglio di conoscenze gli strumenti per poter entrare in dialogo con la sua opera, che è poi ciò che ogni critico dovrebbe fare in relazione alle sue possibilità. A questo proposito mi interessava parlare con lei di alcuni registi del passato, proprio per capire meglio il suo lavoro. Il primo di questi è Robert Bresson, non a caso un autore molto osteggiato dal pubblico e dalla critica dell’epoca, soprattutto nei suoi ultimi film. Ne L’uomo privato, ma anche ne Il consiglio d’Egitto, ho notato che il suo modo di dirigere gli attori ha qualcosa in comune con la poetica bressoniana: non so se si può parlare di vere e proprie influenze, forse sarebbe meglio dire affinità. Nei suoi film ho ritrovato, infatti, una recitazione straniante, a volte basata, almeno apparentemente, su degli automatismi (espressione chiave per Bresson). Mi piacerebbe conoscere qualcosa di più sul suo rapporto personale con questo autore, da spettatore, e da regista ovviamente.
Bresson è stato un grandissimo autore e, per quanto riguarda la mia generazione, quella che cinematograficamente si è formata negli anni Sessanta, si può dire che Bresson è stato veramente un punto di riferimento per il rigore, ma soprattutto per la carica etica presente nei suoi film. A molti di noi inoltre, volendo scendere per un momento nel particolare, colpivano i tempi di montaggio. Per quel che concerne la recitazione c’era il rifiuto del realismo, che si accompagnava al rifiuto di un modo convenzionale di raccontare. Questo creava lo straniamento cui lei giustamente fa riferimento. Per quanto mi riguarda, invece, ho l’impressione che il pubblico sia condizionato dall’idea che il cinema non deve far altro che riprodurre la realtà: banalmente, o magari una realtà fantasticata, ma comunque il pubblico, sulla scorta della critica, crede che il cinema nel raccontare delle storie debba riprodurre la realtà. L’idea di cinema che ho io è il perfetto contrario; se fosse altrimenti la noia mi vincerebbe, perché  io ritrovo la realtà riprodotta nel giocattolo della televisione, oppure uscendo di casa tutti i giorni. A me interessa non il vero ma il verosimile. Allora, in questa operazione di mettere in piedi sullo schermo il verosimile, che dura lo spazio della proiezione, procedo per ellissi nella struttura narrativa, procedo per raffreddamento delle situazioni. Ad esempio l’uso dei campi e controcampi nel mio cinema non ha nulla a che vedere con l’uso corrente; nella stragrande maggioranza dei casi, nei miei film, gli attori campeggiano da soli nell’inquadratura, non hanno l’interlocutore di spalle che come si dice in gergo “scalda”  l’inquadratura, che sciocchezze. Lei mi dice che può risultare una recitazione straniata; io credo che recitino in modo assolutamente credibile, dando ognuno degli attori quello che deve dare in riferimento alla situazione, al personaggio, alla condizione psicologica; alcuni elementi stilistici inducono o possono indurre poi ad un’idea di recitazione di questo tipo. Ma io credo che il manico delle ragioni non sia nel film ma nel pubblico, che ha un idea di cinema molto banale.

ImageNon è che io volessi dire che la recitazione non fosse credibile; mi colpiva tuttavia il fatto che, come in Bresson, esisteva ed era visibile un metodo consapevole di lavorazione con gli attori, variamente finalizzato, un metodo in un certo senso antinaturalistico, che fosse presente, soprattutto negli ultimi due film, se non un metodo una volontà di dare una certa impronta alla recitazione, un’impronta non lontana da quella ricercata dal maestro francese. D’altra parte quei segni distintivi che giustamente lei dichiarava precedentemente, vale a dire l’ellissi narrativa e la tendenza al raffreddamento delle situazioni, alla quale in modo determinante contribuiscono gli attori, sono anche alcune delle caratteristiche principali della cinematografia di Bresson.  Tutto ciò mi faceva pensare che non fosse soltanto una percezione errata del pubblico, ma soprattutto una precisa scelta stilistica.
Certo che è una scelta stilistica, come lo è per Bresson. Le ragioni di Bresson però sono diverse dalle mie. Per quel che mi riguarda può darsi che questa impressione sia prodotta dal fatto che io detesto la psicologia e la sociologia come temi del film; non che non le ami come discipline, ma nei miei film non sono presenti in quanto argomento. Allora, venendo meno questa motivazione, è evidente che i personaggi e gli attori possono di per sé presentarsi come inusuali, di modo che, in una struttura narrativa che non è necessariamente condotta con un meccanismo automatico di causa ed effetto, lo spettatore viene sollecitato a sintonizzarsi con il film non sospinto, come dire, da sollecitazioni di pancia, ma più di cervello. Penso che ormai a questo tipo di esercizio, il pubblico, ma anche la critica, non sia più abituato, o comunque sia non voglia più aderire.
 
“Niente psicologia. Di quella che scopre solo quel che può spiegare”, scriveva programmaticamente Bresson a proposito del cinema; rimanendo dunque su queste suggestioni, che per me sono state una chiave d’accesso al suo film, mi sembra che nel suo lavoro assuma un’importanza centrale la parola stessa; non necessariamente funzionalizzata ma, come dire, nell’atto stesso dell’essere pronunciata. Il che appunto può portare anche ad un ipotetico irrealismo; per esempio notavo che nei dialoghi sono spesso volutamente enfatizzati gli intervalli tra una battuta e l’altra; ci sono sempre quei secondi che magari altri avrebbero evitato mediante sovrapposizioni delle battute. O ancora, quando nel film si rivedono delle sequenze, perché riprese precedentemente dal giovane, invece di farle rivedere per accenni lei ha scelto deliberatamente di riproporle quasi per intero. In quel caso quindi la parola non ha più una funzione dichiaratamente narrativa.
Nel caso specifico però, almeno per la scena sul lungarno, dal momento che il protagonista sta vedendo sé stesso e quello che dice la ragazza non è indifferente perché è un atto d’accusa, la valenza e il senso mutano completamente, nella ripetizione.

Ciò non toglie che, nonostante la valenza diversa, in pochi avrebbero mostrato la scena quasi per intero, anche a costo di un “irrealismo tecnico”, se mi passa l’espressione, perché è ovvio che quel dialogo sarebbe stato in realtà inudibile per quella telecamera, a quella distanza. Per questo parlavo di una centralità della parola.
Che siano pochi lo prendo come un complimento…Ad ogni modo: il problema della parola; io ho discusso con i colleghi più volte su questo. Il cinema è sonoro dal 1927, e il sonoro in generale e la parola in particolare hanno come minimo la stessa valenza che hanno le immagini. L’idea che il cinema sia soprattutto immagine è una sciocchezza o un luogo comune, in qualche caso nostalgico: com’era bello il cinema muto… Ovviamente il cinema muto era molto diverso, pensi a quanto cambiavano i ritmi. D’altra parte mi viene in mente che se uno volesse recitare un rosario di film straordinari, degli ultimi decenni, scoprirà che il parlato gioca un ruolo determinante. Cito un regista che non è un mio autore di riferimento: Ingmar Bergman. Ma a nessuno sarebbe mai venuto in mente di dire: “ah, ma come parlano nei film di Bergman”? Sono di volta in volta considerazioni legate alla moda del momento a creare dei pregiudizi nel pubblico o nella critica più giovane. Le faccio presente d’altro canto che il mio primo film, L‘invenzione di Morel, è muto per i primi 33 minuti; in Una storia semplice parlano per quello che devono parlare. Certo non devono essere un libro aperto; ma questo lo imparano subito gli allievi di qualunque scuola di cinema; o almeno glielo dicono subito, poi se lo imparano è da vedere.

ImageSecondo me però, mi permetta, non è che lei nel suo lavoro si limiti a mettere sullo stesso piano il sonoro e il visivo, come qualunque regista, almeno in linea di principio, dovrebbe fare, ma conferisce un valore spiccato alla parola, al parlare, all’interno del sonoro; e qui continuavano a venirmi in mente autori dimenticati o messi da parte; tuttora credo infatti che Bresson sia molto messo da parte, soprattutto dai giovani…
Non sanno di cosa stanno parlando e non viene più visto. In Italia però; fortunatamente la situazione italiana è molto anomala. Altrove è diverso.

Gli altri, su questa stessa linea, erano l’ultimo Rossellini, o anche Jean Marie Straub e Danielle Huillet. Quando io avevo visto Il consiglio d’Egitto, dove secondo me questo elemento è ben presente, credevo che questo soffermarsi sulla parola fosse in gran parte finalizzato, legittimamente, ad un rispetto del testo e della scrittura di Leonardo Sciascia. Quando invece ho visto L’uomo privato ho scoperto come non fosse quella l’unica ragione, l’atteggiamento rispettoso nei confronti del libro, ma più essenzialmente si trattava di una caratteristica del suo cinema. L’atto del pronunciare, l’accento sull’eloquio lineare, scandito, la parola ascoltata di per sé, quasi come fosse isolata dal contesto. Questo mi interessava capire.
Andiamo con ordine. Io ho fatto quattro film tratti da libri; quattro film che sembrano essere molto fedeli; in verità sono fedeli e infedeli come qualunque film. In fondo questa questione della fedeltà appartiene ad una riflessione accademica che non porta a nulla, perché il libro resta il libro. Capisco tuttavia che lei parlava di una fedeltà interiore; io ad ogni modo non mi sono mai posto il problema di essere rispettoso, magari il problema di non essere all’altezza dei libri. Del resto i personaggi hanno detto quello che hanno detto perché mi sembrava giusto, e non in ragione di un rispetto a priori. Per quanto riguarda quello che dicono, è inevitabile che alcuni momenti del dialogo assumano un significato forte, è una necessità. Quando Gian Maria Volontè dice in Una storia semplice: “L’italiano non è l’italiano. L’italiano è il ragionare”, che è una frase di Sciascia, ti colpisce perché è un giudizio molto forte, carico di un atteggiamento morale. Il fatto che nel corso del film alcuni momenti del parlato assumano una sottolineatura è dovuto secondo me al tema scelto. È facile dire che i temi dovrebbero essere indifferenti. Negli anni Sessanta era stato privilegiato il linguaggio cinematografico, e questo portò all’idea che il soggetto fosse indifferente. L’ho pensato anch’io, sbagliandomi. Quel periodo finisce proprio perché privilegiando l’aspetto più esteriore del linguaggio il cinema muore di sé stesso, per un eccesso di accademia. Ma il linguaggio non è soltanto il modo di apparire, è qualcosa di molto più complesso, è l’incastro di molti elementi; io ho cambiato idea, e sono convinto che non è indifferente il modo in cui il tema viene a trattato. Si pensi ad A qualcuno piace caldo: si può pensare che Billy Wilder fosse un autore comico? Ad un pazzo potrebbe venire un’idea del genere… La verità è che il tema e il modo in cui si decide di trattarlo evoca la forma; a sua volta la forma, se giustamente evocata, incarna il tema; in questo continuo scambio il film sta in piedi. Non separando forma e contenuto, sciocchezze, retaggi di vecchio idealismo crociano.

ImageVorrei ancora insistere su questo per poter andare ancora più a fondo nella specificità del suo cinema: ne Il consiglio d’Egitto, lo spettatore è obbligato ad una certa attenzione, o all’attivazione di certe facoltà intellettuali, per arrivare a determinati punti in cui la sceneggiatura affronta questioni cardine, come nel dialogo tra l’abate Vella e il frate, nel patio, quel discorso sulla storia in cui risuonano echi di Brecht, Walter Benjamin, un discorso molto importante e molto nutrito, per Sciascia come per lei. Probabilmente può essere notato a pieno per quello che è solo perché il film l’ha preparato accuratamente attraverso i dialoghi precedenti, e il modo in cui sono recitati. Ne L’uomo privato per contrasto si sviluppano dialoghi su spaccati o situazioni quasi prive di senso; ad esempio quando il protagonista parla con la sua amica in desabillé, in un elegante attico romano: lì il personaggio femminile sviluppa un monologo molto articolato mentre lo spettatore non capisce di cosa si stia parlando. Mi aveva colpito come tanto nel più nobile, quanto nel più futile dei discorsi, non diminuisse mai questa attenzione per la parola.
È così infatti, assolutamente. Nel caso de L’uomo privato però ciò a cui lei si riferisce colpisce anche perché nella prima parte del film il racconto procede non attraverso il meccanismo classico della causa ed effetto, ma attraverso stazioni, attraverso dei quadri. E si potrebbe andare avanti per sei ore, come se si stesse facendo un documentario su un signore, che frequenta certa gente, certi luoghi, fa certe cose, finchè il racconto non subisce una deviazione. Dal momento in cui non è molto frequente vedere una struttura del genere, il pubblico resta un po’ sconcertato perché si aspetta che nella scena sia nascosta una delle motivazioni del racconto. E invece non c’è niente. Spesso il pubblico e la critica si aspetta che ci sia una ragione, un prima e un dopo. Qualcuno mi ha detto che quando c’è il dialogo con l’ingegnere non si capisce di cosa parlano, ma non è mica un problema della storia; l’unica cosa che si deve capire è che il protagonista è un uomo molto ascoltato, che stanno parlando di questioni, da un punto di vista economico, di primissimo ordine; dopodiché se avessero proseguito parlando di donne sarebbe stata la stessa cosa. All’interno del dialogo poi ci sono anche alcuni agganci narrativi. Se si resta legati ad un meccanismo di racconto che in letteratura si chiama “la marchesa uscì alle cinque” è finita… Il cinema per fortuna ha fatto passi avanti; parliamo di persone serie: se uno pensa ad un regista come David Lynch, o all’ultimo film di Haneke, Caché; pensi a quanto i critici non hanno capito nulla dell’ultimo film di Kubrick o a come spesso diventano paternalistici verso i fratelli Cohen; e in ogni caso Lynch, a parte il fatto che è stato trattato malissimo in passato, o altri, Kaurismaki, Kiarostami, vengono da fuori. Il provincialismo di certi personaggi nostrani è micidiale; se il nome è quello di un italiano le cose sono ancora più difficili.

È verissimo; infatti parlare di questa struttura a quadri, al di fuori di certe logiche narrative più usuali, mi ha ricordato quanto non fu capito un film straorinario come Così ridevano di Gianni Amelio, che io ritengo uno dei suoi lavori più coraggiosi, e che pure è andato incontro ad un trattamento inadeguato, nonostante il Leone d’Oro. Credo sia uno dei pochi film che ci hanno invidiato all’estero negli ultimi dieci anni; e qui in Italia ci manca poco che passi per un film di nicchia.
Ma infatti il problema non riguarda solo il sottoscritto. Mi riguarda perché io mi sento proprio al di fuori del cinema italiano, sento di non appartenervi, nel senso che rifiutando la psicologia e la sociologia come temi cardine del film io non c’entro proprio nulla col cinema italiano; aggiunga che non mi sforzo di essere minimante “piacione”, come dicono a Roma. Ma io non sono un perseguitato, e altri miei colleghi di valore di volta in volta vengono messi tra parentesi proprio perché, metaforicamente, stanno al di là del confine di Chiasso. A causa del provincialismo della cultura italiana in generale, e di quella cinematografica in particolare.


 


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