A proposito di Michael Moore, degli USA e del documentario - Bowling for Me, ovvero Roger and Colomb PDF 
di Fulvio Montano   

Da poco passato sugli schermi Americani e poi italiani, Bowling for Colombine è senza dubbio una delle visioni più anomale dell'anno appena trascorso. Insolito, anzitutto, che un documentario sia approdato prima a Cannes e poi accolto con tributi unanimi nei cinema anche qui da noi, e sorprendenti le taglienti verità che con genuina schiettezza porta con sé.
Come dire, il mercato del documentario esiste, e soprattutto, per quanto riguarda lavori pensati e confezionati fuori dal coro e dotati di un pensiero lucido, militante ed indipendente.
La distribuzione tardiva negli USA, nonostante il contributo produttivo e distributivo della Warner, è la resa definitiva del pensiero unico, il lasciapassare per la Terra in cui ognuno può dire/fare la sua come meglio crede.

 

I motivi del successo di Bowling for Columbine come del precedente Roger and Me (relegato in festival/rassegne o nottambule visioni a Fuori Orario) sono un misto di eccellente proprietà e chiarezza dello stile quanto coronamento di una ricerca costata anni di lavoro e di impegno, sostenuti da un'ironia non imposta, ma generata dalle terrificanti situazioni presentate, nonché dall'eccellente lavoro di montaggio. Leggerezza di una narrazione senza censura versus pesantezza di una realtà americana sempre più indigeribile e sconcertante, perfettamente condensate nelle due ore di proiezione, sono le due posizioni antitetiche entro le quali vibra la tensione che dà vita al film e che ne rende assolutamente imperdibile la visione.

Tra i due lavori di Moore (che lavora stabilmente come documentarista nelle reti tv americane) salta immediatamente agli occhi la differenza di approccio pratico al problema e le soluzioni adottate per risolverlo.
Se in Bowling for Columbine - tra i due quello confezionato meglio - sono evidenti il sostegno economico del produttore e la sterminata mole di materiale documentario raccolto e poi scartato, in Roger and Me spicca la piacevole freschezza dall'autoproduzione (negli USA comunque mai interamente a carico dell'autore) che ha fissato i confini dell'inchiesta e forzato l'autore ad un orientamento, per così dire, più umano, ma comunque funzionale alla prospettiva da operaio e uomo comune licenziato dalla General Motors.

Nonostante l'home made di Roger and Me, l'approccio al problema dei licenziamenti a Flint, Michigan, mantiene la stessa struttura narrativa di Bowling for Columbine, facendo risultare chiaro fin dall'inizio l'obiettivo dell'inchiesta; raggiungere, dopo un lungo inseguimento fatto di indagini e interviste, un unico uomo, quello che, secondo Moore, ha il dovere di rispondere delle contraddizioni esposte nel documentario: Roger Smith per gli operai della General Motors e Charlton Heston per gli studenti di Columbine. Scelta interessante anzitutto per giustificare la struttura narrativa del film, ma anche per semplificare in qualche modo le cose. Costruendo nemici irraggiungibili (un po' come fa Bush con Saddam) e identificandoli (indirettamente) con il Diavolo in persona, Moore evita di accusare direttamente la società americana e invita a non porre limiti ai propri progetti. Dando fondo alla sua abilità affabulatoria e visionaria di autore e regista, evita di riferirsi direttamente all'American way of life che ha ridotto Flint e Columbine a quello che sono, lasciando che sia lo spettatore a trarre le sue conclusioni.Egli stesso non esita a porsi, non solo esteticamente, come l'americano medio, come il tipico rappresentante della società dei consumi: è americanamente grasso, porta il berretto della sua squadra di baseball, è iscritto alla NRA (National Rifle Association, che raccoglie in associazione i patiti di armi) e quando, chiedendo di Smith nel palazzo GM a Detroit, gli vengono richieste delle credenziali, non trova di meglio che offrire la tessera sconto del fast-food sotto casa sua.
Michael Moore, insomma, non nega di trovarsi irreparabilmente invischiato nella società contro cui si scaglia, ma nemmeno cede alla tentazione di attaccarla frontalmente lanciandosi in retoriche asserzioni socio-filosofiche sulla realtà che lo circonda.
Ed è qui l'efficacia del film, nella chiara coscienza di dover cercare altri modi per riflettere su ciò che ci circonda e al contempo ci plagia e ci disgusta, rifiutando il pamphlet da intellettuale rabbioso e non allineato, per pescare direttamente nel torbido, in accordo con lo spirito pragmatico dei Padri Fondatori. Sarà poi l'ironia (e non il sarcasmo, di cui la società americana, nella sua arrogante insistenza nel prendersi troppo sul serio, sembra assolutamente priva) a redimere la sua anima dannata e permettergli di sopravvivere.

Memorabili nella loro semplicità (di discorso e di montaggio) le sequenze dell'amico operaio, ridottosi a giocare a basket in un ospedale psichiatrico, che ricorda una canzone dei Beach Boys poi proposta come contrappunto al susseguirsi di case abbandonate a Flint; oppure l'intervista al paranoico con la 44 magnum sotto al cuscino, inquisito per la strage di Oklahoma City, il quale, seppur con qualche perplessità, metterebbe un freno unicamente all'acquisto di armi di distruzione di massa.
Oppure la signora che diventa promotrice Amway e poi viene colta da una crisi d'identità, oppure ancora il responsabile del rilancio turistico di Flint, che sfoggiando un'abbronzatura da isole tropicali con stampato in faccia un sorriso a trentadue denti, delira sulle inesistenti attrattive della città.
Un alternarsi ben equilibrato di pazzi maniaci e faustiani detentori del potere, di poveri cristi e di volgare gente comune che convivono gli uni di fianco agli altri nella più totale indifferenza.
"Che c'è di bello a Flint?", chiede curioso Moore al circolo del golf.
"Be', tante cose…il balletto, il golf, il teatro."
"E che dovrebbero fare le migliaia di persone licenziate dalla General Motors?"
"Tirarsi su le maniche e andare a lavorare!"

Ironia e paradosso affidati a soggetti chiave, come lo sceriffo che rende esecutivi gli sfratti perché quello è il suo lavoro o come il responsabile della programmazione di una Real Tv che insiste unicamente sugli arresti di gente di colore, i quali risultano una sorta di traghettatori danteschi nel delirio della società americana contemporanea. Dalle visioni di Moore si esce sconsolati e al contempo rivitalizzanti, convinti della possibilità di poter ancora, anche con il supporto video, fare del cinema documentario come se fosse rimasto l'unica modalità realizzativa ad avere ancora un senso.
Militanza che, sempre più sconsolati, troviamo raramente nei lavori prodotti a casa nostra, o per mancanza di fondi a disposizione di autori senza macchia (vedi Report) o per disinteresse del mercato e dei telespettatori stessi, tanto che alla fine ci si riduce a lavori standardizzati, politically correct o addirittura ignobili docufiction revisioniste.
La forza dei fatti, nudi e crudi, affrontati con pragmatismo e insieme con mestiere, è insomma l'anima dei lavori di Michael Moore, cineasta che fornisce uno dei pochi esempi di cinema sincero ed efficace.

 


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