Il villaggio di cartone PDF 
Matteo Marelli   

Il villaggio di cartone è un titolo epigrammatico per come riesce ad evocare con concisione ed efficacia la stilistica del film. Un titolo che contiene in nuce le scelte formali a cui Ermanno Olmi fa riferimento per la messinscena di quest’ultimo lavoro. L’estetica dell’opera è già inscritta nella sua genealogia, sinteticamente espressa ai margini iniziali del testo. Una struttura marcatamente e claustrofobicamente teatrale sostenuta da una recitazione antinaturalistica. Un cinema costruito su una dialogica che ruota attorno a situazioni più o meno surreali, scatenate dall'effetto detonatore di eventi di cronaca. La scelta del palese artificio della messinscena è utilizzata al dichiarato scopo di farne strumento per analizzare la contingenza dei flussi migratori.

L’intento di Olmi non è di concentrarsi su un preciso episodio, ma di provare ad analizzare il fenomeno nella sua complessità. Per farlo, si sa, è necessaria un’ottima capacità di lettura, possibile soltanto disponendo di una solida prospettiva. Nel caso di Olmi, questa coincide con ciò che per lui è una vera e propria ossessione, il modello cristologico. È attraverso l’esempio offerto da Cristo, che secondo il regista, va affrontato un problema che proprio per la sua complessità non si può ottusamente pensare di risolvere con immediatezza, proponendo sbarramenti e respingimenti come unica soluzione. Cristo rimane per Olmi il modello esistenziale e teorico di fondo. L’identificazione con il suo protagonista è progressiva e totale. Inizialmente mostratoci in uno stato di crisi spirituale, il parroco de Il villaggio di cartone, costretto ad assistere impotente allo smantellamento della propria parrocchia perché ormai inutile, svuotata com’è di fedeli, ritrova il proprio ardore religioso quando la realtà irrompe nella sua esistenza. Olmi lascia intuire le responsabilità che quest’uomo ha nell’allontanamento dei parrocchiani. La sua colpa è quella di essersi isolato dal modo, dalla vita. Ma questa torna a ripresentarglisi di fronte a mo’ di gruppo clandestini rifugiatisi negli spazi svuotati della chiesa. Incapace di accettare le logiche degli uomini di legge, egli riscopre nella propria "diversità" morale la stessa angoscia irruenta e non violenta di Cristo, egualmente dolorosa e incomunicabile, cristallina eppure impenetrabile. La stessa radicalità, la stessa irremovibilità nel perseguire l’obiettivo di una rivoluzione "senza sangue", senza temere la disobbedienza civile. Perché questo si verificasse è stato per lui necessario ristabilire un legame tra pensiero e lavoro sul campo, possibile solamente attraverso un rapporto personale, frontale, fisico, corporeo, come del resto la lettura evangelica insegna.

Olmi sa che il registro da adottare nella rappresentazione di un apologo è quello simbolico. È in quest’ottica che sono da leggersi le scelte scenografiche di una sobrietà quasi francescana, così come la recitazione esibita; quella messa in scena è una realtà-simbolo, nulla deve esser letto come realistico. Se negli aspetti appena evocati dimostra un’inattaccabile rigore formale, altrettanto non può dirsi per la sceneggiatura. Qui il regista cede ad un facile schematismo didascalico che smentisce l'impostazione austera con moraleggianti note a margine fin troppo enunciative. Non si può più giustificare la stantia riproposizione del mito del "buon selvaggio" la cui entrata in scena è chiave di svolta per risolvere i dubbi religiosi, etici ed esistenziali dell’Io occidentale. Olmi dovrebbe saper bene che la semplificazione derivante dal processo di stilizzazione non coincide con la banalizzazione. 

TITOLO ORIGINALE:
Il villaggio di cartone; REGIA: Ermanno Olmi; SCENEGGIATURA: Ermanno Olmi; FOTOGRAFIA: Fabio Olmi; MONTAGGIO: Paolo Cottignola; MUSICA: Sofia Gubaidulina; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2011; DURATA: 87 min.

 


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