XII Far East Film Festival: qualcosa di nuovo dal fronte orientale? PDF 
Simone Dotto   

Chiedere al cinema orientale di presentarsi in quanto tale, passaporto alla mano, per poter essere consumato e apprezzato a dovere sarebbe pretesa qualunquistica e anche un tantino razzista. Esattamente come quello che conosciamo di prima mano, il cinema che proviene da Oriente (ovvero da una molteplicità di realtà geografiche e sociali differenti: Giappone, Cina, Hong Kong, Thailandia, Indonesia, SudCorea, Vietnam, Filippine …) comprende in sé un complesso sistema di generi e una grande varietà di codici espressivi, difficile da relegare sotto una sola etichetta. È anche per dar conto di questa varietà che esistono kermesse come il Far East Film Festival, giunto quest’anno alla sua dodicesima edizione e sempre più orgogliosamente impuntato sui propri tratti distintivi. Rispetto agli anni passati, si conferma l’elegante cornice del Teatro Nuovo Giovanni di Udine quale sede di proiezione per tutti i film in concorso (e con le retrospettive affidate al cinema Visionario). Ribadite anche le scelte più radicali: quella del voto rigorosamente a furor di popolo e la politica “senza repliche”, che se da un lato è sintomatica di un’offerta più che sostanziosa, dall’altro si rivela poco pratica per chi non avesse l’intera settimana a disposizione. Rinnovata, infine, la nobile tradizione delle sigle d’autore: questa volta tocca al coreano Joko Anwar apporre la propria firma sul bellissimo trailer e sull’intrigante slogan “exothic, authentic, hands free, no safety”.

Proprio quell’“exotic-authentic” centra il cuore della questione. Se è vero che ad una rassegna che si confronti con il cinema asiatico contemporaneo spetta soprattutto smarcarsi dal pericolo “cineseria” di cui sopra, è altrettanto innegabile che le immagini e le storie che vengono dall’impero del Sol Levante affascinino specialmente per quel diverso tipo di sensibilità che portano in dote. Lo provano le calorose accoglienze riservate soltanto negli ultimi mesi a due piccoli fenomeni orientali, entrambi tenuti a battesimo proprio dal Far East durante la scorsa edizione: Vendicami di Johnnie To e Departures, la cui locandina in questi giorni fa orgogliosa mostra di sé nelle sale del Visionario. Ma lo spettatore intensivo del Far East sa bene che l’offerta non si limita soltanto a piccole gemme autoriali o al buon cinema di genere: a sorprendere, semmai, è il grado di strettissima parentela con alcune degenerazioni del cinema occidentale, dagli Usa in giù. Salta all’occhio soprattutto la quantità di titoli adolescenziali in lizza: il programma annovera un foltissimo assortimento di youth drama, youth romace, coming of age comedy, teenage drama e, nientemeno, nostalgic youth music drama. Chi è entrato in sala attrezzato delle aspettative di cui si parlava poco fa avrà di che strabuzzare gli occhi di fronte alle vicissitudini amorose di scamarci con occhi a mandorla, di sfigatelli in vacanza su modello American Pie (giusto un tantino meno volgare) e ai viaggi delle gemelle Holsen tailandesi in quella che sembra proprio un’Europa in miniatura (Dear Galileo).

Il filone thriller noir regge meglio il confronto con una storia ingombrante, ripercorsa in parte dalla retrospettiva Nudes! Guns! Ghosts!. Rimettersi d’innanzi ai lavori di Ishii Teruo significa riscoprire un tempo in cui il cinema di genere giapponese era lungi dall’adagiarsi sui codici espressivi che venivano dagli antagonisti americani, portando una concezione della violenza e un gusto per la sessualità più sottile e, se possibile, con ulteriori carichi di misoginia. Non si può dire lo stesso di quegli altri generi che su questa passerella fanno mostra del proprio attuale stato di salute: il confronto con la Storia è anzi il campo sul quale gran parte delle pellicole in gara mostra le maggiori debolezze, si tratti di storia cinematografica o Storia del paese. I titoli cinesi che guardano indietro inciampano spesso nei toni di una forte propaganda nazionalista, talvolta ben costruita secondo i crismi del kolossal storico (Foundation of a Republic, City of Life and Death), altrove semplicemente imbarazzante, nel patetico tentativo di indottrinare con il sorriso (Quick Quick Slow).

Il rapporto con la tradizione cinematografica è spesso schizofrenico, soprattutto nei confronti di uno dei generi cardine della produzione autoctona qual è il cinema d’arti marziali: non è difficile ritrovare all’interno di film di tutt’altra categoria accenni ironici o parodistici ai combattimenti karateki che riflettono un atteggiamento irriverente e distaccato verso il kung-fu pensiero e i valori di cui si è fatto portatore (l’interessante Boys on the Run costruisce per il protagonista una parabola di apprendimento speculare e contraria a quella degli eroi dell’arte marziale). In altri casi, al contrario, il genere è soggetto di grandiose (auto)celebrazioni, attente però soprattutto ai dettami imposti dal mercato estero: succede in Bodyguards and Assassins di Teddy Chen, narrazione epica della nascita della repubblica cinese nei primi del Novecento, che dalla grandiosità dei presupposti storici scivola presto in una sola, enorme coreografia bellica. Il caso più significativo, però, è IP Men II di Wilson Yip, proiettato in anteprima internazionale durante la serata conclusiva: ambientato in una Hong Kong che comincia a fare i conti con la sua doppia personalità, è la storia di Wing Chun, futuro maestro di Bruce Lee. Una fiera dichiarazione d’amore verso l’arte del combattimento orientale in una megaproduzione degna dei più nutriti budget occidentali: nella parte del vecchio maestro, custode della tradizione marziale, Sammo Hung, che per i profani del genere vale a dire Sammo Law, il corpulento sbirro scazzottatore della serie tv (americana) Più forte ragazzi.

Ma, si diceva in principio, far di tutta l’erba un fascio è difficile e ingiusto. Il cinema orientale in mostra al Far East sa ancora proporre delle cose buone e, pur nell’appiattimento generale del panorama contemporaneo, esistono notevoli risacche di resistenza estetica: soltanto per fare alcuni nomi, Accidental Kidnapper è un interessante esempio di action alla giapponese, Identity un esperimento coraggioso e un’audace riflessione sulla morte “sociale”. Castaway on the moon, vincitore dell’audience award e segnalato speciale da parte degli addetti ai lavori, rappresenta poi un'altra bella eccezione: la vicenda postmoderna di una ragazza arroccata nella propria stanza e di uno strano naufrago e delle rispettive solitudini. Pur non calandosi mai nei territori più profondi dell’autorialità il film vincitore del coreano Lee Hey-yun resta una mosca bianca per gli schermi di un oriente sempre più, pericolosamente, “vicino”.

 


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