One Day in September: la verità è un piatto servito freddo PDF 
Tiziano Colombi   

Il 5 settembre 1972 otto fedayn appartenenti al gruppo “Settembre nero” fanno irruzione nel villaggio olimpico di Monaco. Il loro obiettivo sono gli atleti della squadra israeliana. Sequestrano undici uomini. Due degli ostaggi oppongono resistenza e vengono uccisi. Per gli altri l’appuntamento con la morte è solo rimandato. I guerriglieri chiedono la liberazione di circa 200 ostaggi palestinesi. Il primo ministro Golda Meir oppone un netto rifiuto. Il mondo è costretto, dall’azione folle di un gruppo di guerriglieri, a prendere atto della disperazione del popolo palestinese. Israele, ancora una volta, assiste inerme alla cancellazione della sua gente in terra germanica. Riedizione di un incubo. A settembre il mondo va in pezzi. Dopo Monaco, il golpe cileno del 1973 e le Twin Towers nel 2001. Materiale per altri racconti. Il cinema sceneggiato dalla schizofrenia della storia. One day in September del regista Kevin Macdonald esce nel 1999 aggiudicandosi nel 2000 il Premio Oscar come miglior film documentario. La pellicola è un’efficace istantanea del disastroso comportamento messo in atto dalle autorità tedesche, dimostratesi del tutto impreparate ad affrontare un’emergenza come quella scatenata dal commando “Settembre nero”.

Sangue e sport
Da sempre i grandi eventi sportivi sono un potenziale palcoscenico per azioni dimostrative messe in atto da minoranze inascoltate o gruppi di combattenti (più o meno estremisti). Nel 1968 in Messico, pochi giorni prima dell’inaugurazione dei Giochi Olimpici avvenne il massacro di piazza delle Tre Culture. Centinaia di studenti, approfittando del clamore suscitato dall’imminente evento sportivo e mediatico dell’Olimpiade, decidono di organizzare un grande manifestazione di protesta. Verranno letteralmente massacrati dalle pallottole della polizia. L’anno successivo, 1969, la tensione scatenata da una partita di calcio tra le nazionali dell’Honduras e del Salvador sfocerà in una vera e propria guerra dei poveri. “La prima guerra del football”, così la definì il grande inviato polacco Ryszard Kapuscinsky, fu, nelle parole dello stesso giornalista, l’ennesimo esempio di come “I piccoli stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue”. Anche nelle ultime Olimpiadi di Pechino 2008 si è assistito al tentativo, da parte di gruppi di attivisti, di portare all’attenzione dei media la spinosa questione tibetana. Qualche capo di stato aveva addirittura annunciato la mancata partecipazione alla cerimonia di inaugurazione, per solidarietà nei confronti del popolo del Tibet. Naturalmente finiti i Giochi e spentosi il clamore, ha avuto inizio la ritirata in buon ordine di gran parte dell’opinione pubblica mondiale. Tutti a casa a contare le medaglie. Il film di Macdonald ha, in tal senso, un valore aggiunto del tutto involontario. È un’opera che, dovutamente riletta, potrebbe essere presa a modello per una scrittura della storia attraverso i grandi eventi sportivi. Un esempio in tal senso, pur trattandosi di fiction e non di documentario, è fornito dal recente film di Stefano Incerti, Complici del silenzio. Il regista sceglie di ripercorre la tragedia della dittatura argentina attraverso il racconto di due giornalisti sportivi, sbarcati in America Latina per seguire i Mondiali di calcio del 1978.

Quando i palestinese ascoltavano i Led Zeppelin
In One Day in September l’attenzione dell’autore è tutta rivolta alla cronaca. Scopo ultimo del documentario è portare a galla nuove verità sulle 20 terribili ore di Monaco. Le impressionanti lacune del sistema di sicurezza, formato da duemila funzionari disarmati, trovano la loro spiegazione nella volontà della Germania di presentarsi al mondo come una vera democrazia. Questa la tesi di Macdonald. Niente armi, smilitarizzazione totale. Un atto pubblico di redenzione che cancelli le colpe del passato. Lo spirito olimpico trova casa in quello che è stato il cuore nero dell’Europa. L’obiettivo è cancellare dalla memoria le Olimpiadi hitleriane di Berlino 1936. Partendo da questo assunto il film mette in rapida sequenza una moltitudine di immagini di repertorio, interrotte da brevi interviste ai protagonisti di quei giorni, tra i quali spicca l’unico membro di “Settembre nero” rimasto in vita, Jamal Al-Gashey. L’impianto classico del documentario ha però due importanti peculiarità. La colonna sonora curata da Alex Heffes è dominata dal suono degli anni Settanta. Una cornice che limita il distacco dello spettatore e rievoca le sensazioni di un decennio di lotte. In Italia il 1972 è l’anno dell’uccisione del commissario Calabresi e della morte di Giangiacomo Feltrinelli. “Avanziamo contro vento/il nostro obiettivo è la costa occidentale/così ora dovreste fermarvi a ricostruire le vostre rovine/perché la pace e la verità possono vincere oltre il giorno della vostra sconfitta”, recita il testo di Immigrant Song dei Led Zeppelin mentre scorrono le sequenze degli atleti che continuano a sfidarsi sulla pista d’atletica, dimentichi dei “colleghi” israeliani assediati nei loro alloggi. Versi che potrebbero fungere da manifesto per l’azione dei fedayn. Il secondo, ottimo, artificio narrativo è quello aver scelto le parole e il primo piano di Jim Mckay, giornalista della ABC, per scandire il susseguirsi degli eventi. Tutto riporta a quei momenti, la diretta televisiva incede come fosse il plot di un thriller hollywoodiano. Cadono ancora una volta le torri gemelle, ma il fragore arriva da un passato lontano trent’anni.

McLuhan aveva ragione

Alcune scene del documentario mostrano atleti, giornalisti e personale dell’organizzazione intenti a seguire su di uno schermo televisivo il dipanarsi della vicenda. Si vedono alcuni agenti volontari vestiti con tute sportive tentare un assalto agli alloggi degli atleti israeliani. Tutto si blocca improvvisamente. Si scopre che nelle stanze anche i fedayn hanno la tv. È un cortocircuito mediatico. “Il mezzo è il messaggio” sostiene McLuhan, e mai come in questo caso si realizza la sua idea. Sono stati sequestrati degli uomini, sono a rischio le loro vite, ma il CIO non interrompe le gare. Perché il  teatro della tragedia non è il villaggio olimpico di Monaco. Lì, sul posto, la vita deve andare avanti e può andare avanti. Il reale è nell’immaginario, tutto si svolge in diretta mondiale, sugli schermi televisivi, altrove, lontano da tatto. I fedayn lo sanno, è quello che vogliono. Sono soldati che eseguono un ordine, quello di apparire. One Day in September  è il compimento nel tempo del “villaggio globale” pensato da McLuhan. Kevin Macdonald vuole svelare la verità sui fatti di Monaco 1972, ma di fatto rimette in scena la battaglia di “Settembre nero”. Una battaglia della rimembranza, il sangue che ha fatto voltare lo sguardo al mondo. Tutti guardano tutti, tutti sono significati e significanti, si annullano i ruoli. Chi è il vero spettatore? I fedayn che si vedono in tv rinchiusi nelle stanze del villaggio? I familiari dei rapiti che tremano nelle loro case? La gente che il 5 settembre era a Monaco? Noi, trent’anni dopo che mettiamo nel lettore dvd il documentario di Macdonald? O Jamal Al-Gashey seduto di fronte al suo televisore nel suo esilio africano? Allo stesso modo funziona la moltiplicazione di immagini delle torri di New York che si sgretolano sui video di YuoTube e sugli schermi cinematografici di tutto il mondo. Dove si combatte la battaglia tra Occidente e resto del mondo? Forse non nella polvere dell’Afghanistan o in quella dell’Iraq, ma sugli schermi domestici dei nostri personal computer.

93 minuti per parlare d'altro
La sigla “Settembre nero” ha una genesi ben precisa, ma Macdonald non si preoccupa di renderla nota. La sua è un’altra storia. Come in Munich di Spielberg, basato sul romanzo-reportage di Jonas George Vendetta. La vera storia della caccia ai terroristi delle Olimpiadi di Monaco 1972 anche One Day in September  è una questione da israeliani. Certo Spielberg si sforza di non emarginare la questione palestinese, ma la stella che guida le opere dei due registi è indubbiamente quella di David. “Settembre nero” sta a ricordare l’uccisione, avvenuta in Giordania nel 1970, di migliaia di profughi palestinesi, con l’intento di cacciare da Amman i gruppi armati dell’OLP. Tutti i racconti hanno un prima e un dopo. Il prima di One Day in September sono le stragi in Giordania ricordate dal quotidiano egiziano Al Massa all’indomani dei sanguinosi fatti di Monaco, “l’operazione del commando palestinese dimostra la vitalità della resistenza e la capacità di assumere le proprie responsabilità con determinazione, a dispetto dei tentativi di sopprimerla. Non è affatto sconvolgente che l’organizzazione 'Settembre nero' uscita dai bagni di sangue in Giordania, denunci il comportamento selvaggio degli israeliani e dei suoi accoliti”. Il dopo è il dilagare della strategia di guerriglia e terrore portata avanti dai palestinesi in tutto il mondo, e nell’immediato, le centinaia di vittime seguite all’incursione aerea israeliana in Siria e Libano. Macdonald infine lascia da parte le rivelazioni riportate, in Italia, sul Corriere della Sera, dal corrispondente Guido Olimpo secondo cui “solo nel '92 verrà rivelato un particolare sconvolgente: ben 8 ostaggi sono stati uccisi dalla polizia”.

Le parole pesano come macigni
Esiste poi un ultimo piano di lettura del documentario di Kevin Macdonald. Quello del linguaggio. Le numerose immagini di repertorio che lo compongono non colpiscono solamente per la forza rievocativa, ma per le parole che i protagonisti adottano per esprimere i loro pensieri. La stampa parla, a proposito del commando di fedayn, di “rivoluzionari”, “combattenti” e “guerriglieri”. Riconoscendo di fatto ai membri del commando “Settembre nero” lo status di soldati belligeranti. La “guerra dei sei giorni” del 1967 non è così lontana. L’opinione pubblica considera Israele una delle parti attive di un conflitto che vede coinvolti molti dei paesi arabi del Medio Oriente. In quegli stessi giorni, sempre il Corriere della Sera, titolava un articolo di Piero Ostellino nel quale il giornalista definiva Israele  un “Stato religioso”, con queste esatte parole “il fanatismo di 'Settembre nero' nasce dal dramma dei palestinesi”. Se si confrontano i sostantivi usati dalla carta stampa e dai commentatori televisivi nel 1972, con quelli letti e ascoltati, di recente, dopo l’invasione di Gaza, non si può non notare la drammatica differenza. Mentre nella striscia l’operazione “piombo fuso” faceva centinaia di vittime, e gli organi di stampa, per volere del governo israeliano, se ne stavano appollaiati sulle colline antistanti il fronte, la qualità dell’informazione cambiava. I soldati di Hamas sono oggi “estremisti”, “terroristi”, “integralisti”. Il conflitto è svanito, oggi abbiamo da una parte uno Stato, quello ebraico, che difende (giustamente) la propria esistenza e dall’altra il nulla. Nella migliore delle ipotesi una deriva fondamentalista che merita di essere cancellata. Ecco allora un'ulteriore ragione per andarsi a rivedere One Day in September. Perché come scrive Erodoto nell’invocazione iniziale del suo testo più celebre, Storie, “questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate”. Le imprese certo ma anche le parole usate per tramandarle.

TITOLO ORIGINALE: One Day in September; REGIA: Kevin  Macdonald; SCENEGGIATURA: Kevin  Macdonald; FOTOGRAFIA: Alwin  Kuchler, Neve  Cunningham; MONTAGGIO: Justine  Wright; MUSICA: Alex  Heffes, Craig  Armstrong; PRODUZIONE: Germania/Gran Bretagna/Svizzera; ANNO: 2000; DURATA: 94 min.

 


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