Ben nascosto dietro la cinepresa. Il cinema di Jim Sheridan PDF 
Tiziano Colombi   

Regista irlandese classe 1949, Jim Sheridan ha all’attivo sette film, una carriera ormai ventennale, un numero di premi e candidature agli Oscar non trascurabile. Eppure sono in pochi a considerarlo un vero autore.

Esordio datato 1989, titolo Il mio piede sinistro, protagonista Daniel Day-Lewis, attore feticcio con il quale Sheridan girerà altri due film, Nel nome del padre (1993) e The Boxer (1997). È la storia di Christy Brown, pittore e scrittore irlandese totalmente paralizzato ad eccezione del piede sinistro appunto. Il film è tratto dall’autobiografia dell’artista, morto nel 1981, il quale amplierà il testo traendone un romanzo di grande successo, Down all the days. Ed è una dichiarazione programmatica di intenti, un uomo che combatte contro il mondo sordo che lo circonda nel tentativo di riemergere dal margine nel quale è stato confinato. Tutta la filmografia di Jim Sheridan è percorsa dal medesimo sentimento di riscatto, tutti i suoi personaggi hanno subito un trauma o vivono una condizione di partenza particolarmente sfavorevole, tutti però trovano il modo di rialzare la testa.

Nel nome del padre è il racconto drammatico di uno dei più grandi casi di persecuzione giudiziaria della storia della Gran Bretagna. Gerry Conlon, Gerry Paul Hill, Paddy Armstrong e Carole Richardson furono ingiustamente accusati e condannati per l’attentato compiuto dall’I.R.A. in un pub di Guilford a Londra nel 1974, a causa del quale persero la vita cinque persone. Conlon e i suoi amici scontarono, innocenti, quindici anni di carcere, vittime della legislazione d'emergenza approvata nel Regno Unito tra il 1973 e il 1974 che permetteva alla polizia di trattenere i sospettati in carcere per sette giorni. Lasso di tempo durante il quale, in seguito a pressioni di ogni tipo, questi venivano costretti a firmare confessioni del tutto inattendibili. Anche questo film è tratto da un racconto autobiografico dello stesso Conlon, Proved Innocent. Sheridan attinge costantemente alla realtà, alla cronaca, mette il suo cinema al servizio delle storie. E forse, proprio questo sistematico rivolgersi all’esterno, lascia fredda la critica. Un regista bravo a scegliersi le vicende da filmare, ma che mette poco di se stesso nelle immagini che usa per raccontarle.

Prima dell’autorialità viene la forza della narrazione, l’impatto dei protagonisti, la presenza schiacciante degli attori. Daniel Day-Lewis non solo vincerà un Oscar con l’interpretazione ne Il mio piede sinistro, ma troverà, grazie a film girati con Sheridan, quelle notorietà e autorevolezza che il mondo del cinema non gli aveva riconosciuto ai suoi esordi (Domenica maledetta domenica, 1971), costringendolo per lungo tempo al solo palcoscenico teatrale. In Get Rich or Die Tryin' (2005) il dominus del film è il famoso rapper 50 Cent. Sono la sua redenzione, il suo racconto (ancora una volta autobiografico), la sua presenza a dominare la scena. Il regista fa la parte del comprimario. Anche in un film minore è più intimo come The Field (1990) l’attenzione è tutta rivolta agli attori e alla loro direzione. Sheridan non ha a che fare con un racconto che ha scosso l’opinione pubblica come nel caso dei “quattro di Guilford”, o con la storia di un personaggio ingombrante come 50 Cent, eppure anche qui decide di rimanere ai margini. Rappresenta forse un'eccezione il film In America – il sogno che non c’era (2002), nel quale il racconto delle tribolazioni di una famiglia irlandese costretta a trasferirsi a New York è guidato da Sheridan con perizia e attenzione fotografica più marcate. La frammentazione dei punti di vista, con una delle figlie della coppia che si muove sempre con una piccola telecamera in grado di scrutare i dettagli minimi del disagio del padre, e la coralità della messa in scena, fanno emergere maggiormente il lavoro dietro la macchina da presa.

Sheridan manda avanti i suoi uomini, le truppe d’assalto del suo cinema sono soldati alla ricerca del riscatto, è un “uno contro tutti” nel quale dominano le facce taglienti di Day-Lewis e  50 Cent, le vicende di personalità forti come Christy Brown e Gerry Conlon (che riceverà in parziale risarcimento di una vita distrutta le scuse del primo ministro britannico Tony Blair). Lo spazio che rimane è stretto, la regia smette di essere arte e diviene mestiere. Certo sorge il dubbio se ciò sia un difetto o, al contrario, una qualità ormai rara. L’ultimo film di Sheridan, Brothers, sembra fornire nuovi argomenti a chi legittimamente ha trascurato la sua figura. Si tratta infatti di un remake del film di Susanne Bier, Non desiderare la donna d’altri (2004), riveduto e corretto in salsa hollywoodiana. Cast stellare, con il divo Toby Mcguire capace di un’insospettabile grande prova d’attore e qualche aggiustamento in sede di sceneggiatura, opera di un nome pesante come David Benioff (La 25°ora e Il cacciatore di aquiloni). La domanda che torna è sempre la stessa. Quanto terreno resta alla personalità e al lavoro del regista? Di sicuro non quella dell’autore originale e factotum dell’opera. Un male? A guardare il film non si direbbe. Ben bilanciato, piacevole, probabili candidature per gli attori all’orizzonte e, cine-panettoni permettendo, discreto successo al botteghino. Con i tempi che corrono non è il caso di strapparsi i capelli se abbiamo un genio in meno e un buon artigiano in più.

 


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