Non nel mio nome e non più misericordia. “Io sarei anche socialista, se i socialisti credessero in dio”, dice uno dei grandi borghesi dal fascino discreto messi in scena da Buñuel, con una battuta - destinata a diventare aforisma e quindi a perdere parte della sua complessità a favore dell’“effetto” - che si porta dietro una “verità” dal peso enorme. La religione, nata quale “fatto” a-storico e privato con lo strutturarsi della società umana è diventata al contrario lo strumento intorno al quale il potere ha organizzato il proprio domino, l’argine che ha saputo contenere nel corso dei secoli la rivolta dei deboli sui forti. Religione e istituzione religiosa si sono evoluti come una cosa sola, una forza storica e pubblica dietro la quale i potenti hanno potuto sentirsi al sicuro per due millenni o poco meno. I borghesi sarebbero socialisti se il socialismo non rifiutasse quell’organo di prevenzione e controllo della rivolta che è stata, ed è ancora, la religione. Se garantisse i loro interessi raccontando una favola seducente a quella marea umana che sta sotto, affamata e soprattutto spaventosa: quando saranno morti verrà il regno millenario della giustizia, ma solo se seguendo la retta via ognuno saprà rimanere al proprio posto. Gli ultimi saranno i primi se sapranno accontentarsi in vita di essere ultimi; una volta morti saremo tutti uguali, ma qui e ora, nell’ordine voluto dal signore e mantenuto dai signori, siamo diversi e la sofferenza non è che il prezzo per essere, dopo, più vicini a dio. E di quel dopo nessuno avrà mai certezza.
Con La via lattea, quattro anni prima de Il fascino discreto della borghesia, Buñuel ha realizzato il suo film forse più programmatico e teorico, non a caso concluso da una didascalia che informa della veridicità delle dispute teologiche esposte lungo il cammino surreale dei suoi protagonisti. Ogni disputa è un modo per nascondere agli uomini l’indicibile, la menzogna di una sovrastruttura che organizza il regno della sofferenza dei molti: due nobili spadaccini duellano a colpi di fioretto e iperboli linguistiche, mentre si stringono la mano, lontana dai loro occhi, una giovane suora si fa crocifiggere per soffrire quanto gesù cristo. Un gesù, quello che vaga sul cammino di Santiago, parallelo nello spazio e nel tempo ai due viandanti beckettiani, lontano dallo stereotipo di vulgata dell’uomo caritatevole e pieno di compassione, quello dei vangeli interpretati sempre con troppa fascinazione per il sacro. Un personaggio calcolatore dal sottile cinismo che espone con chiarezza il disegno di cui la sua chiesa si farà portatrice, con la spada e non con il ramoscello d’ulivo: mettere gli uomini gli uni contro gli altri, allontanarli da loro stessi nell’illusione di avvicinarli a dio attraverso un amore e un bene che hanno creato solo dolore, sofferenza, l’inferno dell’ingiustizia sulla terra.
Lo sguardo di Buñuel è uno sguardo ateo, nel senso che non ha interesse nel negare il divino, semplicemente lo precede, ed è in grado di osservare il mondo dominato dalla sua volontà con il disincanto di chi ama troppo gli uomini. Anatemi, dogmi, disquisizione filosofiche e filologiche non diventano così che un modo per opprimere chi antepone la fede - non tanto alla ragione nella quale Buñuel, lo dimostrano le sue architetture formali, narrative e filosofiche, ha poca o nessuna fiducia - quanto alla propria vita terrena, alla propria carne. Che di fatto, in assenza di prove contrarie, è tutto quello che resta agli essere umani.
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