Dove risiede il confine tra genio e sopravvalutazione? Dove dimorano gli effettivi meriti di un autore che secondo molti ha rivoluzionato il genere horror e secondo altri l'ha anche distrutto? In cosa è riscontrabile l'effettivo valore di Wes Craven? Maestro? Icona? Leggenda vivente? E se alla resa dei conti Craven avesse realizzato soltanto quattro film importanti e fondamentali nella sua lunga carriera, mentre tutti gli altri potrebbero essere giudicati come discutibili, supponenti e inutili? Provocazione o realtà?
E' innegabile che l'inizio di carriera di Craven sia stato folgorante. Nessuno come lui ha saputo cogliere l'aria malsana e intimorita di un'America sconvolta dalle onde di riflusso del Vietnam e della Guerra Fredda, rivoltando gli stomaci di spettatori indifesi di fronte ad un mondo che non era più lo stesso, crudelmente inseguiti, assediati e sconfitti da un incubo senza fine.
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L'ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi hanno saputo mietere schizzi di sadismo e corruzione filmica come forse mai era accaduto prima, trainando l'horror verso una concezione socio-politica sporca e brutale, e mettendo le basi per una sindrome del cinismo condivisa nei medesimi anni da Tobe Hooper, fautore della distruzione definitiva di ogni sogno di pace e di fuga dalla vita. Due film che hanno saputo spingersi oltre al consueto concetto di rappresentazione naturalistica della realtà, portando la violenza, la vendetta e il cannibalismo a ergersi come specchi rifrangenti di un periodo storico capace di portare alla luce ogni nefandezza insita nei cuori di un'umanità vacua e confusa. Craven, con questi due capolavori, ha anticipato i miasmi dello splatter anni '80, dotando l'horror di una nuova vista e di un nuovo esempio da seguire e imitare. E se forse, già da qui, fosse poi iniziato il declino del regista di Cleveland? Possono bastare due soli film, realizzati con pochi mezzi e senza un nome altisonante, per esaurire gran parte della creatività di un autore? Stiamo estremizzando, ma non del tutto.
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In fondo, se tralasciamo due pellicole ben poco significative come Il mostro della palude e Benedizione mortale, ci vuole più di un lustro prima che Craven torni a creare alcunché di significativo. Parliamo ovviamente di Nightmare, di Freddy Krueger, dell'eroe degli anni '80, di un film bellissimo e importante, coraggioso e illuminato, che ha avuto il solo torto di partorire, negli anni seguenti, una serie di mostri (dicesi seguiti) senza capo né coda, fino a che l'autore ha voluto riprendere in mano la propria creatura, in Nightmare - Nuovo incubo, gettandosi proditoriamente nei territori minati dell'autoreferenzialità narrativa, intraprendendo una strada che lo avrebbe condotto verso il nulla. Nel frattempo, tra il primo e l'ultimo Nightmare, un solo, grande film: Il serpente e l'arcobaleno, viaggio oscuro e realmente inquietante nell'universo voodoo, pellicola disturbante che recupera lo spirito di sfida dei due primi lungometraggi, l'indipendenza a tutti i costi pur di non scendere a patti con niente e nessuno, e la voglia di estrarre l'orrore dalla realtà e di mescolarlo con il sogno, per giungere alla definizione precipua del terrore come rappresentazione fisica e mentale di paure ataviche e incontrollabili.
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Svariati anni, produzioni e collaborazioni trascurabili, un solo grande film, e tanti mediocri: da Sottoshock, stanco e inutile tentativo di proporre un novello Krueger e al contempo di porre in essere una critica massmediologica lontanissima per efficacia a Videodrome di Cronenberg, a Dovevi essere morta, contaminazione horror/fantascienza più che banale, a un inedito - in Italia - seguito de Le colline hanno gli occhi di cui nessuno sentiva il bisogno. Si salva La casa nera, piccolo ma interessante film sbarrato però dalla tracotanza di identificare senza ritegno i due malvagi protagonisti con Ronald e Nancy Reagan.
Ecco il concetto cardine, che ci induce a riflettere sull'effettivo valore di Craven, la supponenza. C'era bisogno, avvicinandoci gradualmente ai giorni nostri, di far indossare a Eddie Murphy i panni del non-morto per Vampiro a Brooklyn, horror-comedy edulcorata e irrimediabilmente asfittica? C'era bisogno, una volta ottenuto il successo di pubblico e critica con Scream, di affondare la propria vittoria con due seguiti che altro non sono se non presuntuosi giochini alla lunga insopportabili? E lo stesso Scream, indiscutibilmente importante non solo dal punto di vista cinematografico, è merito di Craven o è forse per la quasi totalità dote dell'ispiratissima sceneggiatura di Kevin Williamson? E infine, amaramente parlando, c'era bisogno di riesumare dalla tomba il mito del lupo mannaro, dopo che George Waggner, Lon Chaney Jr., Joe Dante e John Landis ci avevano già detto tutto, per tentare inutilmente di farlo rivivere in un teen-movie perbenista e a dir poco sconfortante come Cursed?
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Confrontiamo Craven, i cui (ribadiamo: pochi) capolavori resteranno peraltro marchiati a fuoco nell'immaginario dell'horror, con un Cronenberg, ancora in splendida forma e autore negli ultimi anni di eccellenti pellicole come Crash e Spider, oppure con un Carpenter o un Romero, recentemente spesso inattivi ma non certo per colpa loro, o con Lynch, che con Mulholland Drive (indirettamente citato in una sorta di curiosa autodenigrazione nello stesso Cursed) ha creato un film di sublime e commovente maestria e di cinema puro nella più alta definizione del termine, o con Yuzna, che nel suo piccolo e genuino mondo splatter-gore non delude mai le aspettative, o con lo stesso Hooper, che con The Toolbox Murders ha dimostrato come la tenacia, la passione e la semplicità possano ancora portare a risultati più che onesti, e chiediamoci: Wes Craven è stato davvero un genio dell'horror? Ai posteri, o, meglio, al giudizio soggettivo, la verità. Forse in realtà è stato soltanto un regista discreto, in grado di sfornare non più di quattro/cinque buoni film in trent'anni di carriera, ma capace di sovrastimarsi con maestosa continuità fino a perdere totalmente di vista il sentiero dell'ispirazione, e a rinnegare senza rimpianti i suoi esordi gloriosi. Provocazione o realtà?
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