La promessa PDF 
Enrico Maria Artale   

ImageIl terzo lavoro di Sean Penn regista,  La promessa, è forse il più ambizioso tra i film che hanno preceduto Into the Wild. Ma questa ambizione, che da sempre è una cifra peculiare di Penn, sia come attore che come regista, determina una caratteristica  ambiguità: si tratta infatti di film che mette in difficoltà la critica in virtù della tensione interna tra intenzioni autoriali, variamente concretizzatesi, e declinazioni commerciali, con ampie concessioni alle convenzioni del genere. Certo una dinamica di questo tipo è tutt'altro che estranea al grande cinema americano, con sviluppi assai differenti tra cineasti diversi, come ad esempio, a livelli altissimi, Scorsese e Michael Mann. In questi autori tale tensione passa attraverso raffinatissime sfumature e innato talento registico, rendendo possibile una pluralità di livelli di lettura perfettamente integrabili tra loro in funzione di un pubblico ampio. Ma è un meccanismo che si è approfondito nel tempo. La difficoltà del film di Penn è forse dovuta alla relativa inesperienza del regista che, pur a fronte di un’abilità incontestabile, sembra aver tagliato con l'accetta il conflitto tra cinema d'autore e cinema di genere, propendendo a favore del primo quando forse il secondo poteva rivelarsi più veritiero.

Alcune scelte di Penn costruiscono fin da subito la forza dell'idea: innanzitutto è frutto di una intuizione intelligente la trasposizione del famoso romanzo di Friedrich Durrenmatt nell'ambiente nordamericano, nelle piccole città immerse nelle nevi ai confini degli spazi inabitati. Assolutamente indovinata, per la parte del protagonista, la scelta di Jack Nicholson, capace di dare vita all'ossessione senza eccedere nell'istrionismo. Altrettanto determinante, poi, la volontà di Penn di escludersi come attore dal film. Non perché sia da evitare in generale la coincidenza di attore e regista, quanto perché le peculiarità della sua recitazione rischierebbero di caricare drasticamente il film stesso, già di per sé sopra le righe, consapevolmente eccessivo. Infine, già nella stesura della sceneggiatura, è stato svolto un ottimo lavoro sulla figura del personaggio principale, costruendo una dimensione molto soggettiva e personale senza ricorrere particolarmente alla voce fuori campo. Sean Penn e la sua produzione si sono dotati di una base sufficiente per poter ottenere un risultato di qualità, il che è determinante per un regista che non ha un’esperienza tale da permettergli di estrarre un grande film da una situazione cinematograficamente debole in partenza. Come del resto sarebbe stato lecito aspettarsi da un attore, il punto di forza restano le caratterizzazioni dei personaggi, già curate nella sceneggiatura ma elaborate con abilità sul set: probabilmente si tratta di una costante del cinema di Penn, se è vero che anche l’ultimo lavoro si sostiene sulla concretezza delle figure rappresentate. Ciò non è dovuto esclusivamente alla scelta di un cast di altissimo livello, anche per le piccole parti, per quanto si può dedurre da ciò una grande attenzione da parte dell’autore, se non un certo perfezionismo, per l’importanza di ogni singola interpretazione. A parte il cast emerge l’abilità indiscussa nel dirigere gli attori, facilmente ipotizzabile, e la più sorprendente capacità di seguirli alla giusta distanza con la camera, senza voler eccedere nella forzosa indagine psicologica, e tuttavia mantenendosi in un rapporto di forte partecipazione affettiva. In questo modo l’indubbio spessore narrativo del protagonista, il detective interpretato da Jack Nicholson, si integra perfettamente con i personaggi marginali, altrettanto credibili nonostante le loro apparizioni siano generalmente piuttosto brevi.

ImageIl trattamento dell’opera di Durrenmatt, che rischiava di aprire le porte ad una pericolosa e poco gestibile astrazione ideale (il romanzo è incentrato filosoficamente sull’impossibilità della ricerca razionale della verità), fa si che la narrazione si radichi nella concretezza filmica, soprattutto grazie ai personaggi e all’ambiente. In virtù di tale concretezza lo spettatore percepisce la solidità strutturale del film, la forza della sua costruzione. Questa percezione può ricordare alcuni film di Clint Eastwood, laddove senza dubbio è la stessa esperienza attoriale a rendere possibile una tale forza sotterranea. Si può pensare a quell’affresco straordinario che è Mystic River, in cui non a caso Sean Penn fornisce una delle sue migliori interpretazioni: un film impressionante per  la capacità di tenere insieme un realismo inoppugnabile e una elaborata dimensione riflessiva, filosofica, morale. Ma proprio la tendenza verso un analogo e delicato equilibrio è ciò che mette in crisi il film di Penn. Non perché ciò risponda ad un’ambizione necessariamente fuori dalla portata del regista, quanto perché le modalità filmiche in cui tale aspirazione si dispiega risultano cinematograficamente inessenziali. Vogliamo dire che era inevitabile e doveroso che un romanzo come La promessa non fosse del tutto schiacciato su una storia poliziesca, ma volendo evitare ciò Penn ha scelto la strada apparentemente più facile, quella dell’alterazione stilistica. A fronte di una costruzione solida e di una classicità sostenuta dagli interpreti, il regista cerca di complicare la situazione attraverso degli artifici espressivamente insufficienti: rallenty, ripetizioni, visioni, accelerazioni di montaggio, etc. Quello che apparentemente poteva segnare un distacco dalla narrazione semplice del cinema di genere finisce per assomigliare ai più fastidiosi cliché di un cinema odierno che cerca disperatamente una strada autoriale nel virtuosismo tecnico (a dir la verità qui non si può parlare di virtuosismo, essendo tale spinta fortunatamente trattenuta). Non che questo sia di per sé elemento negativo, ma si tratta di un virtuosismo generalmente vuoto, inespressivo, non vitale (è un’ombra che aleggia anche su registi di sicuro talento, come ad esempio Iñarritu, altro autore con cui Penn ha lavorato).

ImageLa difficoltà del film, di cui si accennava all’inizio, è dovuta dunque al contrasto tra questa apprezzabile e meritevole solidità di base e gli orpelli di una regia che non sempre dà l’impressione di voler andare fino in fondo, accontentandosi invece di elementi superflui. Probabilmente la paura più grande di Penn era quella di girare un film di genere, un poliziesco, ma questa paura non lo ha portato verso il cinema d’autore, anzi. Si è detto di casi esemplari quali quelli di Scorsese, di Mann, di Eastwood; si può ragionevolmente pensare che in questi cineasti lo statuto autoriale non sia mai stato oggetto di una ricerca, soprattutto nei loro primi film, ma la conseguenza di una realtà individuale. Per questo hanno potuto inserire una visione del mondo all’interno del film di genere. Se vogliamo fare un esempio in qualche modo più vicino a Penn, per esperienza personale e tipologia della storia, possiamo riferirci ad Insomnia di Christopher Nolan. Ci sono infatti alcune affinità narrative con La promessa: innanzitutto la solitudine del detective, la difficoltà ad interagire con una realtà sempre più invivibile, la presenza straniante del paesaggio nordico. La differenza sostanziale sta invece nel fatto che Nolan parte dalla consapevolezza del territorio filmico in cui si muove, che è pur sempre quello del genere poliziesco, e cerca di districarsi in esso inserendo i suoi temi cruciali, anche e soprattutto attraverso elementi stilistici, ma mai superflui e svuotati di una funzione che si integri nelle convenzioni del genere. Invece Sean Penn introduce dall’esterno gli orpelli della tecnica, come se ad essi fosse affidato il compito di spostare il fulcro convenzionale del film. Di fatto rinuncia più o meno consapevolmente alla suspense quale elemento emotivamente indispensabile del thriller, privandosi però di un fattore cinematografico che appartiene all’impostazione stessa della storia, di per sé non molto lontana dalle convenzioni.

ImageÈ dunque questo il peccato maggiore del regista, il non aver saputo gestire adeguatamente la tensione tra intenzioni autoriali e cinema di genere. Ciononostante si ha la sensazione che, pur non essendo un capolavoro, il film abbia dei pregi notevoli e che in qualche modo Penn possieda la consapevolezza di quelli che sono i suoi difetti. Rivederlo alla luce di Into the Wild contribuisce ad accrescere notevolmente quest’impressione, e la conseguente fiducia che Penn possa veramente diventare un regista di alto livello in pochi anni. Non solo infatti ha saputo trovare, nell’ultimo film, un equilibrio molto più profondo tra le convenzioni di un genere, in questo caso il road movie, e le proprie intenzioni personali, ma in esso ritroviamo alcuni nodi tematici che erano ampiamente presenti ne La promessa, a dimostrazione di come il sostrato dei film di Penn non sia affatto vuoto, ma anzi il suo interesse costante per determinati elementi lasci intravedere lo spessore di uno sguardo autoriale pressoché maturo. Soprattutto è encomiabile la scelta istintiva di andarsi a confrontare con alcuni dei temi fondativi dell’intera cultura americana, con i cardini della sua tradizione storica e letteraria: prima di tutto, ovviamente, la tensione verso la wilderness. Se nell’ultimo film questo tema profondamente americano è il fulcro dell’intera riflessione, nel precedente appare tutt’altro che marginale. Non solo le cittadine in cui è ambientata la vicenda si trovano sostanzialmente ai confini degli spazi abitati, ma il protagonista stesso sembra essere perennemente tentato dalla natura che ha davanti ai suoi occhi, un mondo privo delle bassezze morali che agitano la piccola comunità; un mondo in cui, soprattutto, la domanda sul senso non ha ragion d’essere, in cui è escluso a priori l’imbarazzo esistenziale del protagonista di fronte al quesito: “perché Dio ha permesso che la mia bambina fosse uccisa?”

ImageCosì è l’intera contrapposizione, romantica e tragica, perché irrisolvibile, tra mondo della natura e mondo degli uomini a sostenere la visione del Penn autore. In entrambi i film l’esito sarà drammatico, in modo quasi speculare: se il protagonista di Into the Wild sarà sconfitto dalla natura stessa, e troverà la morte, il detective interpretato da Jack Nicholson sarà annientato dall’insensatezza del mondo degli uomini, dal caso, dall’assurdità della sua ossessione. In questo caso la follia, e non la morte, sarà la tragica conseguenza. La solitudine dei due personaggi di fronte al conflitto filosofico è anch’essa una filiazione diretta della cultura americana, da Jack London a Thoreau (più volte esplicitamente citato in Into the Wild). Anche alla luce di questo parallelo con La promessa, si capisce come il protagonista dell’ultimo film, e il suo viaggio, abbiano poco a che fare con la cultura hippy, ma risalgano a radici preesistenti, cui anche gli hippies si rifacevano in una versione differente, arricchita, e in gran parte anche banalizzata. La necessaria conseguenza di questa solitudine esistenziale è che la gioia più profonda dell’individuo, nonché l’unica possibile ricerca di verità, passa essenzialmente per la contemplazione. È l’atteggiamento contemplativo che, lungi dall’essere una mera assenza di iniziativa, può dare forma ad una differente visione del mondo, pur consapevole dell’ineluttabilità del conflitto su cui l’uomo poggia le proprie radici.

È il grande tema del cinema di Werner Herzog, autore assai lontano da Penn, ma che in qualche modo può indicare la strada filosofica al regista americano. Se quest’ultimo tuttavia sarà intenzionato a proseguire nella sua formazione, e nell’evoluzione del suo percorso personale, non potrà prescindere dal contesto produttivo del suo cinema e da tutto ciò che esso comporta. Ci sono elementi per sperare che l’abbia capito definitivamente.


TITOLO ORIGINALE: The Pledge; REGIA: Sean Penn; SCENEGGIATURA: Jerzy Kromolowski, Mary Olson-Kromolowski; FOTOGRAFIA: Chris Menges; MONTAGGIO: Jay Cassidy; MUSICA: Klaus Badelt, Hans Zimmer; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2001; DURATA: 124 min.

 


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