Maledetti Vi Amerò: ne ammazza più la depressione, che la repressione PDF 
Francesca Mautino   

Nel 1980, Marco Tullio Giordana, al suo esordio come regista, gira il film Maledetti vi amerò, ambientandolo nel 1978, poco dopo l'uccisione di Aldo Moro, lo spartiacque degli eventi, che, a discapito di chi quella morte l'ha effettivamente provocata, ha portato all'annientamento ed eliminazione di qualsiasi forma di protesta, verso un allineamento progressivo delle coscienze. Riccardo, detto Svitol (interpretato da Flavio Bucci), ritorna in Italia dopo cinque anni di esilio in Venezuela. È un “compagno”, uno che, come si usa dire, “ha fatto il '68” ed è stato costretto a scappare per evitare una denuncia per rissa che, scoprirà, non è mai nemmeno stata emessa. Svitol è un astronauta che torna sulla terra dopo essersi perso in un buco nero e scopre che il tempo ha davvero cambiato le cose, che le conseguenze delle azioni si fanno sentire e la paura ha preso il sopravvento. Le lotte, le proteste, la rivoluzione cercata dai compagni del '68 non sono servite a nulla: solamente un gioco finito male.

Ancor prima dei titoli di testa, vediamo Svitol aggirarsi in una fabbrica abbandonata, tra i macchinari fermi. Balla e batte le mani come si faceva per accompagnare i cori nelle manifestazioni e celebra così un mondo passato, ormai in rovina. Il suo richiamo, “Classe!”, rimbomba tra le mura vuote, mentre abbandona le inquadrature e lo sguardo si sofferma sulle macchine, sui muri scrostati e sull'assenza di persone: i luoghi assumono importanza se noi diamo a essi importanza, e la fabbrica, ormai, da luogo cruciale e punto di partenza per un rinnovamento in positivo delle cose, si è trasformata in accumulo di macerie e ferri inutilizzabili. Non rimane che rincontrare quelle figure contro le quali aveva combattuto, per ritrovare un senso di sé nella lotta: la Madre e il Commissario, che non hanno nome proprio, essendo simboli, archetipi.

La Madre è l'istituzione della famiglia, che lo accoglie in casa e sul cui grembo piange. La donna è ossessionata dalle Brigate Rosse, e ascolta in continuazione la registrazione delle voci degli assassini di Moro. La famiglia, il fondamento dello Stato, teme, ormai ossessivamente, per la sua sicurezza e Svitol parla con lei guardandola attraverso uno specchio: la paura della donna è lontana anni luce dallo straniamento del figlio che necessita di schermi di protezione per comunicare, quasi non la potesse, o non osasse più, dopo quanto successo, guardarla direttamente negli occhi. Poi c'è il Commissario, il nemico di un tempo, il potere dello Stato che si esprime attraverso la repressione e l'arresto. Le conversazioni tra Svitol e il Commissario scandiscono il film. Il vecchio nemico è diventato l'unico che sappia davvero illuminare le cose e renderle per quelle che sono, senza che vengano ingarbugliate dalle maglie dell'ideologia. I due sono seduti l'uno di fronte all'altra, in un'atmosfera fumosa e opaca da film noir, separati da un continuo campo-contro campo: è un confronto alla pari, il loro. Ed è lo stesso Commissario che lo porta a chiedersi che fine hanno fatto “i compagnucci” di un tempo che, a quanto dice il poliziotto, dopo l'assassinio di Moro si sono differenziati, chiamandosi fuori dalle conseguenze di ciò che erano stati in grado solamente di ipotizzare.

Svitol parte così alla ricerca, casuale in gran parte, dei vecchi amici e non può che rimanerne deluso: alcuni si drogano, avendo trovato nel “buco” un mezzo di evasione dal reale, altri sono in procinto di partire, lasciandosi alle spalle l'Italia, come fa l'amico che gli affida la casa e che sostiene di volersene andare perché “qua le cose si decompongono”. Dopo avere capito che è ormai diventato inutile combattere, ci si abbandona a se stessi, si scappa oppure ci si allinea. Così come fanno, inconsapevolmente, tutti gli altri. Invitato a una festa in un'antica villa di campagna, Svitol osserva da vicino la Decadenza. I dissidenti di un tempo ora si nascondono, estranei al mondo, e si esprimono come se fossero personaggi di un film scritto male, per modi di dire, plagiato. E procedono annoiati, offrendo cocaina (la droga dei ricchi) definendola “le ceneri di Gramsci”, quasi come se lo sniffare quella polvere rappresentasse davvero un funerale: il funerale della coscienza. E Svitol, da parte sua, non può fare altro che soffiare in direzione dell'obiettivo, buttandola in faccia allo spettatore. Come un bambino di fronte a un giocattolo che desidera ardentemente, si fa regalare da un partigiano “la scatola dei colori del compagno Di Vittorio” e la mostra poi come l'oggetto più prezioso che possiede, un cimelio, che lo rappresenta, così come ha visto fare all'amico partito per Londra che, indicando le cose di casa sua, affermava essere rappresentazioni di tutta la sua vita. Allo stesso modo Svitol cerca degli appigli nel reale, qualcosa a cui aggrapparsi, un sistema di valori nuovo, ma del quale possa anche lui fare parte. È per questo che si ritrova a classificare le “cose di destra e quelle di sinistra” (classificazione che verrà ripresa da Gaber in una celebre canzone) in v.o mentre lo vediamo aggiustare una bicicletta e, come un bambino intento al gioco, ad auscultarne l'ipotetico cuore con uno stetoscopio. Non è scegliere di fare una cosa o non farla che ti determina ormai, ma è l'apparenza che le si attribuisce, che determina l'appartenenza a l'uno o l'altro schieramento.

Ma, è vero, “ne uccide di più la depressione che la repressione” e Svitol, incapace di vivere in questo mondo che ha compreso fin troppo bene e incapace di trovare in esso un ruolo, un'appartenenza, compie l'unica scelta possibile: far tornare le cose com'erano un tempo. In un duello finale con il Commissario, che ricorda un western (non a caso le scene con il Commissario sono, per così dire, “di genere”, almeno nella mente di Svitol), si fa uccidere, fingendo di volere uccidere lui, per primo. E riducendo le lotte e le proteste a quello che diceva il partigiano che, affermava essere la Resistenza solo “puzza, paura e buche di fango.” Facendosi eliminare dal potere, ritrova un posto nella società. Assumerà agli occhi di tutti il ruolo di dissidente, di terrorista, ma almeno si tratta una scelta, sicura, netta, senza sfumature, opacità o nebulose disquisizioni politiche. Maledetti Vi Amerò mostra un problema di identità, in una continua analisi del proprio io, della necessità di definire se stessi attraverso gli altri, attraverso ciò che gli altri vedono di noi. Un film costruito sugli archetipi: potere, famiglia, amici, nemici, in cui l'individuo spaesato si guarda intorno e deve tracciare il proprio ruolo e non avendo alternativa si fa uccidere, dandosi un senso nella morte. Svitol diventerà una di quelle figure ritratte sul suo “muro dei fantasmi”, sopra il quale ha ricalcato le sagome dei morti di quegli anni (Moro, comunisti, fascisti, senza distinzione) per le quali ha deciso di provare pietà perché nella morte, loro, sono diventati davvero tutti uguali. 

 


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