The Others - Alejandro Amenabar PDF 
di Barbara Rossi   

"La paura del buio, la paura delle porte chiuse e degli armadi, ma in generale la paura di qualsiasi cosa che potesse nascondere qualcuno o qualcosa": queste sono - per sua stessa ammissione - le paure infantili del giovane regista cileno - spagnolo Alejandro Amenàbar, con The Others alla prima prova hollywoodiana dopo Tesis (1996) e Apri gli occhi (1997), di cui Tom Cruise ha acquistato i diritti e recentemente girato il remake dal titolo Vanilla Sky.

In effetti, tutte e tre le opere prime dell'esordiente Amenàbar ruotano intorno alla tematica della paura, che a volte si trasforma in terrore allo stato puro, a volte rimane invece sul filo di un'inquietudine più sottile e snervante: "Quella di Tesis è una paura che deriva dalla violenza, in Apri gli occhi, invece, dall'incertezza del futuro. In questo ultimo film è il rapporto con la morte e il soprannaturale che genera inquietudine e paura".
E' retorico sottolineare come le paure personali di Amenàbar, quelle stesse paure che lui trasferisce nei suoi film, siano indici significativi di un'angoscia più generalizzata e profonda, figlia del secolo appena trascorso, con i suoi relativismi filosofico - culturali, ma non solo; si tratta anche di un'angoscia generazionale, figlia delle incertezze di una folta schiera di trentenni (Amenàbar è del 1972) in crisi di crescita.

Dice il regista, "The Others per me è una metafora del mistero della vita e della morte": noi aggiungiamo, di ciò che crediamo di conoscere ma in realtà non conosciamo affatto, una critica all'imperante raziocinio occidentale, che - a furia di classificazioni - non è più in grado di vedere.
In ultima analisi The Others si qualifica anche un discorso sul mezzo cinematografico come grande prestigiatore e, nello stesso tempo, rivelatore di verità misteriose (ma solo per chi è in grado di decifrare il suo linguaggio, di captare la forza delle sue allegorie).
Anne (Alakina Mann) e Nicholas (James Bentley), i due terrorizzatissimi bambini protagonisti del film, costretti a vivere immersi in un'oscurità perenne o al limite in una appena tollerabile penombra, riproducono la stessa condizione degli spettatori in sala, come loro alle prese con singolari, impalpabili presenze (i personaggi sullo schermo) che al pari dei sogni rifiutano la fredda realisticità della luce.
Le immagini iniziali di The Others, sulle quali scorrono i titoli di testa, ricordano le illustrazioni di un racconto per l'infanzia o le figurine irreali di un teatrino d'ombre, perché il film è anche e soprattutto questo, uno scherzo degli occhi e del senso.

Sul piano del contenuto e ad una lettura superficiale The Others appare come un condensato dei romanzi di paura per adulti, una storia di fantasmi e di ossessioni religiose; poi - come nel gioco delle scatole cinesi - si rivela la narrazione di un orrendo delitto e della nevrosi che ne sta alla base; ad un livello più profondo è la rappresentazione della moderna crisi dell'individuo e della conseguente scissione della coscienza: il riferimento è a una realtà soprannaturale, ma è del nostro mondo, del nostro sistema di conoscenze che si vuol parlare.
Si sprecano - a questo proposito - le contaminazioni, i collegamenti incrociati fra letteratura cinema e cultura popolare: Amenàbar pesca dal gran calderone dell'immaginario collettivo (è notevole lo sforzo intersemiotico richiesto allo spettatore), dai sogni, dalle fiabe di magia, dalla letteratura fantastica e - in particolare - dal romanzo gotico (vedi i motivi topici della casa infestata, del bosco incantato, della soffitta stregata); colloca la propria storia nell'isolamento spazio - temporale delle Isole del Canale - 1945 - stemperando con nebbiose atmosfere jamesiane (Il giro di vite) e un'eleganza formale tutta europea la labirinticità di una struttura narrativa hitchcockiana (con colpi di scena alla Shyamalan de Il sesto senso, 1999).

E come dimenticare quel pizzico di surrealismo bunueliano che pervade l'intera opera? Certo, il citazionismo in alcuni momenti può risultare eccessivo, ma rimane comunque il segnale più tangibile della funambolica bravura e della competenza culturale di Amenàbar.
Nicole Kidman (Grace), poi, è straordinaria nella sua dolorosa, granitica compostezza, nel suo algido mistero. Anche per la sua interpretazione si è messa in campo una ridda di riferimenti: alla Deborah Kerr di Suspence (1961), di Jack Clayton, alla Ingrid Bergman di Angoscia (1944), di George Cukor, mentre lei stessa ammette di aver preso a modello le figure di donna di Grace Kelly nei film di Hitchcock. A nostro parere, invece, la bravura della Kidman consiste proprio nell'aver saputo dar vita a un personaggio così complicato emancipandosi da ogni possibile archetipo: ci basti dire che risulta fastidiosamente convincente.

Segnaliamo due scene, quella d'apertura con in primo piano il lungo urlo di Grace, introduzione e presagio di un'inquietudine lunga novantacinque minuti, e quella finale, che a sorpresa scardina le convinzioni dello spettatore, riproponendo all'infinito la pirandelliana domanda: "Chi sono gli altri?"

 


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