My eye will go on. Titanic e lo sguardo sul mito PDF 
Nando Dessena   

La Reuters annuncia il 27 gennaio che James Cameron con il nuovo Avatar, che ha già raggiunto al botteghino la vertiginosa cifra di 1.859 milioni di dollari, ha battuto il record d’incassi superando i 1.843 che facevano di Titanic il maggior successo al box office di tutti i tempi. Certo, è da considerare il fatto, non da poco, che la visione in 3D con il prezzo maggiorato ha fruttato il 72% degli incassi mondiali, ma rimane tuttavia innegabile che il regista/produttore nordamericano sia una vera gallina dalle uova d’oro per la Fox/Paramount. Parlare di cinema in cifre può sembrare triviale, o anche noioso e poco stimolante, ma è senza dubbio un buon punto di partenza per un discorso sull’opera di James Cameron, in cui le caratteristiche produttive delle pellicole rivestono un ruolo fondamentale sul risultato artistico, stilistico ed espressivo. Sarebbe certo curioso vedere il cineasta canadese, da sempre impegnato in megaproduzioni con budget da capogiro, dirigere un kammerspiel a costo zero, ma, visti i risultati ottenuti negli anni e la strada che Cameron ha imboccato ormai con entusiasmo e successo, si può dire con matematica certezza che ci si aspetta da lui una visione sempre più tecnica ed elaborata del cinema del futuro. In qualche modo, qualsiasi plot venga sviluppato, il cinema di Cameron vive in un rapporto di simbiosi con la tecnologia, tale che ogni suo film può essere tranquillamente ascritto al genere fantascientifico. La realtà fenomenica, ibridata con il mondo fittizio dell’animazione digitale, offre delle visioni mutanti che spingono ineluttabilmente a considerazioni sulla natura cyberpunk di tutto il cinema di Cameron, e la tecnologia, intesa come complemento della realtà, può in qualche modo esserne considerata la chiave di lettura.

Senza volersi addentrare in un infinito (e avvilente) discorso semiotico si può comunque fare a questo proposito riferimento alla tassonomia rappresentativa/referenziale dei segni proposta da Pierce: basti pensare alla differenza tra indice ed icona. Semplificando al massimo si può affermare che l’indice intrattiene una relazione diretta, contigua con il referente reale di cui è in qualche modo emanazione (si pensi all’immagine fotografica analogica), mentre l’icona è piuttosto una ricostruzione del reale, arbitraria se si vuole, ricalcolata, e dunque perfettamente calzante con l’idea della rielaborazione digitale della Computer Generating Imagery (CGI). Abbiamo l’indice, l’immagine cinematografica e, in Titanic ad esempio, le riprese del relitto, abbiamo l’icona, le ricostruzioni digitali e, a livello diegetico, un ritratto di Rose che ci riporta indietro nel tempo e che è testimonianza, con maggior forza probabilmente dell’indice stesso, del grande amore inabissato e, per completare la tassonomia, abbiamo il "cuore dell’oceano", il gioiello che di tale amore è il simbolo. Ma accettiamo veramente l’idea di una progressiva dematerializzazione della realtà, quella percepita direttamente con i nostri sensi? Quella, per intenderci, considerata a livello macrofisico che evita le implicazioni microfisiche sull’esistenza della materia proposte dalla scuola di Copenaghen che tanto hanno influenzato il periodo fisico-quantistico del cinema di John Carpenter? Se si accetta, come si proponeva, l’idea apocalittica di una dissoluzione totale della fisicità si finisce come i cervelli in vasca del romanzo Gray Matters di Hjortsberg o, se si preferisce, già che ci siamo, come i protagonisti di Avatar... Non c’è modo in realtà, e in questo ci viene (fortunatamente!) incontro la teoria sul virtuale di Tomas Maldonado, di sfuggire alla nostra fisicità e alla concretezza e tangibilità del mondo circostante. Certo, a livello simbolico e metaforico parlare di dematerializzazione fa un certo effetto, ma esagerare con il misticismo e l’idealismo è totalmente ingiustificato.

Tornando a noi dunque, la sinergia del realismo ontologico dell’immagine cinematografica e della sempre più avanzata CGI, lungi dall’affrancarci da una percezione sinestetica della realtà, offrono possibilità prima inimmaginabili alla creatività, e James Cameron, questo è il suo più grande merito, sembra uno dei pochi cineasti, insieme a Spielberg e Zemeckis, realmente capaci di dominare i nuovi mezzi a disposizione e piegarli alle proprie esigenze. Prendiamo per un attimo in considerazione il cinema horror, che solo apparentemente, insieme alla fantascienza, si discosta dal nostro discorso: a ben vedere, infatti, la direzione intrapresa dal genere senza dubbio più controverso di tutti gli anni Ottanta vira verso una contaminazione degli altri generi cinematografici con alcune tra le marche caratteristiche tradizionalmente proprie. Si vuole puntare l’attenzione in particolare sull’effetto speciale, appannaggio un tempo del solo cinema fantastico perché le mutazioni della cosa, per utilizzare una suggestione carpenteriana, non ne sono più esclusiva proprietà. L’attenzione morbosa, a volte sessuale, per il corpo e per l’ibridazione del corpo stesso con l’apparato tecnologico che il cinema di Cronenberg, di Ridley Scott, e dello stesso Cameron (se si pensa a Terminator nella fattispecie), ormai sono migrati anche su altri lidi. A questo punto l’idea della tecnologia, dell’effetto, non tende più alla mera rappresentazione di una realtà altra, di un immaginario orrorifico o della messa in scena di una mostruosità altrimenti difficile da esibire. La tecnologia si piega alle esigenze di una ricostruzione del reale. Robert Legato, supervisore degli effetti speciali per Titanic, in un’intervista rilasciata nel 1998 a Repubblica, dichiarava che “per il Titanic ho lavorato due anni, spesso sette giorni a settimana, per quindici, sedici, diciassette ore al giorno. Le novità sono state nel creare acqua sintetica e persone sintetiche, acqua e persone digitali, e nell'utilizzarle insieme in modo tale da dare un'impressione più naturale e reale possibile, affinché non si avesse l'impressione di un effetto speciale. Siamo stati in grado di alternare immagini reali e immagini digitali in modo che gli spettatori non distinguessero più quelle reali dalle altre. Nel momento in cui gli spettatori non distinguono più le immagini reali da quelle digitali, allora il film viene giudicato come tale e non come un successo dell'impiego di nuove tecnologie, proprio perché in tal modo lo spettatore si dimentica della tecnologia che viene impiegata”. La natura ibrida del progetto Titanic lega alla perfezione con quel grande progetto mistificatorio che è il racconto per immagini. Allo spettacolo cinematografico è necessaria la sospensione dell’incredulità, questa è la condicio sine qua non e Cameron ha deciso di investire gli sforzi produttivi su una ricostruzione il più possibile fedele per ottenerla. Il ruolo fondamentale giocato dalla CGI è stato quello, per tornare a Pierce, di creare un’icona talmente simile all’indice da potervisi non solo confondere, ma capace di fornire anche un valore aggiunto: riportare in vita il relitto del Titanic.

Le riprese subacquee, talvolta di matrice documentaristica, hanno segnato l’intera carriera di Cameron, si pensi a The Abyss, considerato da più parti il vero capolavoro del regista, ma già dal primo film, Piranha 2 – The Spawning, sequel di Piranha di Joe Dante, assistiamo a questo tipo di spettacolo del mondo sommerso. Nel prologo, infatti, una giovane coppia di sub cerca di fare l’amore sott’acqua in prossimità di un relitto. Amore di breve durata, inutile dirlo, i due saranno vittime del branco di pesci mutanti carnivori protagonisti della pellicola, anticipando con forse minor poesia (ma in fondo è una questione di punti di vista) la passione ancora una volta idrosolubile di Jack e Rose in Titanic. In questo, il sogno dell’amore senza tempo tipica del melodramma si confonde con l’utopia dello sguardo oltre ogni limite che spinge la regia di Cameron verso sfide sempre nuove in cui la centralità dell’occhio è in ogni caso predominante: l’intervento di autochirurgia di uno stoico Schwarzenegger che letteralmente, bunuelianamente, si cava in Terminator il bulbo oculare è rappresentativo di questa tendenza. Una nuova concezione della visione, un voler vedere sempre oltre o, nel caso di Titanic, un voler rivedere. My eye will go on, appunto. Il fatto, mitico di per sé, di voler esplorare personalmente il vero relitto del transatlantico in fase di pre-produzione la dice lunga sul desiderio già titanico dell’impresa. La ricostruzione in scala uno a uno del modello dell’Inaffondabile per antonomasia è a questo punto, in quest’ottica, necessaria per poter offrire uno spettacolo che sia davvero grande, che riesca a creare un cortocircuito tra le pulsioni avveniristiche della poetica dell’autore e il senso di attesa spettatoriale che rende unico questo tipo di operazione. In questi casi il cinema gioca alla ridefinizione degli archetipi, e Cameron è abilissimo nel riuscire a proiettare il proprio immaginario influenzando l’immaginario collettivo. La critica spesso rivolta a Titanic riguarda soprattutto l’ostentazione dei cliché, ad esempio la celebre inquadratura cristologica che vede Jack e Rose volare sulla prua fallica della nave, o il concetto abusatissimo dell’amour fou che abbatte le rigide distinzioni di casta attraverso un amplesso tra prima e terza classe consumato in un’auto di lusso.

A ben vedere è proprio questa la forza della pellicola, una volontà di tematizzare il culto che è un tematizzare il meccanismo stesso della creazione del culto. Senza ombra di dubbio Cameron non fa altro che utilizzare il Titanic come un grosso e aguzzo spiedino con cui inforcare tutta una serie di banalità e consuetudini, ma lo fa ovviamente con cognizione di causa. Il nostro Umberto Eco si pronunciò anni fa in maniera illuminante sul procedere sgangherato dell’arte contemporanea a proposito del funzionamento di quell’ipertesto che è Casablanca, ovvero una sorta di antologia per cinefili che trova la propria forza nella deriva del postmoderno. Il caso Titanic è emblematico a questo proposito non tanto sul versante delle citazioni, in fin dei conti il vero bricoleur del cinema contemporaneo è Tarantino non James Cameron, quanto proprio sul frangente dei cliché, degli stereotipi. L’investimento affettivo, emozionale dello spettatore, a differenza del transatlantico, non trova un iceberg/ostacolo, ma centinaia di scogli a cui aggrapparsi. Come dire, ce n’è per tutti, sia per il lettore semantico che per il lettore semiotico. Il cinema riacquista l’aura del periodo classico. Dall’utilizzo di young stars come Leonardo di Caprio e Kate Winslet in cui identificarsi, all’attrazione/esibizione dell’effetto speciale capace di far rivivere il respiro della Storia, dal prologo documentaristico/scientifico alla cornice/ricordo di una protagonista che quella storia l’ha vissuta veramente. Abbiamo infine, non dimentichiamolo, una colonna sonora con la quale James Horner (Enya a quanto pare rifiutò l’offerta di Cameron) strizza ruffianamente l’occhio alla tendenza new age di fine millennio riadattando all’uopo le notevoli capacità interpretative della pop-star Celine Dion.

Siamo di fronte dunque a uno degli esempi più riusciti di film/operazione della storia del cinema, in cui la macchina mainstream ha perfettamente centrato il bersaglio, lo ha letteralmente colpito e affondato, è proprio il caso di dirlo. Difficile trovare una ricetta infallibile per la creazione di un cult movie. Alcune volte l’operazione riesce, vedi Titanic, altre volte decisamente no. Giocare sull’accumulo sembra funzionare, e sembra funzionare anche il cambio di registro, o meglio, la commistione dei generi. Cameron rielabora il meccanismo narrativo tipico del film catastrofico in cui una situazione, familiare in partenza complicata, o quantomeno ingarbugliata, trova rinnovata vitalità e speranza in seguito alla tragedia a cui tuttavia il nucleo protagonista riesce a scampare, sia essa un terremoto, un’invasione aliena, un incidente aereo o qualsiasi altra spassosa circostanza disgraziata. Titanic ci propone una coppia apparentemente inconciliabile, quella formata da Jack e Rose, separata da un gap culturale e soprattutto sociale visibilmente incolmabile. La cesura è netta, ma ben presto i due scopriranno un amore al di la dei confini, sugellato da una connotazione iconografica prettamente mirata all’esaltazione di tale nuovo status idilliaco sul quale incombe tuttavia la minaccia che ogni spettatore già conosce. Nessuno si aspetta che il Titanic nel film di Cameron possa schivare l’iceberg, quello che ci sta a cuore è il destino dei due innamorati. Sua maestà il melodramma fa a questo punto il proprio trionfale ingresso sotto le mentite spoglie di un cubetto di ghiaccio troppo grosso nel melenso cocktail sapientemente miscelato in fase di sceneggiatura. L’effetto sorpresa denigrato già da sir Alfred Hitchock non ha ovviamente nessun valore, ma una buona dose di genuina suspense accompagna l’inesorabile incalzare del disastro mentre il livello dell’acqua sale e l’abisso lentamente deglutisce quello che sappiamo già essere un relitto. Ma che ne sarà di Jack e Rose, che ne sarà del grande amore? Si spera fino all’ultimo. "La presi fra le mie braccia e mi trascinai fin sull’orlo della zattera. La feci scivolare nell’acqua. Non volevo rimanesse in quell’inferno. E se non c’era un palmo di terra, lì, per custodire la sua pace, che fosse il profondo mare a prenderla con sé. Sterminato giardino di morti, senza croci né confini. Scivolò via come un’onda, solo più bella delle altre". Così scriveva Baricco in Oceano mare e così vediamo Jack scivolare via. Acqua, che tutto sommerge e lacrime, a profusione.

La sobrietà del melò d’autore, quello dei Martin Ritt, dei Michael Cimino o dei Francis Ford Coppola, è lontana anni luce, ma anche l’ortodossia del melodramma classico è riproposta sotto un’ottica nuova che definire manierista pare tuttavia riduttivo. Del resto Titanic, pur avvicinandosi all’artificiosità tipica dell’ipermelodramma contemporaneo, quel melodramma che fa del sovraccarico semantico il proprio punto di forza, non giunge mai a sacrificare la partecipazione emotiva dello spettatore. Cameron è consapevole e sfrutta anzi la capacità mistificatoria e seduttiva dell’artificio: come già sottolineato, la volontà è quella del grande inganno. Contrariamente al categorico e brechtiano rifiuto di Sirk e Fassbinder di una verosimiglianza che possa avvicinare lo sguardo anziché distanziarlo criticamente dalla messa in scena, in Titanic ogni sequenza tenta di avvolgerci, di afforgarci. Ci rendiamo conto che Cameron è riuscito a colmare quella voragine nell’immaginario melodrammatico cinematografico che decenni di fruizione televisiva privata, domestica, da soap opera, hanno innegabilmente spalancato. È palese che la nostra video-generazione abbia sviluppato ormai una percezione del patetico plastificata e sintetica, di natura tipicamente pop, in cui il sentimento si materializza nella logica del consumo. Da questo punto di vista probabilmente (e provocatoriamente) la rielaborazione che (un mai più così geniale) Gus Van Sant ha proposto di Psycho è quanto di più vicino a Titanic si possa immaginare. Giocare con il mito in questo caso va oltre la mera cinefilia. E nel caso di Titanic giocare con la Storia serve a Cameron per il proprio progetto mitopoietico. Il transatlantico rappresenta la tragedia nell’immaginario comune, ne è in qualche modo lo stereotipo, e utilizzare tale tragedia non di per se stessa ma come cornice catapulta Jack e Rose, e il loro amore impossibile, direttamente all’interno del mito.

TITOLO ORIGINALE: Titanic; REGIA: James Cameron; SCENEGGIATURA: James Cameron; FOTOGRAFIA: Russell Carpenter; MONTAGGIO: James Cameron, Conrad Buff, Richard A. Harris; MUSICA: James Horner; PRODUZIONE: USA; ANNO: 1997; DURATA: 195 min.

 


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