Salles alla (vana) ricerca del mito Kerouac PDF 
Piervittorio Vitori   

Il primo a provarci fu lo stesso Kerouac, che nel 1957 si propose come regista e interprete del personaggio di Sal (cioè di se stesso), offrendo il ruolo di Dean a Marlon Brando con una lettera che però non ebbe mai risposta. Nel 1979 i diritti del libro vennero acquisiti da Francis Ford Coppola, che provò a mettere il progetto prima nelle mani di Godard (anni Ottanta), poi in quelle di Van Sant (anni Novanta, con l’idea di Brad Pitt come protagonista). Nuovamente, in entrambi i casi non se ne fece nulla. La svolta si ebbe con la presentazione al Sundance Film Festival del 2004 de I diari della motocicletta, quando Roman Coppola, figlio di Francis e presidente della Zoetrope, si convinse di aver trovato in Walter Salles il cineasta adatto a trasporre per immagini Sulla strada. L’incontro tra il produttore e il regista è peraltro più o meno coevo alla riscoperta del “rotolo”, la fantomatica prima versione definitiva del testo che, secondo la leggenda, Kerouac avrebbe steso nell’arco di 3 settimane nel 1951, solo per vedersela rifiutata da una serie di editori e trovarsi così costretto all’opera di revisione che avrebbe portato all’edizione del 1957, cioè al romanzo così come per mezzo secolo è stato conosciuto dal pubblico.

E se è proprio nei confronti del “rotolo” che la pellicola fa professione di fedeltà, bastò la variante “purgata” a mettere in luce i fondamenti di quell’esperienza che di lì a poco avrebbe lasciato il testimone alla non fiction novel di Capote e Thompson in letteratura, e alla New Hollywood per quanto riguarda il cinema. Né vanno trascurati i rapporti con altre forme espressive, giacché la rivoluzione estetica propugnata dagli alfieri del beat si basò sul perseguimento di un linguaggio primordiale e di contaminazioni - in primis con il jazz - che sarebbero poi sopravvissute all’assorbimento da parte del mainstream, forse più in musica e pittura che in letteratura. Da un  punto di vista sociale e morale, invece, apparve preminente non tanto la denuncia della società, già portata avanti in precedenza dal cosiddetto “gruppo di San Francisco”, quanto la ricerca di un’alternativa. Un’alternativa che prevedesse un’affermazione individualistica, quasi una purificazione rispetto agli influssi del conformismo esteriore; la ricerca acquisiva quindi caratteri mistici e spirituali nei confronti dei quali gli eccessi di alcol e droga si configuravano come un mezzo e non come un fine.

Sulla strada pone dunque più di molti altri testi il problema ineludibile di un’interpretazione centrata sul rapporto tra l’artista e la sua opera. È la prospettiva che ha cercato di adottare Urlo, la pellicola del 2010 che ruota attorno all’altro testo fondativo del beat. Il lavoro di Rob Epstein e Jeffrey Friedman alterna quattro livelli di narrazione: una lettura pubblica tenuta da Ginsberg (interpretato da James Franco); lo svolgimento del processo per oscenità che lo vede sul banco degli imputati; un’intervista che gli viene fatta a processo in corso; ed infine, livello che è decisamente il più attraente del film, la resa per immagini animate delle suggestioni che scaturiscono dai versi. Un’operazione non del tutto compiuta e riuscita, ma comunque senz’altro più interessante e coraggiosa di quella di Salles. Pure, del fatto che il tratto saliente di Sulla strada risieda, come accennato, nell’elaborazione, formale ed estetica, che il soggetto/narratore fa della realtà/narrato che lo circonda. Il regista e i suoi collaboratori parevano coscienti: “Il libro […] trascende il puro racconto documentaristico perché è il frutto della capacità di mettere insieme il vissuto e il prodotto dell’immaginazione libera e debordante. Ed è a questo spirito che abbiamo tentato di restare fedeli” (1). Queste le parole di Salles, smentite però da sceneggiatura e messa in scena. La pellicola, infatti, piuttosto che sforzarsi di far mediare la materia narrata dall’istanza del narratore, con il potenziale portato di originalità che questo implicherebbe, si limita ad adagiarsi su un unico livello, quello della pura rappresentazione. Il risultato, come si vedrà, è quello di mortificare i personaggi e banalizzare la struttura dell’opera, finendo con il fraintenderne il senso.

Se c’è una scena in cui pare di poter cogliere lo spirito del libro, quell’imprescindibile dinamica per cui l’osservatore viene (o si sente) modificato dalla percezione dell’osservato, è quella, posta dopo 13’ di film, del concerto jazz: diversi angoli di ripresa, montaggio spezzato e uno sguardo concentrato sui musicisti e sul complesso della folla più che sui due protagonisti. Poi, sulle ultime immagini dell’esibizione musicale, un’apparente voice over che dopo qualche secondo si rivela essere - gancio temporale in sede di editing - quella di Dean, che a posteriori sta commentando il concerto con Sal, al banco del bar. È vero che vari recensori, anche tra coloro che non hanno apprezzato il film, hanno per lo meno lodato la parsimonia con cui viene utilizzato l’espediente della voce esterna; eppure quello appena menzionato è forse il passaggio più audace di tutto il film, non solo per la regia che deroga leggermente dal registro estremamente classico adottato altrimenti, ma anche per la scelta di lasciare i protagonisti, sebbene per pochi attimi, ai margini della messa in scena, ponendoli come soggetti piuttosto che come oggetti di sguardo e di narrazione. Purtroppo, si tratta di un episodio isolato all’interno di una cifra che esaspera la centralità nelle immagini delle figure principali, con il risultato di negare al racconto la titolarità di una prospettiva precisa e di, viceversa, esaltare oltremodo la fisicità dei personaggi. Se infatti su carta questi non vengono chiaramente dettagliati in senso visivo-estetico, il film non riesce ad evitare di trasporli banalmente in volti e corpi. Una traduzione utile a dar conto del loro slancio vitalistico, ma che tende a metterne in ombra la dimensione più drammatica e conflittuale.

È interessante notare come tale dimensione fosse invece senz’altro presente nell’opera di fiction che per prima, nel 1980, portò sul grande schermo (al di là del velo letterario rappresentato da Sulla strada) il rapporto tra Jack, Neal, Luanne e Carolyn. Tratto dalle memorie di quest’ultima, Heart Beat, che coglie i personaggi anche in un periodo di tempo successivo a quello raccontato nel libro di Kerouac, rappresenta per molti aspetti il negativo del lavoro qui in esame: il film di Salles pone l’accento sul nomadismo e adotta un tono sovente leggero, con i tre protagonisti descritti per larghi tratti come adolescenti dediti allo sballo e alla vacanza dalle responsabilità che società e maturità imporrebbero; in quello di Byrum prevalevano piuttosto l’accento sulla stanzialità e una dimensione più drammatica del narrato, con i personaggi presentati come giovani adulti. Una resa che, volendo aderire al dato reale piuttosto che a quello letterario, e quindi scegliendo a priori di non affrontare la complessità di Sulla strada, è comunque capace di offrirci una chiave di lettura del testo di Kerouac, risultando maggiormente in sintonia con l’idea per cui “la versione del ‘rotolo’ di Sulla strada ribadisce il fatto che il racconto non ha a che fare con il divertimento, l’allegria e l’adolescenza. È un racconto di grande tristezza, sull’età adulta e la perdita” (2). Nello specifico, la perdita più evidente all’interno dell’opera è quella della figura paterna: la vicenda si apre con la morte del padre di Sal e si chiude con il mancato ritrovamento di quello di Dean. Questa constatazione, e il concetto che vuole che ai diversi viaggi corrispondano invariabilmente altrettanti ritorni, si sposano con la teoria del “circle of despair”, secondo la quale “l’esperienza della vita è una serie regolare di deviazioni dagli obbiettivi del singolo. […] Kerouac illustra queste deviazioni come una serie di svolte a destra che continuano fino al compimento di un cerchio completo che circoscrive un ‘oggetto’ inconoscibile che è centrale per l’esistenza” (3).

L’On the Road di celluloide opta però, come detto, per una struttura di tipo antitetico. “L'adattamento di Salles segue alla lettera il romanzo, e forse questo è il principale difetto. Il film "narrativizza" un racconto che di narrativo non ha nulla, vuole creare una storia e un filo conduttore tra episodi che di lineare hanno pochissimo, perchè per il linguaggio cinematografico questa storia non è interessante, non apporta nulla allo spettatore e i personaggi non crescono e non imparano. […] Al film avrebbe giovato sicuramente un approccio non lineare, rabdomantico, una catena di pensieri alla Malick (considerando anche l'utilizzo della voce fuori campo) e non una narrazione classica e schematica” (4). È d’altro canto innegabile che questa narrazione presenti diversi punti in comune con i dettami del road movie già abbracciati da Salles ne I diari della motocicletta, film con cui On the Road condivide lo sceneggiatore José Rivera. Due amici (qui con una ragazza in più), un viaggio intermittente e ondivago per spazi aperti, una serie di incontri più o meno significativi, un mezzo di trasporto che diventa (o vorrebbe diventare) icona. Anche qui il viaggio è declinato nei termini della ricerca, ma è una ricerca a cui è difficile affezionarsi, visto che il registro della messa in scena ne raffredda la temperatura. A livello visivo, risaltano l’ampio uso della camera a mano e la desaturazione del colore, elementi che tuttavia fanno ormai saldamente parte della confezione standard del cinema indipendente da grande festival. Ne origina per lo spettatore un senso di distanza, sia nei confronti dei protagonisti che del paesaggio; quest’ultimo peraltro rimane sempre un elemento di sfondo per gli stessi personaggi, con i quali non viene mai davvero posto in una relazione fruttifera (si noti a questo proposito la differenza rispetto ad Heart Beat, dove l’ottimo lavoro in sede di scenografia conferisce un chiaro senso alla freddezza e al grigiore degli interni della lower middle class). Se a livello d’immagine manca quindi un discorso connotativo, questo è invece presente a livello sonoro, ma solo nei termini di un banale (per quanto piacevole) commento musicale extradiegetico, che a livello di significato non si discosta mai dall’interpretazione più immediata che possiamo dare ai vari snodi della vicenda.

Quasi nulle, dunque, le suggestioni che ci vengono dall’aspetto formale dell’opera, con il risultato che vengono vieppiù messi a nudo i limiti della sceneggiatura. L’altro motivo per il quale è difficile affezionarsi ai vagabondaggi dei protagonisti, infatti, è che lo script non ne chiarisce in toto il motore e le finalità. Rivera utilizza bene il tema dell’assenza del padre per caratterizzare Dean nel segno della divisione tra il tentativo di integrazione famigliare e l’impulso alla ribellione (ed è in quest’ottica che si può apprezzare la carismatica performance di Garrett Hedlund), ma non riesce a delineare altrettanto bene la traiettoria di Sal. La ricorrente tensione al movimento vissuta dal narratore, che, anche in virtù dell’interpretazione sottotono di Sam Riley, per lunga parte del film funge quasi da “spalla” dell’amico, sembra priva di una solida ragion d’essere. E alla luce di questo risulta alquanto paradossale e incongruo il finale, dove appare come un “premio” narrativo non solo l’approdo alla stesura del libro, ma anche quella sorta di realizzazione borghese suggerita nella scena dell’ultimo incontro con Dean dall’immagine stessa di Sal, tra abiti eleganti, bella automobile, compagnia rispettabile. È l’ultimo fraintendimento di una pellicola che, grazie allo standard di mestiere che Salles sa comunque garantire, può forse essere goduta nei limiti di un road movie tecnicamente ben costruito ma comunque asettico e impersonale. Peccato però che, come si è visto, la scintilla del beat non si accenda. A conti fatti è questa la delusione maggiore.

Note:
(1) W. Salles, in A. Tonet, “Intervista a Walter Salles”, dal pressbook italiano del film.
(2) J. Birmingham, “The On The Road Scroll”, in Mimeo Mimeo
(http://mimeomimeo.blogspot.it/2009/11/on-road-scroll.html - trad mia).
(3) J. Birmingham, cit. (trad. mia).
(4) E. D’Aniello, “On The Road - recensione”, in Bastardi per la gloria.
(www.bastardiperlagloria.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2763:on-the-road-recensione&catid=2:recensioni&Itemid=5).

 


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