Il mondo dei replicanti PDF 
Umberto Trinchero   

Nel 1982 Blade Runner ha aperto la strada alla progressiva canonizzazione dell’opera di Philip Dick. Da allora il mondo è divenuto sempre più dickiano, quasi adeguandosi agli scenari – più che alle profezie – dei suoi romanzi e racconti. Se il film di Ridley Scott si interrogava sulla natura dell’io attraverso la dialettica umano/androide – e forse non è tanto il robot ad assomigliare sempre più pericolosamente all’uomo, ma l’uomo che è un automa e non lo sa –, nei successivi Strange Days, eXistenz e Matrix (influenzati dalla narrativa cyberpunk, che annovera proprio Dick tra i suoi padri nobili) è l’esperienza del mondo a perdere fondamento e solidità, sostituita da un’illusione narcotizzante. Con Il mondo dei replicanti (e Avatar) la mente e il reale ritrovano una consistenza ontologica a spese del corpo, virtualizzato o meglio, esternalizzato. Se l’avatar di Cameron è il veicolo biologico di una crescita spirituale di stampo “aquariano”, con la promessa di una reintegrazione finale, il corpo in outsourcing della pellicola di Jonathan Mostow è un surrogato robotico, efficace ed efficiente commodity che ottimizza le interazioni della vita sociale, simulacro sdoganato per l’adozione di massa, non più minaccioso, né deviante.

Nel film una tecnologia di derivazione militare – un soldato-drone controllato da remoto, un po’ come i velivoli che sorvolano le aree tribali al confine tra Pakistan e Afghanistan – approda al mercato consumer con una sua variante estetizzante, a cui si possono affidare le attività quotidiane, come andare al lavoro o fare la spesa, rimanendo collegati da casa, interfacciati tramite una cuffia e un monitor. Sembra che così i crimini diminuiscano (e non si capisce perché), anche se le controparti umane sdraiate nei loro lettini appaiono pericolosamente vulnerabili alle violazioni di domicilio. I titoli di testa ripercorrono le tappe della diffusione dei “surrogati”, che in pochi anni arrivano a contare quasi un miliardo di unità, il 90% della popolazione (si tratta quindi del mondo occidentale e qualche annesso). Sperando che almeno gli addetti alle infrastrutture sensibili (centrali atomiche, acquedotti, trasporti aerei e ferroviari) eseguano i loro compiti in prima persona. Giusto in caso di imprevisti, vatti a fidare davvero delle macchine. A combattere l’unanimismo rimane soltanto una comunità ferocemente ostile ai replicanti, guidata da un capo carismatico, il Profeta, dal look rastafariano. Sono piuttosto marginali: vivono in un territorio degradato, un ghetto eufemisticamente definito la loro “riserva”, abbrutiti e indigenti, e tentano un improbabile ritorno alla vita agreste.

Siamo così di fronte a un ulteriore salto evolutivo, un’integrazione esclusivamente neurologica con l’hardware, che archivia la stessa condizione post-human evitando il ricorso agli impianti (labbra, seni, capelli, arti e organi). I surrogati sono belli, in impeccabile forma fisica (le donne tutte attraenti, scollature vertiginose e gambe mozzafiato), congelati in una permanente thirty-something-ness. Quasi dei supereroi, robustissimi e capaci di balzi prodigiosi. Il confronto con i loro controllori è quasi sempre sconfortante. I corpi biologici sono invecchiati, logorati, come se la bellezza e la giovinezza fossero scomparse dalla faccia della terra. A volte il doppione non è semplicemente una bella copia: c’è anche spazio per le confusioni di genere, e qualche sottile perversione. Solo il detective Bruce Willis è meglio del suo surrogato, una versione ringiovanita digitalmente, che sfoggia una capigliatura ritrovata – ma il taglio è a dir poco imbarazzante – e un sorriso idiota. Con un replicante così, si capisce come mai anche Bruce cominci ad auspicare un ritorno ai corpi in carne e ossa, soprattutto per recuperare le sorti del suo matrimonio, pesantemente contaminato dalla surrogazione. Giunge a proposito un problema manutentivo e amministrativo che lo obbliga a rinunciare alla propria replica e ad andarsene in giro col suo corpo umano tra la moltitudine dei manichini. Qui il film, tutto teso a restituirci al più presto l’eroe che conosciamo, rinuncia a indagare lo spaesamento percettivo e le inedite dinamiche relazionali cui deve far fronte il protagonista. Altra occasione mancata, il sesso tra i surrogati: tutti quei corpi perfetti sembrano fatti apposta, e invece vediamo semplicemente i replicanti intenti a procurarsi delle estasi sensoriali con una specie di vibratore high-tech.

Il film, della Disney, si basa su una serie a fumetti di Robert Venditti e Brett Weldele, pubblicata anche in Italia in coincidenza con l’arrivo del film nelle sale. Sembrerebbe che l’adattamento cinematografico si sia preso qualche libertà, non dovendosi forse misurare con l’aspettativa di legioni di fan (come nel caso del prototipo Watchmen). Il plot è incentrato sulla comparsa di una misteriosa arma che sembra capace di bypassare i sistemi di sicurezza dei surrogati, uccidendo anche le persone che li controllano. Un’eventualità sempre scongiurata dalla casa costruttrice, che rischia di scatenare il panico. La derivazione fumettistica assicura una sufficiente dote inventiva: i surrogati possono essere messi in stand-by quando scappa la pipì, o per interrompere una conversazione fattasi troppo impegnativa. In una sala di controllo panottica c’è poi un software malandrino che previene i crimini, e permette di fare uno shutdown d’imperio, previo mandato di spegnimento. E come al solito gli utenti premium sono una categoria di privilegiati a cui è concesso tutto. Purtroppo, nel sottofinale, un’inopinata implosione della moltitudine dei personaggi che sembrano muovere gli eventi con macchinazioni orwelliane finisce per impoverire l’intreccio, e in vista dei fuochi d’artificio conclusivi la sceneggiatura alza troppo la posta, avvitandosi in una discutibile prospettiva catastrofica/salvifica per l’intera umanità, e dilapidando quel poco di buono e di complesso accumulato fin lì.

TITOLO ORIGINALE: Surrogates; REGIA: Jonathan Mostow; SCENEGGIATURA: John D. Brancato, Michael Ferris; FOTOGRAFIA: Oliver Wood; MONTAGGIO: Kevin Stitt; MUSICA: Richard Marvin; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 88 min.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.