Lotta per il territorio: riflessioni su cinema e letteratura, oggi PDF 
Umberto Ledda   

La lotta per il controllo del territorio che la narrazione audiovisiva (più semplicemente, il cinema) e la narrazione verbale (più semplicemente, la letteratura), è iniziata parecchi decenni fa e continua ancora fin d'ora. Il motivo dello scontro è importante: stabilire quale fra i due linguaggi debba avere il ruolo primario nel raccontare storie agli esseri umani.

È un motivo così complesso che è meglio partire da lontano. Quasi tutto ciò che gli uomini imparano del mondo passa attraverso le storie: le convinzioni etiche, estetiche, teologiche, sociali, hanno bisogno di una narrativizzazione per diventare comprensibili e utilizzabili. Esempi a caso: la Bibbia, il mito della caverna di Platone, la cosmogonia etica di Dante Alighieri (solo per dire dell'efficacia: il purgatorio è diventato famoso grazie a lui, prima non se lo filava nessuno, dopo divenne un caposaldo dell'intera escatologia popolare). Le storie sono esempi, traghettano i significati più alti alla portata della mente e della sensibilità umana: non a caso, Cristo raccontava parabole per convincere i suoi discepoli, invece di lasciarli con una più rapida lista di precetti. Sono storie-universo, che mostrano e insegnano, che razionalizzano la realtà e le danno un senso. In secondo luogo, la storie hanno il compito di far sognare gli esseri umani, allontanandoli dal fluire della vita reale per offrire loro isole di immaginazione, realtà da osservare senza esserne responsabili. Le storie visualizzano i desideri e le paure peggiori degli uomini, permettendo loro di sperimentare, in parte, ciò che non potranno vivere oppure è meglio che non vivano. Immedesimazione o catarsi: comodi metodi contro il quotidiano rischio di impazzire. Le storie-sogno sono transfert salutari per evitare che le zone più nascoste della psiche di ognuno finiscano con l'interferire con la vita reale, cosa che sarebbe poco auspicabile in una società civile. E infatti questo tipo di narrazione è nato appena gli uomini hanno iniziato a unirsi in gruppo per evitare di farsi fare a pezzi dalle bestie. Una bella storia di fantasmi fa abbastanza paura da non averne dopo. Una bella storia di omicidi ti evita di provarci anche tu. Una bella storia d'amore e impari le tue stesse emozioni.

Fino alla fine dell'Ottocento, lo strumento con cui gli uomini assolvevano a queste due (strettamente legate ma distinte) necessità erano le parole: pronunciate o messe su carta, comunque parole. Poi arrivò il 1895 e le immagini in movimento diedero all'uomo un altro strumento, un altro linguaggio per poter fare la stessa cosa. Le immagini in movimento avevano un grosso vantaggio rispetto alle parole. Implicavano il coinvolgimento diretto del più importante dei sensi umani, la vista, mentre la scrittura non poteva utilizzarla. Passarono trent'anni e il cinema acquisì anche la possibilità di coinvolgere direttamente l'udito, che per gli umani è il secondo senso per importanza (e praticamente ultimo: tatto, gusto e olfatto vengono ormai usati solo per fini ludici). Il cinema era un'arte arrogante, e dopo trent'anni era già in grado di minacciare la preminenza del linguaggio verbale, moltiplicando le possibilità della mimesi narrativa. La lotta avveniva, e avviene, solitamente a distanza, ma spesso si possono trovare vere e proprie battaglie dirette: quando, cioè, una stessa storia si trova ad avere due versioni: una scritta (che di solito viene per prima, perché la letteratura se non altro ha il vantaggio della maggior anzianità e gode di un certo rispetto reverenziale), e una visiva. La lotta, dopo un secolo, è alle fasi finali. Il cinema sembra in grande vantaggio, ma non si può mai dire. Un paio di riflessioni intorno a due degli ultimi scontri diretti fra i due linguaggi possono chiarire la situazione e i rispettivi equilibri.

Il caso Larsson: riduzione
Le storie-sogno sono storie che vivono del loro stesso fluire, senza portarsi dietro grandi significati e grandi meta-strutture. Esistono per lasciare immaginare gli uomini, sono intrattenimento: se non fosse che, inspiegabilmente, il termine sembra aver assunto un'accezione negativa presso un sacco di gente, nonostante tutti sognino. È il tipo di storie su cui, evidentemente, il cinema sta avendo la meglio, tanto che è difficile trovare anche solo un romanzo che sia stato letto da un numero di persone compatibile con quello degli spettatori del film, fattore necessario per azzardare una comparazione fra le due versioni di una stessa struttura narrativa. Uomini che odiano le donne, romanzo di Stieg Larsson di sorprendente e accanito successo, è uno tra i pochi casi utilizzabili: milioni di lettori, struttura tipica d'intrattenimento e buona qualità. Il romanzo di Larsson sono quasi settecento pagine con due ingredienti: da una parte un intreccio di giallo classico, thriller di vendetta e sangue e thriller complottistico-economico. Dall'altra parte c'è il personaggio di una minuscola hacker gotica dal passato orrendo e con una visione del mondo fascinosamente ambigua, di nome Lisbeth Salander. Questo secondo ingrediente è l'unica, verosimile motivazione al successo del romanzo: il primo, l'intreccio, lo si trova un po' ovunque nascosto sotto titoli e copertine diverse. Alla presentazione del cast della trasposizione cinematografica del romanzo, i fan della versione cartacea sono insorti con l'ardore isterico di chi vede minacciata l'anima stessa dell'opera: l'attrice scelta per il ruolo di Lisbeth era troppo vecchia (nel libro, è una venticinquenne dall'aspetto di adolescente), era troppo grassa (nel libro, un pallido scheletrino), era troppo poco malaticcia e aveva lo sguardo troppo poco insalubre. Era troppo, troppo poco. Era diversa. Il film non era fedele al personaggio chiave, e quindi all'intero libro: di conseguenza, il film faceva schifo, e questo prima che venisse girato. Quando poi il film è uscito, dopo essere stato effettivamente girato, gli stessi fan si sono rappacificati. La protagonista non era più troppo grassa e troppo vecchia. Andava bene, era perfetta, era la protagonista che avevano immaginato, il volto dell'attrice era diventato quello di Lisbeth Salander. Lisbeth Salander attualmente è Noomi Rapace, che evidentemente, però, non è Lisbeth Salander, se non altro per il fatto che è più vecchia, meno magra e più alta. Questo vuol dire se non altro che la produzione svedese ha lavorato bene col casting. Ma non solo. Quindici anni fa il film non l'avrebbe spuntata così facilmente: i lettori non avrebbero perdonato la violazione dello loro personale Lisbeth Salander. Oggi, invece, il romanzo si è docilmente trasformato nelle immagini che lo mettono in scena. Una volta diventata struttura visiva ogni dubbio riguardo all'opera si è appianato, perché semplicemente, la struttura visiva ha preso il posto di quella linguistica. Fa parte di una tendenza abbastanza nuova, ma già piuttosto consolidata, di cementificazione delle figure nate dalla letteratura intorno a un volto d'attore. La stessa tendenza per cui attualmente Aragorn de Il signore degli anelli è Viggo Mortensen e nessun altro, e Harry Potter è Daniel Radcliffe. Un tempo non sarebbe accaduto così facilmente: ci sarebbero stati milioni di Aragorn e milioni di Harry Potter, uno per ciascun lettore, e poi, in subordine, anche quello scelto dal regista. Ma l'arroganza del regista di scegliere un volto – la sua personale visualizzazione – sovrapponendolo a quelli immaginati dai lettori avrebbe irritato il pubblico della carta. Era un vecchio e tipico pregiudizio che vedeva la letteratura come forma di narrazione superiore al cinema, e trovava la sua motivazione in una questione di libertà.

Quando un lettore legge, lavora molto di fantasia, e molto inventa anche
La scrittura non è infinita. Un romanzo è costituito da un numero determinato di informazioni, ma fa riferimento ad un universo completo, dunque infinito. Lo scrittore seleziona gli elementi fondamentali ai fini della sua narrazione, esplicitando alcuni dati nella sua lunga stringa di lettere e parole e lasciando ogni altro alla discrezione del lettore. Tutto ciò che in un romanzo o in un racconto manca alla creazione di un universo completo è quindi delegato alla fantasia del fruitore. Di un ambiente, il narratore descriverà ciò che serve descrivere, il lettore inserirà il rimanente estraendolo dalla propria memoria visiva. Se ad uno scrittore non interessa descrivere l'aspetto fisico del suo protagonista, il lettore creerà un volto al suo protagonista che avrà le caratteristiche fisiognomiche che lui stesso ha deciso. È fra l'altro il motivo per cui una buona fetta della popolazione mondiale crede in un Gesù Cristo di fattezze europee: la tradizione dei Vangeli non dà grandi indicazioni sui lineamenti del messia, e gli europei che si impadronirono del Cristianesimo crearono dal nulla l'immagine di un Gesù inverosimilmente diverso dall'arabo che fu (se si va a vedere l'iconografia cattolica sudamericana, d'altra parte, si vedrà un Cristo sudamericano). Il lettore crea buona parte dell'universo di riferimento del testo che legge fondandolo sulle immagini e le convenzioni della sua sfera personale e culturale, lo influenza profondamente sia per quanto riguarda l'aspetto visivo a cui il testo fa riferimento, sia per quanto riguarda le azioni. La scrittura è finita anche sotto questo aspetto: vengono elencate azioni e movimenti, ma non tutti. Le numerose, anche minuscole, ellissi creano gap nella continuità temporale della narrazione: elementi che non esistono né sono mai esistiti, se non nella mente dello scrivente, impossibilitato a esplicitare tutto (nel qual caso si avrebbe un romanzo infinito, continuamente autogerminante, e quindi impossibile da leggere oltre che da scrivere). Ma il lettore, se vuole credere in ciò che legge (la willing suspension of disbelief è la prima regola delle storie-sogno), deve supporre l'esistenza di questa continuità che il linguaggio non può dargli: inventa dunque, riempie i vuoti, anche in questo caso aiutandosi con la sua memoria e i suoi parametri culturali. Il senso totale di una narrazione linguistica è una sorta di patteggiamento fra due parti: chi scrive e chi legge. Chi scrive è una costante, chi legge no: esistono tanti romanzi quanti sono i lettori. In generale, il linguaggio verbale è del tutto astratto, porta cioè conoscenza senza potersi avvalere direttamente di nessuno dei cinque sensi, che sono le uniche porte fra l'essere umano e l'esterno. Il cinema, invece, offre agli esseri umani bramosi di storie e immedesimazione stimoli diretti ai suoi due sistemi percettivi primari, vista e udito (i quali, da soli, sono in grado di offrire all'ingenuo cervello umano quel senso di compiutezza che è proprio di un universo reale, e dunque più vasto di quello messo in scena). È ovvio che il suo vantaggio in termini di fruizione e di credibilità percettiva è grandioso. Poi, è altrettanto ovvio che neanche il cinema è infinito, e il discorso fatto per le ellissi narrative vale anche per lui. Ma è un fatto che la possibilità del fruitore di interagire con l'universo di riferimento è decisamente limitata, inserendo già stimoli sensoriali diretti, mentre la scrittura ne delega la creazione al lettore Anche ammesso che un film tratto da un testo sia totalmente fedele, rappresenta comunque una presa di posizione: un regista impone al mondo la sua visione. Nel caso di Uomini che odiano le donne esistono quindi parecchi milioni di romanzi, accomunabili per la maggior parte, ma spesso diversi. Il film, quello è e quello rimane, almeno in gran parte.

Per questo, anche se non solo per questo, il vecchio pregiudizio vedeva la scrittura come grande arte dell'immaginazione e il cinema come succursale minore. La letteratura come regno delle infinite possibilità, il cinema quasi come un'allucinazione, visione imposta agli occhi di uno spettatore passivo. Non a caso, si parlava di riduzione cinematografica con un sottotesto non negativo, ma chiaramente gerarchico. Il film tratto da un romanzo era solo una delle opzioni, non necessariamente la migliore. A questo si aggiungeva una questione tecnica di temistiche della fruizione. Il romanzo può permettersi la digressione, l'accumulo e la backstory, il cinema fa quello che può, ma tendenzialmente non deve superare di troppo le due ore: per chi concepiva il romanzo come un sistema organico dove ogni informazione ha un suo senso (nel caso di Stieg Larsson, le sole informazioni preliminari all'azione occupavano circa trecento pagine) i tagli necessari effettuati nella trasposizione erano un chiaro e semplice tradimento. Probabilmente, Uomini che odiano le donne in versione pellicola dieci anni fa sarebbe piaciuto a pochi. Ora, invece, scatena nei milioni di fan la stessa fregola che il romanzo ha scatenato. Interessante non è tanto valutare come il pregiudizio sia svanito, ma con quanta facilità lo abbia fatto, perdendosi nel suo opposto: se prima lo spettatore rifiutava a priori l'ipotesi del regista, attualmente abdica con grande facilità dalla propria. Le immagini in movimento hanno preso il posto del linguaggio verbale come strumento per la narrazione di storie-sogno (se questo vuol dire che l'essere umano medio preferisce ormai la passività dell'immagine a scapito dell'elaborazione personale, oppure se ci sia sotto qualcosa di più complesso, è questione così intricata da occupare interi libri solo per essere introdotta). Va detto, comunque, come in questo caso il cinema giochi sporco: lavorando anche attraverso indagini di mercato su una media ponderata delle aspettative del pubblico e delle immagini personali di ognuno, è in grado di offrire universi precisi e funzionanti per la maggior parte dei possibili fruitori. Di selezionare, cioè, le informazioni da mettere e quelle da non mettere in base ad un metodo scientifico, basato non su un'interpretazione del singolo, ma sull'analisi dell'interpretazione collettiva. In presenza di una doppia versione, scritta e messa in immagini di uno stesso universo narrativo, la versione definitiva sarà (a parità di sforzo e di qualità artigianale nella fattura) quella in immagini. È in corso una massiva globalizzazione dell'immaginario: i sogni collettivi sono così ben prodotti, così ben studiati, che quelli di ognuno sono diventati superflui. Questo non significa che nel caso di Uomini che odiano le donne i fanatici del romanzo smetteranno di pensare alle parole e diventeranno fanatici del film. Ma significa, invece, che la loro visualizzazione dei personaggi e dell'universo narrativo si appianerà docilmente sulla presa di posizione di Oplev. E questo cambia decisamente la prospettiva della percezione di un universo narrativo, e la cambia a favore del cinema.

Il caso Palahniuk: traduzione
Questo per quanto riguarda la narrazione pura di storie. Azione e personaggi, climax e anticlimax. Intrattenimento e immaginazione. Il discorso cambia quando la narrazione smette di essere un fine e diventa strumento per affrontare i territori complessi della riflessione filosofica, etica, estetica, sociale o psicologica. Storie-universo il cui compito è quello di creare, razionalizzare e tramandare senso. È la differenza fra narrativa e letteratura: un conto sono Uomini che odiano le donne, Harry Potter e Il signore degli anelli, un altro sono la Bibbia, oppure la Commedia di Alighieri, o ancora Mattatoio 5 di Vonnegut. Si tratta di storie, ma di storie dallo scopo diverso. Se nel travaso di storie-sogno dalla scrittura alle immagini si può parlare di riduzione, in questo caso il discorso è più complesso, perché il processo riguarda due livelli distinti (non viene meno la struttura pura della narrazione, ma si aggiunge un secondo piano di complessità simbolica), e l'operazione è quella di una vera e propria traduzione. Perché a dover essere messo in immagini non è solo un'immagine di mondo e una visualizzazione coerente e compatta delle azioni e dei personaggi, ma un'intera struttura di pensiero e tutto un campo di risonanze e implicazioni per le quali non esiste una corrispondenza diretta fra lettera e immagine. In più, il cinema ha da questo punto di vista una struttura semiotica decisamente più pronunciata. Il testo scritto non ha la possibilità di inviare più di un’informazione per volta: lo scrivente è obbligato, oltre ad operare una selezione delle cose da dire, anche ad una accurata scelta su cosa dire prima e cosa dopo, cosciente che molti dei meccanismi cognitivi del lettore dipendono proprio dall’ordine e dalla struttura che le informazioni prendono all’interno di quella lunga striscia di segni che è il testo lineare. Il testo visivo ha invece la possibilità di dare la visione totale di un determinato oggetto in maniera del tutto simultanea, come accade nella realtà: l’immagine iconica è già di per se stessa narrativa, porta cioè un determinato numero di informazioni che portano con sé un determinato senso. Un numero cioè potenzialmente infinito di informazioni in un tempo minimo, dove l'osservatore deve stabilire personalmente la loro gerarchizzazione: è lui a decidere, guardando, cosa vedere prima e cosa dopo, e a ricavare un senso da questa organizzazione. Se da una parte il cinema perde molto meno tempo a dover offrire informazioni, dall'altra deve fare molta più attenzione nel controllare quelle che trapelano dalle sue immagini verso lo spettatore. In un film ogni singolo fotogramma è già una struttura complessa di segni. E in un film di fotogrammi ce ne sono parecchi, per cui non viene a mancare nemmeno la struttura orizzontale, articolata nel tempo, propria del linguaggio verbale. Il cinema lavora su un binario doppio rispetto alla scrittura: implica un livello percettivo sia orizzontale che verticale, mentre la scrittura l'elemento verticale è inesorabilmente più ridotto. In altre parole, ha a disposizione molti più strumenti per conferire un determinato significato al di sopra del livello narrativo, ma questi strumenti devono comunque rapportarsi con uno spettatore che li integri: si crea un numero di variabili decisamente più difficile da controllare, e si rischia la dispersione del senso.

Il tentativo (e il fallimento) di trasporre in cinema un'opera letteraria dalle ambizioni complesse come Soffocare di Chuck Palahniuk, da parte del regista esordiente Clark Gregg, può chiarire maggiormente la situazione. Il romanzo superava la narrazione pura e semplice secondo la tipica poetica di Palahniuk: in senso estetico, ma soprattutto in senso sociologico. La letteratura di Palahniuk parte da materiale profondamente basso, ma, attraverso un complesso lavoro stilistico, punta a una visione personale ma plausibile dell'universo contemporaneo, della sua complessità ambigua e, fra l'altro, del profondo ruolo che i linguaggi moderni giocano nelle stesse questioni personali degli individui. C'è quindi un progetto speculativo sviluppato, che richiede, in vista di una messa in scena, di una traduzione efficace che tenga conto degli scopi (che devono rimanere invariati) e degli strumenti che vengono usati per ottenerli (necessariamente differenti). Soffocare di Clark Gregg, pur essendo tratto da un romanzo di grande complessità, è un piccolo film. Dal punto di vista della pura trasposizione, è estremamente fedele al romanzo: lo visualizza alla perfezione, taglia il meno possibile, mantiene completamente i dialoghi, rispetta generalmente i personaggi. Il lavoro di visualizzazione dell'azione e del mondo narrativo è competente e preciso. Proprio per questo motivo il film è dimenticabile, parassitario, in gran parte inutile: la sua fedeltà lo rende estraneo all'opera di Palahniuk. E non è solo colpa della messinscena piatta e di una fotografia di grande sciattezza: anche con una gran fotografia e una regia piena di idee, il film di Gregg poteva al più diventare uno di quelli che i critici amano definire gioiellini: splendenti, ma piccoli. È stata tenuta invariata la struttura orizzontale dell'opera letteraria, ma senza un tentativo di ricreare l'effetto di quella verticale: riduzione perfetta, traduzione nulla. Soffocare era: a) la storia di un americano sessuomane con problemi con la madre morente e un problema di personalità da risolvere, b) un affresco di una società dolcemente e ferocemente nel pallone che cerca di aggrapparsi a strutture di valori anche assurde, pur di avere una struttura di valori. Di tutto questo nel film rimane la prima parte. Occupato nella riproposizione della superficie, Gregg non ha voluto, o saputo, cogliere il vero motivo di interesse del libro (il motivo reale per cui è stato scritto), che non era certo la rosa di ossessioni assurde dei suoi personaggi. Perché l'importante per Palahniuk non era il contenuto delle ossessioni, ma il fatto che i personaggi le avessero, la strategia con cui le mettevano in atto, e il perché ne avessero così bisogno. Tutto questo nel film non c'è.

Il caso di Fight Club (Palahniuk, 1998 - Fincher, 1999) era diverso. Il romanzo era strabordante di intuizioni e offriva un'ipotesi sul mondo contemporaneo estremamente matura, anche se lievemente più pasticciata che nei lavori successivi di Palahniuk. Il film era pieno di difetti e oggettivamente è difficile parlare di capolavoro: ma aveva una statura, una grandezza d'intenti, comunque incomparabile con quella del nuovo Soffocare, che pure parte da un romanzo sicuramente più compiuto e maturo di Fight Club. Fincher, però, mette in scena non tanto la traccia narrativa del libro, quanto la struttura di senso che stava intorno alla storia, utilizzando strumenti diversi e connaturati ai linguaggi per tentare di raggiungere lo stesso punto di arrivo. Spesso non lo raggiunge, ma se non altro ci prova con coraggio, consapevole di come per un testo del genere la fedeltà alla lettera sia un tradimento e non un merito. Il primo passo è quello di sfrondare i piani del discorso, enucleando alcune linee fondanti ed eliminandone altre presenti nel romanzo: il cinema ha più variabili della scrittura, e molto difficilmente può portare allo sviluppo di troppi piani di significato senza entrare in cortocircuito. In secondo luogo, cerca di tradurre nel linguaggio della regia quanto fatto da Palahniuk con i suoi ferri del mestiere di scrittore. Invece di mettere in scena una storia, mette in scena le motivazioni che stavano dietro a questa storia, cercando nello stesso tempo di non massacrare troppo la struttura narrativa. Soffocare, da parte sua, non tenta nemmeno di badare all'intenzione, fidandosi della lettera, e a osservarne le scene sembra di leggere il libro: il che vuol dire che c'è un problema, perché si sta guardando un film. Gregg mantiene intatta l'orizzontalità della lingua, ricalca una stratificazione di sensi che però era strutturata per la carta: il risultato è quello che azioni e battute sono le stesse del romanzo ma quasi mai stanno al posto giusto, come nei testi tradotti dai traduttori simultanei, che eseguono la trasposizione incapaci di comprendere il senso della frase. I film tratti da Palahniuk rivelano la difficoltà di tradurre un testo letterario complesso in immagini che ne rispettino e ne mantengano la complessità. Gregg non ci ha nemmeno provato, Fincher si è trovato a dover semplificare, incapace di gestire una complessità di piani significanti troppo vasta. Il cinema è un arte più complessa della scrittura: implica un numero infinitamente maggiore di stimoli e paradossalmente, pur allargando all'infinito le sue potenzialità, questo lo rende meno maneggevole per trattare sistemi complessi di senso.

La situazione dell'annosa lotta per il territorio fra scrittura e audiovisivo è in fondo meno chiara di quanto non potrebbe apparire. Il cinema è in netto vantaggio sul campo delle storie pure: quando si tratta di sognare gli uomini preferiscono la convincente allucinazione all'esercizio ambiguo dell'immaginazione. D'altra parte, è ancora piuttosto indietro per quanto riguarda la creazione di strutture di significati: il che è paradossale, valutando quali potenzialità abbia un linguaggio che riassume in sé la strutturazione temporale della scrittura e l'immediatezza delle immagini e del suono. La sensazione è quella di un cinema che ancora non ha imparato a maneggiare del tutto la sua mostruosa complessità, la capacità di creare sistemi in cui ogni variabile conduca ad una visione unitaria. Le storie erano nate per offrire un'ipotesi di senso al fluire scoordinato e ambiguo dell'esistente, e da questo punto di vista, la relativa rigidità della scrittura aiutava, perché semplificava, categorizzava, delimitava. Il cinema è più simile alla percezione che gli uomini hanno dell'esistente, e si trova più in difficoltà quando si tratta di maneggiare piani troppo strutturati di linguaggio, incappando nel rischio dell'ambiguità e della disgregazione. È curioso, perché vuol dire che il miglioramento degli strumenti comunicativi ha prodotto una diminuzione della capacità di comunicare sistemi organici e compiuti di senso. Se questo è un problema del cinema, o della civiltà che lo ha creato e lo usa, è un discorso ancora da fare.

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.