Uno sguardo su Yasujiro Ozu PDF 
di Roberto Donati   

Una recente rassegna antologica su Fuori orario, un evento (la messa in onda dell'intera filmografia di un regista) che avrebbe dovuto avere ben altra risonanza, è la speranza che il cinema di Yasujiro Ozu venga scoperto anche dalle generazioni nuove e non necessariamente cinefile.

Un cinema della semplicità: in pratica, un solo tema (la famiglia), un albero da cui dipartono poi rami e frutti variegati ma sempre ruotanti attorno a un nucleo centrale (come il confronto fra cultura arcaica e società moderna, vecchio e nuovo), e una messinscena di imbarazzante sobrietà, apparentemente collegabile alla struttura neorealistica, ma senza la casuale e urgente improvvisazione di cui questa poteva anche avere bisogno. Questi i mezzi e lo stile per arrivare all'assoluto: forse mai nessun altro regista ha messo così a nudo l'essenza dell'esistenza e dei rapporti interpersonali.

Un cinema intellettuale e fieramente povero, popolare e ascetico: Ozu parte dall'essere umano e vuole arrivare all'essere umano, il suo cinema non ha mete prefissate, finisce dall'inizio e comincia dalla fine, invariabilmente e inesorabilmente. Personaggi e contenuti sono l'emblema dell'universalità, così come i sentimenti messi in gioco e le emozioni trasmesse: già, perché in Ozu regna sovrana una tensione esistenziale che nasce dalla banalità e ha, quindi, dell'assurdo. Sembrerebbe allora che la forza artistica della macchina cinematografica non esista: errore, perché è evidente come Ozu – amatissimo da registi contemporanei quali Wenders e Antonioni – si domandi sempre dove posizionare la macchina da presa (a quel punto, che rimanga spesso fissa non ha più importanza: il senso è già presente) e come ogni minima variazione acquisti massimo peso nell'economia del racconto e della simbologia ad esso legato. Così come, in maniera equivalente e speculare, ogni minimo dettaglio ha senso e spessore già nella sua ontologia: celebre il vaso di Tarda primavera che, alternato al volto prima gaio e poi triste della protagonista, relativizza, come riporta Paolo Mereghetti nel suo Dizionario dei film, "la drammaticità di un sentimento umano e, nel contempo, induce a cogliere il carattere universale di quel sentimento di dolore".

Cinema giapponese nella sua forma più spoglia e più nipponica: celeberrimo, almeno per gli addetti ai lavori, il suo sguardo costantemente posato ad altezza di ginocchia. Ma il rigore non è assolutamente mai fine a se stesso né condizione sine qua non per un discorso intellettualmente supponente: in Ozu, se possibile, è l'ironia, saggiamente velata, a smontare le ipocrisie e le certezze dell'essere umano. Un'ironia che non è mai, tuttavia, umorismo pirandelliano né sorriso verde alla Eduardo De Filippo: appartiene in toto allo sguardo levigato e cristallino di un autore che si considera prima uomo che artista, un alito compassionevole ma non patetico sulla condizione umana, che è sì tragica ma potrebbe benissimo anche non esserlo.

Un cinema di corpi e di dialoghi in fieri, fatto di sensazioni e impressioni, mai di giudizi o di dogmi: e questo anche a livello stilistico, visto che Ozu non si chiude in se stesso e nel proprio cinema, e non rinuncia alle possibilità espressive del colore, né, in epoca precedente, a quelle del sonoro. Viaggio a Tokyo è sicuramente la vetta più alta della sua carriera e la summa del suo lavoro di sottrazione e, non a caso, è il suo film più noto anche a livello internazionale: la storia dei due anziani coniugi che si recano a Tokyo a trovare i figli ha risonanze universali. Neorealistiche nello scontro città/campagna, secondo un'ottica che ribalta quella di un film come Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, e addirittura capitalistiche, se si tiene conto che il soggetto è molto simile a quello di Cupo tramonto di Leo McCarey (che Ozu, comunque, dichiarò di non avere mai visto). Ozu, tuttavia, resta ancorato al suo Giappone nonostante le vaste e inconsapevoli aperture culturali e traccia un parallelo fra il tema di un nazione in progress e quello, conseguenza del primo, dell'incomprensibilità fra le varie generazioni.

Da vero artista, Ozu guarda al futuro senza rinnegare il passato (e, in maniera più paradossale, viceversa): echi di una civiltà destinata a essere seppellita dalle macerie del nuovo mondo americanizzato e americanizzante generano malinconia e rimpianto, ma la visione moderna delle cose si preoccupa di celebrare invece la sempre più crescente emancipazione femminile come fonte di speranza e di armonia panica.

Perciò, nei suoi film, e quindi anche in questo, il personale pessimismo non raggiunge mai un afflato cosmico perché, nonostante tutto, la fiducia nelle risorse e nelle possibilità umane è cieca; non ci può, dunque, essere nemmeno determinismo né fatalismo. Le cose, in pratica, possono cambiare: basta volerlo. È questa consapevolezza a rendere il tutto maggiormente illuminante e struggente. E la società esterna, che sembra rifuggire dall'interesse del regista, è analizzata per riflesso dello studio dell'ambiente familiare, vero e proprio nucleo portante di tutto il mondo, culla della civiltà e dell'educazione.

Tra lui e la casa di produzione Shochiku, una sorta di armonica comunione esistenzial-produttiva. Da segnalare la (voluta) povertà di fantasia nella scelta dei suoi titoli (giusto alcuni esempi: Tarda primavera, Tardo autunno, Inizio d'estate, Inizio di primavera, Sono nato ma…, Mi sono laureato ma…), altro mezzo considerato ininfluente e quindi nemmeno da prendere tanto in considerazione).

 


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