Una recente rassegna antologica su Fuori orario, un evento (la messa in onda dell'intera filmografia di un regista) che avrebbe dovuto avere ben altra risonanza, è la speranza che il cinema di Yasujiro Ozu venga scoperto anche dalle generazioni nuove e non necessariamente cinefile.
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Un cinema della semplicità: in pratica, un solo tema (la famiglia), un albero da cui dipartono poi rami e frutti variegati ma sempre ruotanti attorno a un nucleo centrale (come il confronto fra cultura arcaica e società moderna, vecchio e nuovo), e una messinscena di imbarazzante sobrietà, apparentemente collegabile alla struttura neorealistica, ma senza la casuale e urgente improvvisazione di cui questa poteva anche avere bisogno. Questi i mezzi e lo stile per arrivare all'assoluto: forse mai nessun altro regista ha messo così a nudo l'essenza dell'esistenza e dei rapporti interpersonali.
Un cinema intellettuale e fieramente povero, popolare e ascetico: Ozu parte dall'essere umano e vuole arrivare all'essere umano, il suo cinema non ha mete prefissate, finisce dall'inizio e comincia dalla fine, invariabilmente e inesorabilmente. Personaggi e contenuti sono l'emblema dell'universalità, così come i sentimenti messi in gioco e le emozioni trasmesse: già, perché in Ozu regna sovrana una tensione esistenziale che nasce dalla banalità e ha, quindi, dell'assurdo. Sembrerebbe allora che la forza artistica della macchina cinematografica non esista: errore, perché è evidente come Ozu – amatissimo da registi contemporanei quali Wenders e Antonioni – si domandi sempre dove posizionare la macchina da presa (a quel punto, che rimanga spesso fissa non ha più importanza: il senso è già presente) e come ogni minima variazione acquisti massimo peso nell'economia del racconto e della simbologia ad esso legato. Così come, in maniera equivalente e speculare, ogni minimo dettaglio ha senso e spessore già nella sua ontologia: celebre il vaso di Tarda primavera che, alternato al volto prima gaio e poi triste della protagonista, relativizza, come riporta Paolo Mereghetti nel suo Dizionario dei film, "la drammaticità di un sentimento umano e, nel contempo, induce a cogliere il carattere universale di quel sentimento di dolore".
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Cinema giapponese nella sua forma più spoglia e più nipponica: celeberrimo, almeno per gli addetti ai lavori, il suo sguardo costantemente posato ad altezza di ginocchia. Ma il rigore non è assolutamente mai fine a se stesso né condizione sine qua non per un discorso intellettualmente supponente: in Ozu, se possibile, è l'ironia, saggiamente velata, a smontare le ipocrisie e le certezze dell'essere umano. Un'ironia che non è mai, tuttavia, umorismo pirandelliano né sorriso verde alla Eduardo De Filippo: appartiene in toto allo sguardo levigato e cristallino di un autore che si considera prima uomo che artista, un alito compassionevole ma non patetico sulla condizione umana, che è sì tragica ma potrebbe benissimo anche non esserlo.
Un cinema di corpi e di dialoghi in fieri, fatto di sensazioni e impressioni, mai di giudizi o di dogmi: e questo anche a livello stilistico, visto che Ozu non si chiude in se stesso e nel proprio cinema, e non rinuncia alle possibilità espressive del colore, né, in epoca precedente, a quelle del sonoro. Viaggio a Tokyo è sicuramente la vetta più alta della sua carriera e la summa del suo lavoro di sottrazione e, non a caso, è il suo film più noto anche a livello internazionale: la storia dei due anziani coniugi che si recano a Tokyo a trovare i figli ha risonanze universali. Neorealistiche nello scontro città/campagna, secondo un'ottica che ribalta quella di un film come Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, e addirittura capitalistiche, se si tiene conto che il soggetto è molto simile a quello di Cupo tramonto di Leo McCarey (che Ozu, comunque, dichiarò di non avere mai visto). Ozu, tuttavia, resta ancorato al suo Giappone nonostante le vaste e inconsapevoli aperture culturali e traccia un parallelo fra il tema di un nazione in progress e quello, conseguenza del primo, dell'incomprensibilità fra le varie generazioni.
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Da vero artista, Ozu guarda al futuro senza rinnegare il passato (e, in maniera più paradossale, viceversa): echi di una civiltà destinata a essere seppellita dalle macerie del nuovo mondo americanizzato e americanizzante generano malinconia e rimpianto, ma la visione moderna delle cose si preoccupa di celebrare invece la sempre più crescente emancipazione femminile come fonte di speranza e di armonia panica.
Perciò, nei suoi film, e quindi anche in questo, il personale pessimismo non raggiunge mai un afflato cosmico perché, nonostante tutto, la fiducia nelle risorse e nelle possibilità umane è cieca; non ci può, dunque, essere nemmeno determinismo né fatalismo. Le cose, in pratica, possono cambiare: basta volerlo. È questa consapevolezza a rendere il tutto maggiormente illuminante e struggente. E la società esterna, che sembra rifuggire dall'interesse del regista, è analizzata per riflesso dello studio dell'ambiente familiare, vero e proprio nucleo portante di tutto il mondo, culla della civiltà e dell'educazione.
Tra lui e la casa di produzione Shochiku, una sorta di armonica comunione esistenzial-produttiva. Da segnalare la (voluta) povertà di fantasia nella scelta dei suoi titoli (giusto alcuni esempi: Tarda primavera, Tardo autunno, Inizio d'estate, Inizio di primavera, Sono nato ma…, Mi sono laureato ma…), altro mezzo considerato ininfluente e quindi nemmeno da prendere tanto in considerazione).
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