Landis, maestro dell'orrore PDF 
Matteo Marelli   

Per sua stessa ammissione, John Landis non pensava di doversi considerare uno dei “Masters of Horror”, sebbene il suo lupo mannaro avesse profondamente segnato l’immaginario collettivo divenendo tra le figure più significative del genere. Perché la vocazione di Landis è quella della commedia, con la voglia di lavorare sui generi rileggendoli ironicamente. Ha sempre cercato, attraverso il consolidamento della comicità demenziale, di rovesciare dall’interno i meccanismi dell’industria culturale e di incrinare a colpi d’insolenza la facciata conformista della società. Il suo cinema è l’annientamento programmatico della rappresentazione positiva e rassicurante dell’America.

Eppure spettò proprio a lui spiegare al pubblico del Torino Film festival del 2004 la genesi del progetto ideato da Mick Garris, che lo vedeva coinvolto insieme a John Carpenter, Joe Dante, Tobe Hopper, Guillermo Del Toro, Stuart Gordon, Larry Choen, Don Coscarelli e Bill Malone. Un progetto antologico ispirato, più che al classico Ai confini della realtà, a prodotti similari degli anni Ottanta come Storie incredibili e Tales from the Crypt. La partecipazione alle due stagioni della serie televisiva (prima con Leggenda assassina e poi con Family) è da leggersi nei termini del ritorno. I due episodi dei Masters of Horror per Landis hanno infatti rappresentato, da un lato, l’occasione di tornare dietro la macchina da presa dopo un periodo d’inattività, dall’altro, di potersi riconfrontare coi registri dell’horror comedy, abbandonati dopo Amore all’ultimo morso. Proprio attraverso la commistione di commedia e horror, Landis è stato capace di fare della risata un meccanismo attraverso il quale esorcizzare le paure accompagnando lo spettatore in un percorso di demistificazione dell’orrido. Del resto, come messo in evidenza da Bianchini: “se tanto la paura quanto il riso liberano, viene naturale chiedersi: a che cosa portano il riso e la paura insieme? È presto detto: liberano due volte. È un paradosso, naturalmente, ma nemmeno tanto. Perché dall’incontro è proprio il meccanismo di esorcizzazione (o di rimozione, […]) che esce rafforzato. Ci si libera dei propri incubi con una paura controllata, e ci si libera di quest’ultima con il riso” (1). Ma la prassi del cortocircuito linguistico ha anche permesso a Landis di mettere in ridicolo le convenzioni di genere, smontandole pezzo per pezzo, non in chiave di parodia, ma lavorando sui cliché, mettendone causticamente a nudo le convenzioni e portando lo spettatore a ridere degli stereotipi, del modello stesso sedimentatosi nella sua memoria.

Va subito detto che il mélange di humour e horror non raggiunge più gli esiti altrettanto felici del passato, a dimostrazione sia della difficoltà della ricetta che di un certo esaurimento creativo da parte dell’autore, che sembra ormai essere incapace di riproporre gli stilemi e le sperimentazioni linguistico-narrative sublimemente anarchiche degli esordi, di quando era energia pura allo stato pellicolare. Ciò nonostante, anche in questi due tasselli minori della sua filmografia sono rintracciabili le costanti del cinema di Landis. In primis l’amore per gli outsiders, da sempre figure sodali del regista attraverso le quali saggiare gli umori della società perbenista e coercitiva. Dwight Faraday, il detective sottoposto a mobbing di Leggenda assassina, che gioca la sua partita nel cuore stesso delle tradizioni americane, confrontandosi direttamente con il Mito (qui incarnato dalla figura della donna cervo, proveniente dai racconti dei nativi), è un reietto tanto quanto Harold Thompson, protagonista di Family, serial killer in cerca (anzi, in “fabbricazione”) di consorzio domestico, che riunisce i cadaveri delle sue vittime in colorati quadretti casalinghi per soddisfare un desiderio di idillio familiare, raggiunto a prezzo di abili contorsioni al di là e al di qua della linea dell’etica e della morale. Sono due borderline, coinvolti in situazioni paradossali, dalle quali il grottesco emerge, come un’escrescenza maligna, tra le pieghe di una realtà assolutamente ordinaria.

Soprattutto in Family l'ordine esterno non trova allineamento con il furore delle viscere, e il sorriso e l'apparente ordinarietà continuano a nascondere, come tanti ci hanno insegnato (da Hitchcock a Lynch, solo per citarne alcuni) segreti inenarrabili. La cifra sovversiva di questi personaggi – e del cinema – di Landis è questa: l’escluso che entra nel cuore delle istituzioni mostrandone così l’aspetto guasto e minaccioso. Va però detto che da The Stupids in poi lo sguardo di Landis sembra essersi fatto più pessimista, più cupo. I protagonisti dei suoi film (dunque anche quelli sopra citati Leggenda assassina e Family) non sono più degli outsiders che stravolgono il sistema, bensì sono all’interno del sistema stesso. Non è più l’emarginato che penetra nell’America di plastica, ma è quest’ultima che si ripropone disperatamente ad un’altra America affondata sotto il peso di un’immagine che non può più sostenere. Lo sguardo di Landis continua a sezionare il proprio paese senza però più distruggerlo. Sembra sia impossibile, oggi, cambiare le cose, pare dirci il regista. Non si può che osservare lucidamente che alla fine John Blutarski non è mai divenuto senatore, mentre invece Doug Niedermeyer è diventato presidente.

A ritornare è anche la riflessione condotta attorno al corpo, di cui Landis ha sempre fornito un’altra concezione, mutante, sempre in bilico su se stessa e sempre citando(si) addosso, come in Leggenda assassina, dove la coesistenza uomo-mostro, come possibile causa delle misteriosi e feroci uccisioni su cui Faraday è impegnato ad indagare, si  connota con il precedente film (che la sceneggiatura richiama direttamente in causa mettendo in relazione il caso specifico con uno “accaduto a Londra nel 1981”). Altra cifra stilistica, poi, è quella di una narrazione dove sovrannaturale e reale si mescolano senza fare confusione, creando uno spazio tangibile di senso che rimane equilibrato tra i due stadi. Quello di Landis è un cinema fatto di un continuo passaggio (talvolta efficacemente non dichiarato) tra realtà e sogno, vedi le tre diverse ricostruzioni dell’omicidio immaginate dal confuso protagonista di Leggenda assassina, o le battute a sfondo sessuale, divertenti nella loro atrocità, che Harold Thompson immagina gli siano rivolte dalla sua vicina di casa. Si tratta di una pratica divertita che riflette inevitabilmente sul cinema e sul suo dispositivo. Perché la comicità di Landis, così come quella dei fratelli Zucker e Jim Abrahams, si è sempre mossa lungo i confini della riflessione metafilmica, da leggersi anche come una sorta di rimpianto per un cinema che per l’appunto richiedeva in primo luogo l’ingenuità ai suoi spettatori, un tipo di cinema basto su rigorose convenzioni narrative e stilistiche oramai improponibili.

Note:
(1) Lorenzo Bianchini in D. Maroni e E. Rosati (a cura di), Note di paura: le nuove frontiere del cinema horror, Granata Press, Bologna, 1991, p.43.

TITOLO ORIGINALE: Masters of Horror: Deer Woman; REGIA: John Landis; SCENEGGIATURA: John Landis, Max Landis; FOTOGRAFIA: Jon Joffin; MONTAGGIO: Mark L. Levine; MUSICA: Peter Bernstein; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2005; DURATA: 60 min.

TITOLO ORIGINALE: Masters of Horror 2: Family; REGIA: John Landis; SCENEGGIATURA: Brent Hanley; FOTOGRAFIA: Jon Joffin; MONTAGGIO: Mark L. Levine; MUSICA: Peter Bernstein; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2006; DURATA: 60 min.

 


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